A Giovanni Armillotta, studioso e collaboratore di molte prestigiose riviste italiane e straniere, nonché autore di numerose pubblicazioni, si deve il libro I popoli europei senza stato. Viaggio attraverso le etnie dimenticate, uscito quest’anno per la Jouvence Editoriale (nella collana Ordine e Caos)...

A Giovanni Armillotta, studioso e collaboratore di molte prestigiose riviste italiane e straniere, nonché autore di numerose pubblicazioni, si deve il libro "I popoli europei senza stato. Viaggio attraverso le etnie dimenticate", uscito quest'anno per la Jouvence Editoriale (nella collana Ordine e Caos), acquistabile inviando un'e-mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Il libro tratta "di quelle che sono comunemente conosciute come semplici regioni di Stati europei: Bretagna, Catalogna, Cornovaglia, Fær Øer, Frisia, Friuli, Galles, Lapponia, Isola di Man, Occitania, Paesi Baschi, Paesi Ladini, Sardegna, Scozia e i Sòrabi della Lusazia. Le genti in questione sono risultate perdenti nell'urto con realtà allogene e più forti apparati militari prima e coercitivo-amministrativi dopo. Il saggio fa comprendere lo smarrimento culturale che molte di queste etnie attraversano a contatto con le culture vittoriose. C'è la lotta per il ricordo delle origini e per la lingua, ma anche ulteriori dimensioni che vanno dalla letteratura alla revisione storica; argomenti che vanno affrontati mediante uno studio complessivo da parte dell'entità potestativa, per non finire a considerare tali regioni, al massimo, patrimonio turistico."
(dal sito http://armillotta.altervista.org/jouvence/jouvence.htm)


Com'è nata l'idea di questo libro? Perché scrivere su questo tema?

Quando si afferma che in uno Stato - come potrebbe essere il nostro, o anche l'ex franchista Spagna, oppure l'eterna liberale Francia dove i Baschi hanno meno diritti di espressione dei fratelli nel Paese iberico (ma non va detto!), per non parlare della democraticissima Gran Bretagna col suo apartheid 'post litteram' in Irlanda del Nord (questo va detto ancora meno, sennò si rischia di passare da cattolici integralisti anti-UEisti!!!) - ci siano cittadini da venti generazioni e passa che pensano in un'altra lingua, allora mi viene da sorridere. Specialmente quando ci spacciano le loro diversità linguistiche e culturali come un qualcosa piovuto dal cielo miliardi di anni fa, magari sbarcando da un UFO. Oppure, nel migliore dei casi, di questi popoli non se ne parla nemmeno nei libri di scuole primarie, medie e superiori, ed è rarissimo che siano rammentati... allora si fa ritenere che siano qui o là per caso. A quel punto ho provato a scrivere non solo la loro storia ma pure i motivi per cui sono, appunto, qui o là, ma non per caso.


Come si è svolto il lavoro di ricerca? Quanto tempo è durato? Ha fatto ricerche sul campo?

È nato da una mia idea del 1990 per i suddetti motivi. Alcuni editori hanno rifiutato il testo, alcuni volevano modificarlo per questioni politically correct. Gli abietti addirittura per pubblicarlo pretendevano € 175,00 a sedicesimo!!! Io non pago per scrivere, e nemmeno pretendo di campare solo con tastiera e file (una volta si diceva con penna e carta). Ma se mi devo divertire, lo devo fare gratis: alla festa ci vado su invito, no di certo sborsando per il mio tavolo e per quello che assaporo o bevo. Non ho potuto fare ricerche sul campo, in quanto non ho un'istituzione che mi "sponsorizzi". Magari l'avessi! Ma mi sono avvalso di volumi, libri, testi e pubblicistica internazionale di prim'ordine, come testimonia la bibliografia in calce.


Il sottotitolo del suo libro richiama il concetto di "etnia dimenticata"; in che senso?

Nel volume si trattano le zone geografiche e geopolitiche che raccolgono epoche antiche di grande storia e guerre contro un potere accentratore. O memorie di quando questi stessi popoli a loro volta racchiudevano Stati solidi e di antiche tradizioni. La continuità temporale dello scorrere lineare del tempo, ci descrive come le Genti in questione siano risultate perdenti nell'urto con realtà allogene e più forti apparati militari prima, e coercitivo-amministrativi dopo. Per cui riscoprire l'"etnia dimenticata" è far comprendere lo smarrimento culturale e giuridico che molti di questi popoli hanno attraversato ed attraversano a contatto con le "metropoli" vittoriose.


In questo pianeta sempre più "globalizzato" non rischiamo un po' tutti di veder emarginata la nostra lingua materna, invasa sempre più da inutili anglismi?

Le leggo un passo di un mio articolo, apprezzato personalmente dal Prof. Tullio De Mauro: "Buttiamo via gli accenti, gli apostrofi, le apocopi, i troncamenti, le elisioni e quant'altro. Cestiniamo ogni tasto che non s'adegui alla US-UK keyboard. Tutti sanno che il romanesco deriva dal latino e un po' dal greco, mentre il resto degli idiomi (a iniziare dal sumero e passando per Omero e Virgilio) trae origine dall'inglese, pardon! dallo statunitense.
Per fortuna ci sono i settari Transalpini che approvando leggi in difesa del francese, evitano che appaiano demenzialità bambinesche quali l'Agnus Day, pronunciato (ennius dai) e vergato da depurati canali mass-mediatici.
Vi risparmio i sommergibili "nazisti" della guerra 1914-1918. Dalla seconda guerra mondiale in poi ognuno che fosse tedesco, oltratlantico era definito "nazi", a principiare - ad onor del vero - solo dal II Reich del 1871 in qua, perciò fatti salvi gli Ottone e i Federico. Solo che l'autore anglofono aveva scritto correttamente German, ma chi ha tradotto ha sfogliato sin troppo disinvoltamente un dizionario dei sinonimi usando "nazisti" in piena sudditanza pop alla Casa Bianca?
Vogliamo parlare di quei vocaboli usati a sproposito? Scopriamo chi per primo ha svillaneggiato la parola esodo, trasformando da sacra in amerikanismo per vacanzieri; oppure chi pronuncia il francese e l'inglese come se fosse italiano, e le altre lingue in sembiante degli idiomi di Parigi e Londra. Mettiamoli in condizione di non nuocere, induciamoli verso lavori socialmente utili, ove non ci sia bisogno di sciorinare scaturigini caserecce della lingua di Dante o barbarismi adoperati per un senso di frustrazione filo-atlantica per "inferiorità" mediterraneo-euro-asiatica. Sarebbe bene che un'infinitesima parte dei loro mensili privilegiati, i suddetti la impiegassero ad acquistare i volumi da cui imparare ad iniziare da Bruno Migliorini, Carlo Tagliavini e Piero Fiorelli, DOP-Dizionario di ortografia e di pronunzia (ERI-Edizioni RAI, Torino 1981). Istituiamo la carta letterario-giornalistico-televisiva a penalizzazioni, quando - giunti ad un totale fissato di banalità e castronerie - si neghi il premio X, la firma in pagina o la presenza in video, fino all'anticipato pensionamento finale.
E meno male c'è ancora qualcuno che, armato di buon senso e cultura, si oppone al giorno in cui inizieremo a leggere su qualche autorevole quotidiano che Italia è meglio scriverla Italy, almeno si risparmia un carattere e si capisce lo stesso... come affermano i noti intellettuali che fingono di sapere ciò che ignorano". Mi perdoni se questa mia risposta risulta piuttosto lunga, ma non devo temere alcuno zio d'America che mi diseredi se s'arrabbî.


Come si possono preservare queste preziosissime realtà linguistiche e culturali? Quali soluzioni auspica?

Preservare enfatizzando il problema dell'affievolirsi della primeva espressione idiomatica; e lottare per l'istituzionalizzazione del ricordo delle origini storiche e culturali. Il tutto grazie agli sforzi di quei pochi che cercano di mantenere viva la fierezza delle proprie Genti ed identità, che rischiano di sparire nell'appiattimento condotto dalla dissuasione e dai tentativi di omologazione di coloro che una volta erano gli invasori e oggi rappresentano quella legittimità riconosciuta dalla comunità e dal diritto internazionali.
O questi cittadini che pensano in un'altra lingua portano in alto le loro aspirazioni, oppure sono destinati a sparire come etnia, e quindi fallire, limitando i propri intenti al circoletto "esotico" di strapaese. Il buon senso ci dice che se non penso io a me stesso, chi lo deve fare? un terzo, un secondo o mamma e papà? Voglio dire che la tutela di una presenza minoritaria su un qualsiasi territorio è non soltanto curare la lingua, attraverso i soliti congressetti ad invito per sedicenti esperti di turno, legati al partito X o Y. Esistono ulteriori dimensioni che vanno dalla letteratura alla revisione storica, ecc.; argomenti che vanno enucleati mediante uno studio complessivo da parte dell'entità potestativa sollecitata fortemente in tal senso, che - in caso d'insensibilità da parte degli interessati - spesso considera tali regioni, al massimo, patrimonio turistico, se non peggio: una collana di fiori sulle tette delle ragazze che salutano i villeggianti in arrivo.


Cosa pensa dell'esperanto? Potrebbe in qualche modo tutelare anche queste realtà linguistiche minoritarie, mettendo su un piano neutrale le comunicazioni internazionali e valorizzando i rispettivi patrimoni linguistici?

Penso che l'esperanto non sia fra le tante soluzioni comunicative che possano diffondersi fra i popoli, bensì l'unica risposta possibile a tale necessità universale. Essa innanzitutto non è una lingua franca.
Se poniamo mente alle lingue franche nel corso della storia, esse sono state sempre un vettore di trasmissione sprigionatosi da un vasto ambiente geopolitico pre-esistente. Il latino che unì nel Medioevo l'Europa germanico-barbarica a quella meridionale era frutto del millennario Impero Romano e dei propri equilibri giuridico-amministrativi tricontinentali. L'arabo divenne la lingua franca - e poi ufficiale - dal Maghrib alla Mezzaluna fertile per poi estendersi - al pari del latino - a livello totale verso gli adepti delle rispettive fedi di Islàm e Cristianesimo. Il cinese ha organizzato popoli non han, trasformando l'Asia centrale - dai confini dell'Afghanistan al Golfo del Tonchino - in un continuum di stabilità politica a guisa di novella pax mongolica. Lo stesso dicasi del russo che ha esteso la bianca Terza Roma dalle frontiere già austo-ungariche solcando popoli uralici e altaici sino a lambire la remota Penisola coreana. Russo che, dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, ha dovuto cedere il passo alla cintura turcofona da Egeo a Cina occidentale. Anche il francese pre- e post-rivoluzionario - dal Vaticano alla corte degli zar, non dimenticando Casa Savoia - ha avuto il suo momento almeno sino alla Seconda Guerra Mondiale, quale idioma della diplomazia. Oggi abbiamo l'inglese che, si badi, non è un prodotto britannico ma della vittoria statunitense nell'ultimo conflitto mondiale. Negli ultimi anni sta riemergendo lo spagnolo che pian piano dal Subcontinente americano pervade gli States per via delle classi meno abbienti.
Però, tutte le lingue qui sommariamente esaminate, hanno una caratteristica che accomuna il proprio successo: sono state imposte da guerre, massacri, spargimenti di sangue, imperialismi, liberal-capitalismi trionfanti, ideologie da massimi sistemi, messianismi, diffusioni massmediatiche e/o subliminali, modelli di sviluppo e di vita artificiali e fittizi, esclusioni di tradizioni, demolizioni di memorie storiche e radici.
Non sono certo un utopista. Se lo fossi, scriverei favole per bambini ricchi e non studierei la geopolitica. Non penso affatto che l'esperanto possa divenire la lingua internazionale mercé una risoluzione dell'Assemblea Generale dell'ONU, oppure per decreto di qualche esecutivo di buona volontà. Ma una cosa è certa. Latino, arabo, cinese, russo, francese, inglese, spagnolo - personalizzandoli - non accetterebbero che l'altro prendesse il sopravvento, per non dire delle arcinote insofferenze reciproche.
Al contrario, l'esperanto non ha mai ucciso alcuno per farsi studiare sui banchi di scuola.
Solo su questo bisogna riflettere.


Quale bilancio trarre dalla sua ricerca? Ci può anticipare in breve le sue conclusioni?

Come afferma il Prof. Maurizio Vernassa per costruire in concreto la nuova, grande Europa delle nostre aspirazioni e speranze, l'Europa della civiltà comune e condivisa, l'Europa liberata dalle inaccettabili e pericolose prevaricazioni nazional-imperialistiche e dalle tragedie, antiche o recentissime, da esse prodotte, occorre per prima cosa conoscere in profondità tutte le caratteristiche delle sue molteplici componenti storiche, politiche, sociali ed etniche. Proprio in base a questo assunto è eticamente necessario e politicamente condivisibile presentare un primo segmento di una Storia dei popoli europei senza Stato o, per meglio dire, di quei popoli o etnie "senza voce", identificati da lingua, territorio, cultura, sistemi sociali propri, che per la loro condizione di minoranze sono stati spesso completamente dimenticati dalla storia ufficiale e, quasi sempre nel corso degli ultimi due secoli, defraudati dei loro diritti, discriminati e colonizzati. Una sorta di rimozione dalla nostra coscienza collettiva, che trova oggettiva conferma nella scarsa frequentazione storiografica, in modo unitario e sistematico, del tema.
Allargando il progetto a più ampio respiro - in quanto sono il primo ad affermare che il mio lavoro non sia affatto esaustivo - se ne ricaverebbe una convinta rivalutazione del valore intrinseco dell'autonomia, nella sua essenziale azione di protezione, difesa e valorizzazione dei valori identitari, concorrenti e non antagonisti nella costruzione della nuova identità comune, la cui forza può risiedere senza alcun dubbio anche nel pluralismo delle voci che contribuiscano positivamente a realizzarla, riuscendo in tal modo a vincere le occorrenti conflittualità politiche.


Giovanni Armillotta, I Popoli europei senza Stato. Viaggio attraverso le etnie dimenticate, Presentazione di Maurizio Vernassa, Jouvence, Roma 2009. Formato 14x21, 190 pagine, ISBN 978-88-7801-409-1, Prezzo: € 16,00 (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.)