Marinella Lörinczi


0. Le pubblicazioni attuali sul plurilinguismo, anche nella sola Europa, sono molto numerose e riguardano tutti gli ambiti di utilizzo delle lingue: dall'uso spontaneo a quello fortemente istituzionalizzato; dal plurilinguismo individuale (spontaneo o col­tivato) al plurilinguismo di gruppo (regionale, statale, nazionale); dalla conversazio­ne plurilingue alla scuola plurilingue e alle lingue degli organismi dell'Unione euro­pea. Il dato empirico da cui oggigiorno si prendono le mosse è che (1) in Europa il monolinguismo totale, assoluto, sia una situazione piuttosto teorica che non reale e che si situi soprattutto a livello delle varietà o dei registri ufficiali o prestigiosi, e (2) le tendenze al monolinguismo, qualora si manifestino soprattutto come politica lin­guistica, camuffìno tensioni o conflitti derivanti dalla pluralità, linguistica e non. Per fare un primo esempio shocking, nel caso del serbo-croato, il quale è parlato senza apprezzabili variazioni strutturali da Serbi, Croati, Bosniaci e Montenegrini, si sta attualmente procedendo a una monoglottizzazione a oltranza. Approfittando del fatto che uno dei princìpi aurei del nazionalismo ottocentesco, cioè il principio della potenzialità/potenza coesiva di una sola lingua si sia dimostrato nella Iugoslavia del secolo ventesimo insufficiente e anzi fallimentare, si cerca di differenziare al massi­mo il serbo-croato oggettivamente transetnico per scinderlo in tre lingue etniche: croato(-cattolico), bosniaco-musulmano e serbo(-ortodosso) (v. Lengua... 1997).

Si è, a livello comunitario, fortemente preoccupati del nostro futuro linguistico complessivo. È questa una preoccupazione pervasiva, che non sempre si manifesta a un livello cosciente ma che tuttavia è fortemente radicata in varie realtà sociali. Tant'è che il problema della lingua, con i suoi vari risvolti concettuali e terminolo-gici, può entrare a far parte del quotidiano. Lo dimostra un'opera del noto scrittore catalano ispanofono Juan Marsé, il quale ha intitolato un suo romanzo El amante bilingue (premiato nel 1990, ne fu tratto anche un film). Il romanzo è in parte anche una satira in chiave simbolica di certi aspetti oltranzisti della politica linguistica maggiore perseguita in Catalogna che è quella della normalizzazione (dunque unifor­mazione) linguistica; il termine norma è diventato uno dei simboli più noti della poli

tica linguistica catalana (Grossmann 1990; Lengua... 1997); pertanto nel romanzo citato la protagonista (catalana), di estrazione altoborghese, si chiama non a caso Norma e per mestiere fa la sociolinguista.

I problemi di cui occuparsi e preoccuparsi sono infatti numerosi. Si va nella dire­zione di un babelismo ingovernabile, verso una moltiplicazione delle lingue all'infi­nito (vedi il caso del serbo-croato ma anche la situazione iberica), oppure, come rimedio disperato o iperrazionale, verso una uniformazione piatta e mediocre su di una sola lingua internazionale, franca o artificiale? I grandi avvenimenti storici e politico-economici degli ultimi anni o tuttora in corso hanno in genere implicazioni linguistiche attivamente dibattute. I linguisti, per il mestiere che fanno, sono impe­gnati in prima linea in questi dibattiti, benché molti di loro siano coscienti del fatto che non saranno gli studiosi a imporre soluzioni e a prendere le ultime decisioni. Com'è risaputo, la linguistica testuale, situandosi tra lingua e letteratura e tra lingui­stica e teoria della letteratura, ha trovato un terreno molto ricettivo nella scuola. Ed è da uno dei rappresentanti della linguistica testuale

(il francese Jean-Michel Adam) che proviene la constatazione secondo cui è stata un'illusione dei linguisti degli anni '80 supporre che essi fossero in grado di gestire da soli i problemi linguistici della scuola. Quest' esempio fa comprendere la necessità di una stretta e qualificata colla­borazione tra studiosi di linguistica e le forze sociali che mediano la soluzione di pro­blemi così ampi e fondamentali come quelli linguistici.

Sarà banale dirlo, ma la cosa è troppo importante, sempre più importante ogni giorno che passa, per non ribadirla: è sufficiente entrare in Internet per intuire uno dei grandi problemi linguistici dei nostri tempi. È per questo, tra le altre cose, che uno dei più recenti numeri monografici (8/1994) della rivista trilingue "Sociolinguistica" edita in Germania da Niemeyer (d'ora in poi S), annuario inter­nazionale della sociolinguistica europea, si intitola English only? in Europa, in Europe, en Europe. Gli undici numeri finora pubblicati di tale rivista serviranno grosso modo da guida tematica per il presente lavoro.

La rivista è interessante per diverse ragioni. Verranno enumerati preventivamen­te i titoli (in traduzione) dei singoli numeri in corrispondenza dei relativi anni, anche al fine di mostrare come sono evoluti gli interessi degli editori. 1/1987: "Tendenze attuali della sociolinguistica". 2/1988: "Standardizzazione delle lingue nazionali europee: Romania, Germania". 3/1989: "Dialetto e scuola nei paesi europei". 4/1990: "Minoranze e contatto linguistico". 5/1991: "Tema principale: statuto e fun­zione delle lingue negli organi della Comunità europea". 6/1992: "L'origine delle lin­gue nazionali nell'Europa dell'Est". 7/1993: "Concetti del plurilinguismo nella scuo­la europea". 8/1994: vedi sopra. 9/1995: "Identità europea e diversità linguistica". 10/1996: "Convergenza e divergenza dei dialetti in Europa". 11/1997: "L'unilinguismo è curabile. Riflessione sul nuovo plurilinguismo in Europa". Per i numeri successivi sono previsti i seguenti argomenti: linguistica variazionale; i nuovi substandard in Europa; metodi dell'inchiesta linguistica; lingue poco e pochissimo diffuse in Europa; cambiamento di codice (code-switching); atteggiamenti, pregiu­dizi e stereotipi linguistici; economia e lingua; ecolinguistica; vitalità e dinamica delle lingue europee. La rivista, si diceva, è trilingue. Le metalingue usate sono il tedesco, l'inglese e il francese.

1. Quest'ultimo dato ci prospetta subito un primo problema inerente più in generale al mestiere di linguista, questione che può essere qui privilegiata in apertura. I cura­tori della rivista S, in base alla propria esperienza e a quella della comunità scienti­fica di appartenenza, ritengono più o meno implicitamente che gli studiosi europei del settore linguistico debbano/possano conoscere, oltre alla loro lingua dominante, le tre lingue menzionate (inglese francese e tedesco) quali veicoli della comunica­zione specialistica. I non linguisti o i non filologi, com'è noto, non hanno quest'esi­genza o quest'obbligo, in quanto in genere l'inglese, o al massimo l'inglese-france­se, soddisfa le loro necessità comunicative in ambito internazionale. Il problema della lingua veicolare posto dalla nostra rivista non è di poco conto, in quanto pro­spetta agli aspiranti linguisti la necessità di apprendere le tre lingue (al meno) fino al livello della comunicazione specialistica attiva e/o passiva

Siamo comunque ben lontani dal quadro linguistico disegnato tanti anni fa dal romanista Heinrich Lausberg (Linguistica romanza, I voi., cap. Requisiti per lo stu­dio della linguistica romanza). Lo studioso tedesco sosteneva quanto segue. Per pra­ticare il mestiere di romanista occorre conoscere, ovviamente, le lingue romanze. Non soltanto sapere che esistono, ma conoscerle in maniera appropriata, anche a livello pratico. Passivamente si deve essere in grado di comprendere tutte le lingue romanze vive e morte nonché le loro fasi più antiche, e di leggere ad alta voce e cor­rettamente testi letterari in tutte le lingue. La conoscenza approfondita del francese e del provenzale antichi è imprescindibile. L'obiettivo massimo sarebbe la padronan­za perfetta attiva e passiva di tutte le lingue e di tutti i dialetti romanzi, anche se indi­vidualmente l'obiettivo non è raggiungibile. Questa limitazione individuale andreb­be corretta attraverso le conoscenze collettive della comunità dei linguisti. Per tradi­zione i romanisti germanofoni erano tenuti a conoscere attivamente il francese ita­liano e spagnolo moderni, passivamente il francese provenzale spagnolo e italiano antichi. A questo bagaglio, che si spiega con ragioni di cultura generale degli intel­lettuali germanofoni, si aggiungeva la conoscenza delle lingue aventi aspetto scritto quali romeno retoromanzo catalano portoghese, e in più la conoscenza del sardo e dei dialetti relativi alle lingue menzionate. Tenendo conto delle lingue che hanno influito sugli idiomi romanzi nel corso della loro storia, il romanista, prosegue Lausberg, dovrebbe impratichirsi del tedesco; dovrebbe conoscere albanese e slavo ecclesiastico se è romenista; etrusco osco-umbro e greco, se italianista; arabo e basco, se è ispanista; celtico, se si occupa di galloromanzo. Per il loro ruolo svolto, occorre conoscere ovviamente latino e greco antichi, oltre al latino non classico, cioè medievale umanistico ecc. Siccome la primitiva cultura popolare è il suolo della Romània, ogni romanista, infine, dovrebbe imporsi di soggiornare ciclicamente per qualche tempo tra i pastori dell'Abruzzo, della Sardegna, dei Pirenei o della Romania. Si può aggiungere alle esigenze espresse da Lausberg che oggigiorno anche per i romanisti la conoscenza dell'inglese come metalingua è imprescindibile e infatti i romanisti lo conoscono. È invece molto rara la conoscenza del russo, lin­gua utile per la vastità delle informazioni cui da accesso. A ciò si deve sommare, sempre entro l'obiettivo ideale formulato da Lausberg, la conoscenza delle varie let­terature nazionali romanze anche nelle loro fasi meno recenti.

Il quadro sopra delineato è sconcertante, benché si conoscano studiosi poliglotti che hanno rappresentato bene l'ideale del romanista perfetto. Tolte le eccezioni, i romanisti hanno in genere un bagaglio linguistico diverso da quello presentato (Piras 1989-90) e parlando sempre in termini generali, ci si dirige verso l'impoverimento dovuto anche al declino dei metodi comparativi. I romanisti della mia generazione, anche in Occidente, ritenevano ad esempio obbligatoria una certa conoscenza del romeno. Ebbene, oggi non è più così. La misconoscenza del romeno è talmente avan­zata, da non saper più reperire e consultare nemmeno i materiali di consultazione fondamentali, scritti in romeno e da Romeni. Le ragioni di questo disinteresse sono certamente complesse e hanno a mio avviso un sottofondo culturale determinato dal tipo di istruzione superiore seguita e dalle valutazioni cultural-politiche sulla Romania (non troppo positive) diffuse oggi a livello europeo.

Non è sicuramente un caso se nel Lexikon tedesco della linguistica romanza (edito a Tubinga da Niemeyer) non vi siano voci redatte in romeno, mentre sarebbe stato obbligatorio oltre che utile presentare per questa lingua almeno un esempio di scrittura saggistica. Dunque non è vero, sul piano pratico, che per il romanista tutte le varietà sono uguali e hanno pari dignità secondo quanto si desume dai calls far papers dei congressi della Società internazionale di linguistica romanza. Parallelamente il Lexikon testimonia, ma non soltanto perché i curatori sono germanofoni e la pubblicazione è avvenuta e sta avve­nendo in Germania, di un'espansione progettata della lingua tedesca, lingua con la quale comunque tutti i romanisti non germanici devono fare i conti. È un dato di fatto che numerose pubblicazioni di grande interesse per la romanistica sono anche oggi opere di studiosi germanofoni e in quell'occasione anche germanoscriventi. Il che si spiega anche eoll'ampiezza del pubblico studentesco germanofono (e non soltanto tedesco), che può assorbire l'intera produzione libraria.



2. Tornando all'aspetto metalinguistico della rivista "Sociolinguistica", la soluzione trilingue - che è presente anche nel libro curato da Truchot {Le plurilinguisme... 1994) - forse da un'indicazione su quali si prospettano essere le lingue internazio­nali del continente europeo. Come si sa, a livello di organismi della Comunità euro­pea (S 5/1991) la questione si è complicata a mano a mano che nuovi stati sono entra­ti a farne parte. La presenza dei quindici stati, con uguali diritti linguistici teorici sia come emittenti sia come riceventi, ha oggi come conseguenza un elevatissimo numero di combinazioni linguistiche possibili. Questo ingenera, oltre alle difficoltà prati­che di traduzione, delle spese assai elevate - per molti scandalosamente elevate -nella gestione dei traduttori, degli interpreti e delle traduzioni, e provoca ovviamen­te ritardi nella diffusione dei materiali. Non per niente è stato ultimamente un eco­nomista, Reinhard Selten, peraltro Premio Nobel per l'economia nel 1994, a curare un volume edito dall'associazione italiana degli esperantisti, sui Costi della (non) comunicazione linguistica europea (1997). Questo non invalida tuttavia il principio generale della pari dignità di tutte le lingue e dei pari diritti degli utenti delle varie lingue, in base al quale tutte le lingue riconosciute andrebbero favorite in maniera paritaria, sia tramite un'istruzione adeguata, sia attraverso servizi elastici, modulari, di interpretariato o traduzione.

Nel 1957, anno di fondazione della Comunità europea, si accordavano per statu­to uguali diritti alle lingue nazionali dei sei stati fondatori (Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Olanda, Germania Federale). Tedesco, francese, olandese e italiano dovevano essere, in base al trattato di Roma, le lingue ufficiali e di lavoro degli orga­nismi del Mercato Comune. In seguito lo statuto ha incorporato il danese, inglese, greco, portoghese, spagnolo, svedese, norvegese, finlandese. Con il teorico babeli-smo alle porte, sorge di nuovo la tentazione di rifugiarsi in una lingua artificiale, che ridimensionerebbe d'un sol colpo anche la predominanza dell'inglese. Gli esperanti­sti e i loro sostenitori si adoperano, infatti, per promuovere l'adozione dell'esperan­to in tutte le scuole comunitarie, al fine di superare sia le temute egemonie linguisti­che, sia le ancor più temute rivalità, sia più in generale le incomprensioni


Dinanzi agli scottanti problemi del plurilinguismo europeo a livello comunitario, alcuni studiosi reputano necessario ripercorrere la storia universale delle lingue uni-che o unificanti per trame insegnamenti per il futuro: vengono presentate le lingue bibliche, sacre, ecclesiastiche (latino), sovrannazionali (russo), nazionali (costituzio­ne del francese, del tedesco, dell'italiano comuni ecc), artificiali, queste ultime denominate o lingue a priori, cioè progettate a partire da universali (lingue filosofi-che, logiche, matematiche) o lingue a posteriori, cioè realizzate sulla base di lingue storiche (l'esperanto, ad esempio) (H. Haarmann in S 5/1991; Hagège 1992; Eco 1993, e relative bibliografie). Purtroppo da tale sforzo di grande erudizione non pos­sono scaturire proposte e soluzioni concrete per il futuro, in quanto le condizioni pragmalinguistiche come pure i quadri storici e filosofici di riferimento sono non sol­tanto sorpassati (v. il caso del latino medievale o ecclesiastico), ma certe volte estra­nei al nostro modo di concepire la comunicazione vera e autentica: i linguaggi filo­sofici, per esempio, essenzialmente logico-simbolici e grafici, non sono vocalizzati e non sono vocalizzagli, ossia pronunciabili. Spesse volte, poi, le lingue intemazio­nali del passato o le cosiddette lingue perfette erano legate ad ambienti sociali forte­mente elitari e centralizzati; oppure si configuravano come puro gioco intellettuale, come esperimenti mentali. Oggigiomo, invece, il problema della comunicazione intemazionale riguarda una società altamente alfabetizzata nel suo complesso e con una istruzione istituzionalizzata di massa che in pratica dura due decenni; una società dove si sta imponendo la decentralizzazione insieme con una centralizzazione di tipo nuovo, sovranazionale ma europea, che linguisticamente non può non far riferimen­to alle consolidate tradizioni plurisecolari delle varie lingue storiche.

Riscontriamo dunque nelle restrospettive fornite dai linguisti, tra le altre cose, riferimenti a situazioni sorpassate o se esistenti, relative ad altri tipi di contesti (ad es. alle Nazioni Unite), pertanto non estensibili né al presente né tantomeno al futu­ro; incontriamo constatazioni alquanto scontate circa l'internazionalizzazione del­l'inglese ed auspici riguardo alla soluzione di tale problema linguistico; presentazio­ni disomogenee del plurilinguismo scolastico europeo (S 7/1993), le quali spesso si rivelano impotenti a spiegare in che misura il plurilinguismo effettivo sia stato rag­giunto nelle scuole e a quali ideologie questo eventuale plurilinguismo si ispiri.


Sono interessanti, rispetto al problema del nostro futuro linguistico, le indagini sui comportamenti linguistici effettivi in seno agli organismi comunitari e sui giudi­zi sulle lingue da parte dell'utenza interessata (impiegati, funzionari, dirigenti) (S 5/1991; 8/1994). Esaminiamone qualche aspetto. L'unilinguismo amministrativo a livello comunitario, che si ispirerebbe all'ideale della lingua perfetta, non sembra essere praticabile per due ragioni principali. La prima consiste nel fatto che l'ingle­se, cui a volte si deve dare l'esclusività nel redigere, leggere, comprendere, richiede tempi ed energie spesi in maniera disuguale da parte dei funzionari comunitari anglofoni e dei non anglofoni primari svantaggiati da questa loro condizione. Oltre a questo, il monolinguismo di qualsiasi tipo offuscherebbe l'identità e l'individualità dei componenti. Infatti non si è ancora raggiunto l'obiettivo, sempre che sia un obiet­tivo positivo e ragionevole, di considerarsi europei tout court e in primo luogo, e sol­tanto in seconda battuta ed eventualmente italiani, francesi, catalani, spagnoli ecc


Il concetto di "europeità" sottende attualmente un concetto culturale diverso da quello tradizionale omogeneizzante, sottende ad esempio un concetto come l'eventuale ibri­dazione, che di regola non è ben accolto nella cultura europea (vedi il caso della Iugoslavia). Tuttavia, sostengono alcuni antropologi, "il pensare in categorie di mondi separati e di culture separate è diventato obsoleto" (Culture... 1996, p. 14; arti­colo di H.-R. Wicker), ma la nuova mentalità ovviamente non è ancora presente nel senso comune.

Per quanto riguarda il funzionamento degli organismi comunitari, alcuni propon­gono (H. Haarmann in S 5/1991), anche sulla base di ciò che si sta verificando nella realtà, un multilinguismo ufficiale selettivo. Questo multilinguismo selettivo od oli­gofonico dovrebbe stabilizzarsi su tre lingue (inglese, francese, tedesco), per il loro peso numerico, economico-politico e culturale, con l'adozione di alcune altre (come lo spagnolo) per i rapporti con realtà extracomunitarie (si ha in vista soprattutto l'America Latina). Tuttavia dinanzi al forte avanzamento del tedesco i paesi nordici manifestano resistenze, derivanti dalle vicende della seconda guerra mondiale, ad accettare tale lingua come lingua ufficiale di ampia comuncazione intraeuropea a livello ufficiale. Questo va detto anche per ricordare che i grandi avvenimenti stori­ci e politici dell'ultimo secolo, che hanno ridisegnato le frontiere politiche recenti ma non recentissime, stanno ancora condizionando i vasti strati dell'opinione pubblica. Comunque, l'oligofonia o la trifonia è un riconoscimento a posteriori, in quanto da preferenza alle lingue già di per sé più potenti e più diffuse. Le proposte che hanno in vista il multilinguismo selettivo valido per la situazione discussa (organismi comunitari), non si nascondono però il problema che per ora dall'unione europea è tagliata fuori circa la metà dell'Europa, nonché un paese più asiatico che europeo (la Turchia), la cui futura inclusione rimetterà di nuovo tutto in discussione.


I numeri 5/1991 e 8/1994 di "Sociolinguistica" informano, inoltre, sulle indagini e misurazioni linguistiche effettuate all'interno degli uffici comunitari tenendo conto di un certo numero di variabili: età, funzione, lingua materna, numero di lingue cono­sciute, situazione comunicativa (riunione ai vertici, riunione tecnica, colloquio infor­male, conversazione telefonica ecc.) e mezzo comunicativo (scritto o orale), suscetti­bili di influire sugli orientamenti linguistici. Emerge un dato che è in perfetta conso­nanza con le tendenze mondiali: tra i funzionari più anziani è predominante la cono­scenza del francese come lingua seconda, tra i più giovani la conoscenza dell'inglese.


3. È di tutt'altro tenore, in quanto rivolto volutamente al futuro, il programma lan­ciato anche in Internet da specialisti linguistico-educativi incaricati dall'Unione europea a elaborare direttive linguistiche per i paesi membri (La diversitè linguistique en Europe. Enjeux et perspectives. Appel d'Amsterdam). Il testo redatto a con­clusione della riunione tenutasi nell'aprile del 1996 ha come obiettivo principale la Pax linguis, la pace attraverso le lingue, vale a dire la conoscenza e la tolleranza reciproche raggiungibili con l'aiuto delle lingue. Si chiede, in essenza, la promozione di un'educazione scolastica bilingue che diventi la base di un'educazione plurilingue. Tale appello è rivolto ai governi, affinchè, una volta fatto proprio, elaborino diretti­ve applicative del programma. Essi sono invitati ad impegnarsi nell'educazione di una giovane generazione composta di cittadini europei capaci concettualmente e lin­guisticamente di vivere in armonia, pronti a risolvere i problemi mediante la comu­nicazione. Si parte dalla constatazione che la raccomandazione formulata nel 1984 dai dodici ministri dell'educazione, concernente l'insegnamento a livello pratico di due lingue oltre alla materna, non ha avuto esiti di massa apprezzabili. Funzionano per ora i progetti Lingua, Socràtes ecc, che però hanno un effetto limitato visto il numero ridotto e l'età relativamente avanzata degli studenti interessati.


Ampliamo un aspetto inerente a quest'ultimo punto. Un'efficace educazione plu­rilingue dovrebbe infatti aver inizio nelle fasce d'età più ricettive, in età prescolare e nelle scuole elementari/primarie. Essa andrebbe poi perseguita con tenacia durante l'intera scolarizzazione. I punti cruciali di un siffatto programma sono pertanto l'av­viamento precoce, l'istruzione intensiva e transdisciplinare in cui siano coinvolte più materie, e dunque non soltanto la lingua come oggetto, ma anche come metalingua.


Un altro punto importante del proclama di Amsterdam riguarda la proposta di inserimento di una terza lingua nel ciclo secondario. Un altro punto ancora concerne invece la valorizzazione dei diplomi scolastici ottenuti a conclusione di un curricolo di studi plurilinguistico avente tre lingue vive (le lingue morte con vanno computa­te; l'importante problema del loro insegnamento nel presente lavoro non potrà esse­re preso in considerazione). Si auspica, infine, lo scambio massiccio di insegnanti della scuola di ogni grado (l'università da questo discorso è però esclusa, in quanto presenta un'utenza di soli adulti). Quest'ultimo punto (scambio di insegnanti del ciclo preuniversitario) significa, più esplicitamente, che non va promosso lo sposta­mento in massa degli scolari/studenti, poiché si valuta che ciò comporti costi mate­riali e organizzativi eccessivi; occorre invece qualificare i docenti, gli adulti, edu­cando in prima battuta gli educatori al plurilinguismo e al multiculturalismo. Ciò è un aspetto particolarmente rilevante in quanto mette in evidenza l'importanza del collegamento generazionale nella trasmissione del sapere in generale e del sapere linguistico in particolare. Come insegna e illustra Fishman (1991), le attività lingui­stiche che non producano trasmissione o interazione intergenerazionale sono sterili sul piano degli effetti sociali

L'educazione plurilingue, nell'opinione degli estensori dell'appello di Amsterdam, va concepita in modo da facilitare democraticamente l'accesso al sape­re più alto e più qualificato da parte di tutti i giovani, indipendentemente dalla loro lingua materna (o anche primaria/dominante). Questa tesi implica che va evitato l'in­sorgere di discriminazioni tra giovani aventi come primaria una lingua a grande dif­fusione e giovani la cui prima lingua appartenga invece alle cosiddette modimes (acronimo da "(langues) les moins diffusées et les moins enseignées"), cioè agli idio­mi di diffusione ridotta o ridottissima. Infatti normalmente il supporto istituziona­le/scolastico su cui possono contare le modimes è più debole e più carente di quello offerto ai parlanti le lingue a grande diffusione. Occorre quindi prevenire la duplice ghettizzazione dei giovani appartenenti ad alcune comunità linguistiche, la prima derivante dalla minore diffusione spontanea della loro lingua, la seconda dall'esi­stenza di un'istituzione insufficientemente attrezzata all'educazione plurilingue sia materialmente sia come corpo docente. Questo problema si lega strettamente anche al rinoscimento dei diplomi: i rappresentanti delle minoranze linguistiche devono farsi carico di un'istruzione competitiva sul piano linguistico, in modo da non far escludere dal mercato del lavoro i propri figli per incompetenza linguistica. I costi sociali e psicologici dell'istruzione plurilingue sono peraltro ben noti, come dimo­strano ad esempio le analisi della situazione lussemburghese (S 7/1993, articolo di J.-P. Kraemer) di cui ci occuperemo ora brevemente.


4. Il Lussemburgo conta quasi 365.000 abitanti, di cui 269.000, pari al 73%, sono lussemburghesi. Per ragioni di semplicità andrà considerata soltanto la situazione scolastica dei madrelingua lussemburghesi. Nella scuola materna domina il lussemburghese, idioma germanico del ramo fràncone, lingua nazionale dal 1984 e veicolo orale principale all'interno dello stato. Nella scuola elementare l'alfabetizzazione primaria avviene in tedesco, mentre al terzo anno viene introdotto il francese che diventa inoltre preponderante (si hanno, in concreto, 7 unità di francese contro 5 unità di tedesco). Le lezioni di lingua tedesca e francese, sommate a un'ora settima­nale di lussemburghese, occupano buona parte dell'orario (13 unità su un totale 30 nella terza classe elementare). Nel lavoro qui utilizzato come fonte non vi sono dati circa il tedesco e il francese come lingue di insegnamento (che lingue si utilizzano per le rimanenti 17 unità?). Proseguendo nella carriera scolastica, nel ciclo inferiore dell'insegnamento secondario le lingue occupano da un terzo alla metà dell'orario, mentre nella prima parte del ciclo superiore ricoprono la metà circa del totale. In seguito, fino alla maturità, il peso delle lingue dipende dall'indirizzo prescelto per gli ultimi due anni: in quello classico-letterario le lingue occupano 10 unità su 28, in quello moderno scientifico soltanto 6. Nel corso dell'intera carriera scolastica l'uso del francese lingua veicolare aumenta progressivamente. Alle tre lingue menzionate vanno aggiunte l'inglese, il latino obbligatorio nell'indirizzo classico e il greco clas­sico opzionale nel medesimo indirizzo.


Dati positivi del bilancio critico redatto da Kraemer: superata la maturità, gli stu­denti hanno un buon rendimento in qualsiasi università straniera e in tutti i rami di studio; essi preferiscono, tre su quattro, frequentare le università francofone e la loro grande mobilità garantisce arricchimento culturale e elasticità intellettuale. Benché per tali ragioni questo sistema scolastico susciti l'ammirazione degli stranieri, non si devono sottacere gli aspetti negativi: il sistema è molto selettivo (nell'articolo man­cano dettagli sul meccanismo concreto di selezione e sulle sue conseguenze, ma si può desumere che i non idonei vengono avviati alle scuole a profilo tecnico; si men­ziona ad esempio il fatto che in queste scuole il peso delle lingue dipende dal livel­lo degli studenti); l'insegnamento plurilingue didatticamente è molto gravoso soprat­tutto a livello elementare: ne derivano sovvraffaticamento degli alunni mediocri e deboli, interferenze linguistiche, accenti poco accettabili, difficoltà nell'espressione orale. Ciononostante non si manifestano spinte alla modifica sostanziale del sistema educativo trilingue (che poi in realtà è plurilingue), benché si possano prevedere cambiamenti futuri a favore della comunicazione orale; infatti per lo meno fino al 1993 (anno del lavoro qui utilizzato) l'educazione linguistica lussemburghese valo­rizzava l'aspetto scritto-grammaticale delle lingue, sicuramente anche in relazione al fatto che in molti sistemi universitari occidentali le prove d'esame erano e sono soprattutto scritte.

La situazione sommariamente descritta offre delle indicazioni molto chiare sul fatto che un'educazione plurilingue è tale soltanto se, tautologicamente, si investe molto, sia socialmente che individualmente, nell'insegnamento-apprendimento delle lingue. Di conseguenza il curriculum scolastico è occupato in buona parte dalle lezioni di lingua.


A parere degli osservatori l'appesantimento del programma scolastico che deriva dall'aggiunta di nuove lingue-oggetto è la tipica situazione delle scuole delle mino­ranze etnico-linguistiche. I casi sono essenzialmente due: 1. la lingua minoritaria è metalingua oltre che lingua di studio; ad essa si affianca obbligatoriamente la lingua ufficiale dello stato come lingua-oggetto o anche come metalingua, oppure 2. come metalingua si usa la lingua ufficiale dello stato, cui si aggiunge (o si vuole aggiun­gere), in una prima fase soltanto come lingua-oggetto e in seguito come metalingua, la lingua minoritaria.


L'impegno maggiore richiesto agli alunni appartenenti alle minoranze rispetto a quelli della maggioranza, accompagnato alle volte da problemi organizzativi o dalla qualità mediocre dell'insegnamento stesso, demotivano o pos­sono demotivare, prima ancora degli alunni, i genitori degli alunni. Essi, nel caso la lingua minoritaria si presenti come materia facoltativa, possono optare per l'inse­gnamento monolingue nella lingua maggioritaria. Laddove invece la lingua maggio­ritaria è aggiuntiva alla lingua minoritaria, può insorgere, se l'ideologia ispiratrice è di tipo separatista, la tentazione dell'insegnamento monolingue, cioè della cosidetta full immersion, nella sola lingua minoritaria questa volta. Quest'altra scelta può pro­vocare, a seconda dei casi, una vera e propria ghettizzazione linguistica dell'utenza interessata.


In contrasto con quanto appena detto, la situazione scolastica lussemburghese, nonostante il suo plurilinguismo molto impegnativo, è fortemente motivante, in quanto le lingue vive insegnate (tedesco, francese e inglese) sono tutte ad ampia dif­fusione. Questo dato, non affatto secondario, va annoverato tra le cause che deter­minano il successo di detto sistema scolastico. Gli stessi risultati positivi si hanno, secondo le testimonianze e le analisi degli esperti, nelle scuole bilingui franco-ingle­si del Canada, o anche nelle scuole monolingui canadesi, dove però in compenso è l'ambiente sociale a educare alla necessaria competenza dell'altra lingua. Il prestigio culturale del francese e l'indiscusso valore veicolare dell'inglese sul piano interna­zionale favoriscono la forte motivazione verso entrambe e il loro buon apprendi­mento.


5. La Svizzera linguistica costituisce un altro esempio frequentemente richiamato di plurilinguismo effettivo (S 5/1991; S 8/1994; Le plurilinguisme... 1994) e anzi, per chi la conosce superficialmente, essa incarnerebbe l'ideale. Tuttavia, statisticamente parlando, il dato reale primario è che nonostante il quadrilinguismo nazionale e uffi­ciale i singoli Svizzeri sono in pratica unilingui in riferimento alle lingue ufficiali, anche se imparano obbligatoriamente un'altra lingua nazionale; i bilingui effettivi e attivi, sempre in rapporto alle quattro lingue nazionali (senza contare dunque i 'dia­letti' praticati), costituiscono una minoranza. In seno ai nativi la conoscenza delle lin­gue nazionali diverse dalla propria è inversamente proporzionale alla dimensione della propria nazionalità: conoscono maggior numero di lingue i membri delle nazio­ni minori, i romanci o gli italiani, che non i germanofoni o i francofoni. È questo un fenomeno ampiamente presente peraltro nell'intera Europa: meno conosciuta è la propria lingua fuori dalla comunità, maggiormente si investe nelle lingue a più ampia diffusione. La distanza rispetto alle frontiere linguistiche costituisce un fattore ana­logo: minore è la distanza, maggiore è il plurilinguismo individuale.


Un altro dato paradossale della situazione svizzera è che benché il 65% della popolazione totale sia germanofona, la maggioranza di questo 65% non considera il tedesco come lingua materna, in quanto la lingua materna o la lingua prima è il tede­sco svizzero. Quest'ultimo e il tedesco standard sono talmente distanti uno dall'altro da non essere mutualmente comprensibili. Il tedesco standard viene usato quasi esclusivamente per iscritto, mentre oralmente viene impiegato in rare situazioni for­mali e non da parte di tutti. D'altronde il tedesco svizzero parlato è un codice elabo­rato con ampi domini d'impiego, benché non sia codificato a livello grafico.

Quale rimedio alla scarsa competenza orale delle lingue ufficiali diverse dalle proprie, si prospettano diverse strategie. Considerato, ad esempio, che l'inglese sta guadagnando terreno dappertutto in Svizzera come lingua seconda a detrimento delle lingue seconde locali, e visto - dettaglio non indifferente - che tale lingua è equidi­stante da tutti, si potrebbe ipotizzare la sua adozione come lingua franca interfedera-le. Questa soluzione è attentamente studiata e valutata, in quanto sconvolgerebbe il quadro linguistico tradizionale e ricco (S 8/1994). Un altro modello proposto ma del resto già praticato in situazioni di necessità, è di adeguarsi, a seconda delle proprie competenze, attivamente o passivamente, alla lingua dell'interlocutore, generando interazioni monolingui o plurilingui. Qui fattori come competenza, prestigio, spirito di collaborazione, svolgono ruoli differenziati a seconda del tipo di combinazione linguistica.


6. Gli osservatori più attenti della situazione europea, tra cui gli estensori dell'ap­pello di Amsterdam, non sono favorevoli all'instaurarsi del monolinguismo, anche solo veicolare, su base inglese e raccomandano la promozione della diversità lingui­stica. Questo tipo di monolinguismo presenta peraltro legami, in quanto in una certa misura ne è ultimamente condizionato, col movimento "English Only" (v. in S 8/1994 l'articolo di J. Fishman), il quale negli Stati Uniti ha conosciuto un certo suc­cesso presso tutti i ceti, nostante il 10-15% della popolazione totale non abbia l'in­glese come prima lingua e il 3-5% non ne dimostri ancora nessuna padronanza. Ma sebbene il ritmo dello slittamento intergenerazionale verso l'anglofonia esclusiva si sia ultimamente rallentato negli U.S.A. , si assiste contemporaneamente allo scarso mantenimento della fluenza nella lingua minoritaria. E perciò il problema linguisti­co maggiore di gran parte della popolazione statunitense non è tanto l'assunzione della anglofonia in sé, quanto, più estesamente ancora, la mancanza di buone com­petenze linguistiche in lingue diverse dall'inglese. Quest'ultimo dato riguarda persi-no gli strati sociali o i circoli professionali prestigiosi, come quelli diplomatici, mili­tari, commerciali e anche accademici, cioè proprio coloro che dovrebbero promuovere gli interessi di gruppo/professionali all'estero e che dovrebbero in teoria domi­nare anche qualche altra lingua oltre al proprio inglese, mentre di fatto impegno col­lettivo in tal senso non si manifesta. È questo il fattore, in ordine di tempo il più recente, condizionante la tendenza all'anglofonia veicolare europea cui si accennava sopra. La tendenza americana all'anglofonia esclusiva ha a sua volta, per quanto possa sembrare paradossale, radici europee, in quanto negli Stati Uniti regna un dif­fuso timore della cosiddetta "balcanizzazione" (nel senso di disgregazione), appren­sione che si miscida con la xenofobia manifestata verso i non bianchi, i non europei e i non cristiani, percepiti come elementi acutamente disomogeneizzanti

Ultimamente il concetto di "balcanizzazione linguistica" ha conosciuto anche altre applicazioni concrete inattese, connotate negativamente, poiché nel senso comune la "balcanizzazione" è stata intesa non soltanto come plurilinguismo delete­rio, babelico, ma anche come situazione di instabilità sociale. Alcuni commentatori belgi sostengono, ad esempio, che il Belgio, come visto dai Francesi, avrebbe un'a­ria stranamente balcanica, in virtù del pluriculturalismo che molti Francesi non rie­scono a concepire, e delle sue conseguenze non sempre costruttive. Si arriva persino a parlare, relativamente al Belgio, di "guerra civile dichiarata, anche se essa si com­batte senza armi" (cfr. "Le Monde", 22.1.97) e la fondazione alla fine degli anni Sessanta di Louvain-la-Neuve ne potrebbe costituire una prova.

7. Ripartendo dal problema dell'anglofonia come opzione cosciente o come presun­ta tendenza spontanea unificante sul piano linguistico in Europa, gli esperti europei raccomandano, come si accennava, la promozione della diversità linguistica. Essa andrebbe favorita a partire dall'età più giovane e in primo luogo nel settore della com­petenza attiva. La precedenza andrebbe accordata alle lingue dei territori confinanti, al fine di accrescere la comprensione linguistica e culturale tra vicini e per creare le basi della futura collaborazione tra le odierne giovani generazioni, una volta diventate pro­duttive. È una raccomandazione di non poco conto, in quanto l'azione coinvolgerebbe non soltanto i parlanti delle lingue modimes, ma anche e soprattutto gli utenti primari delle lingue a maggior diffusione. Qualche commento e aggiunta a margine.

Si constata infatti comunemente che in compresenza, entro uno stato per esem­pio, di lingue a minor e a maggior diffusione, nelle regioni dove vige un bilinguismo sociale quest'ultimo non determina automaticamente il bilinguismo individuale. Se gli appartenenti alla minoranza apprendono la lingua della maggioranza per neces­sità, per convenienza o per legge, il contrario certe volte non si verifica nemmeno limitatamente alle zone più interessate dal fenomeno del bilinguismo. Gli esempi sono numerosissimi: in certe regioni della Romania, mentre gli Ungheresi appren­dono e sono obbligati a apprendere il romeno, gli stessi obblighi morali, comunica­tivi e di legge non valgono per i Romeni conviventi. Si desume dalle letture specia-listiche che in Spagna funzionino analogamente in linea di massima anche i rappor­ti tra catalanofonia e ispanofonia, o tra bascofonia e ispanofonia.

Casi ugualmente poco raccomandabili, alla luce delle tesi di Amsterdam, sono quelli in cui, invece, membri di una minoranza, allo scopo di evitare l'uso dell'invi­sa lingua maggioritaria, ricorrono a una lingua straniera internazionale per la comu­nicazione verso l'esterno. Questo accade tra i Frisoni o tra i Saami della Norvegia o della Svezia, i quali pur di non usare il neerlandese, il norvegese o lo svedese, pre­feriscono l'uso dell'inglese con i concittadini di lingua maggioritaria. È altrettanto negativo quando membri di una minoranza, spontaneamente competenti anche in una lingua maggioritaria del loro stato, per di più anche a diffusione internazionale (come l'inglese o lo spagnolo), si rifiutino, per risentimento e per spirito di ritorsio­ne, di usarla persino negli interscambi con terzi, come ad esempio con i turisti stranieri.


Se quest'ultimo può diventare un atteggiamento della gente comune che non va incoraggiato, i rappresentanti più autorevoli o più prestigiosi delle minoranze, al con­trario, non sempre hanno scelto (nei tempi più recenti) o scelgono (attualmente) la lingua minoritaria come veicolo prioritario, dando la preferenza a una lingua a dif­fusione internazionale quando questa faccia parte del proprio repertorio d'uso spon­taneo. È il caso frequente di scrittori o poeti, bilingui nativo-inglesi o nativo-france-si come persone, e anglo o francoscriventi come artisti (negli Stati Uniti, nelle Isole Britanniche, in Francia o, soprattutto, in vari stati africani (Racconti dall'Africa 1993). Se spesso in casi simili si grida al tradimento, specie in situazioni di acceso conflitto interetnico, il fenomeno va invece valutato più oggettivamente alla luce del­l'attrazione irresistibile esercitata dalle

lingue internazionali, soprattutto quando que­ste occupino già spontaneamente i ranghi superiori del singolo repertorio linguistico. In parole povere, potendo scegliere tra una lingua a diffusione minima e una lingua che garantisca milioni di lettori potenziali, raramente ci si può permettere il lusso di esitare. Va perciò sottolineato, a mio avviso, che i giudizi morali su tali scelte devo­no essere banditi. Pertanto, pur disponendo di una casistica che riguarda persone viventi e note, ricorrerò piuttosto a un caso classico consolidato.

In questo contesto è appropriato ricordare ad esempio John Millington Synge, 1871-1909, poeta, saggista e soprattutto commediografo anglo-irlandese, figura importante della rinascita celtica di fine secolo al lato di Yeats ed altri. Benché Synge fosse diventato un buon conoscitore della lingua irlandese, come scrittore è rimasto fedele all'inglese, contribuendo sul piano letterario allo sviluppo di una varietà par­ticolare di inglese che è considerata tipicamente irlandese. Come qualsiasi varietà linguistica geografica, anche l'iberno-inglese ha caratteristiche fonetiche, morfo-sintattiche, lessicali e idiomatiche sue proprie (S 3/1989, articolo di J. Harris; Crystal 1995). La produzione drammaturgica di Synge riflette non soltanto tali peculiarità ma soprattutto la capacità di sfruttare la funzione poetica della lingua e di manipola­re le figure retoriche con una forza e in una quantità del tutto ignote all'inglese bri­tannico. Il piacere della manipolazione linguistica, la funzione ludica, è peraltro di derivazione popolare, in quanto è osservabile anche nella conversazione quotidiana della gente comune. L'inventiva linguistica, che accomuna parlanti spontanei e scrit­tori come Synge o più tardi James Joyce, genera un inglese iperbolico, esuberante, con un eccesso di formulazioni non previste dalla norma, idiolettiche dunque, che colgono di sorpresa e che favoriscono la competizione verbale. Ciò che dunque caratterizza l'iberno-inglese di Synge è soprattutto una speciale dimensione sintatti-co-testuale dominata apparentemente dalla funzione emotiva a scapito di quella informativa, dimensione che conferisce al linguaggio molta teatralità e forza. Nel teatro anglofono la loquacità, la verbosità degli Irlandesi era stata già usata con fun­zione ironica precedentemente a Synge. Per questa ragione una delle commedie di Synge, The Playboy of the Western World ( 1907), ha avuto una accoglienza negativa molto violenta da parte dei nazionalisti irlandesi, in quanto evidentemente era stata recepita come una parodia, sia sul piano tematico che su quello linguistico. Ma nes­suno può negare e nessuno nega che l'inglese di Synge non sia inglese, anche se regionale e popolare, o meglio volutamente regionale e popolare. Senza entrare nei particolari dell'arte drammatica dello scrittore anglo-irlandese, quest'esempio è stato qui utilizzato al fine di evidenziare che entro la medesima lingua possono essere espressi in una forma innovativa contenuti assenti nella cultura di partenza relativa alla data lingua e presenti nella sua cultura di arrivo. Synge, pur essendo angloscri­vente, è classificato e sarà classificato/recepito come irlandese. Caso emblematico di un'unica lingua-tetto diatopicamente differenziata e che ricopre, inoltre, una notevo­le variazione culturale.


8. L'importante variazione diatopica e diastratica dell'inglese come lingua spontanea prima o seconda, variazione dovuta all'espandersi dell'inglese su tutti i continenti come lingua coloniale, è attualmente in aumento a causa dell'assunzione dell'ingle­se come lingua straniera per eccellenza (Crystal 1995). Per cui, a rigore, è oramai più realistico parlare di lingue inglesi tendenti alla differenziazione (creolizzazione), che non di lingua inglese. Ai livelli più elementari, appresi più o meno spontaneamente, si tratta di un inglese tecnico, da computer, d'aeroporto, turistico, in sostanza di un inglese ridotto, spesso approssimativo e scorretto (PiattElli Palmarini 1991). Tuttavia, persino a questi livelli, esso gode, come l'inglese in genere, di una serie di qualità positive che gli vengono attribuite nel campo dei giudizi sulla lingua, delle valutazioni o della cosiddetta "immagine". Alcuni sondaggi (Flutz 1988) evidenziano in modo assai netto le virtù attribuite all'inglese, soprattutto all'anglo-americano: modernità, dinamismo, giovanilismo, attualità, apertura sul mondo sul futuro sulla tecnologia, ecc, il che va ovviamente considerato come riflesso delle situazioni o dei settori presi per modello in cui l'inglese domina. Tra questi il mondo della scienza, le cui pubblicazioni o

manifestazioni scientifiche a destinazione internazionale offro­no spazio esclusivo all'inglese. È talmente alta la richiesta di inglese tenico-scientifico che in certi paesi (Olanda, Francia) l'istruzione unversitaria scientifica e i corsi di perfezionamento aziendali stanno adottando l'inglese come lingua d'uso. Data la

difficoltà di reperire interpreti simultanei o traduttori in inglese da qualsiasi lingua, il che influisce negativamente soprattutto sul parlato spontaneo richiesto ad esempio dalle situazioni di rapida interazione diretta, e considerato il costo delle prestazioni di interpretariato/traduzione, per il singolo è opportuno e a lungo andare meno one­roso investire per tempo anche nell'apprendimento attivo e orale dell'inglese e non solo in quello passivo.



L'internazionalizzazione dell'inglese, contrastata sul piano teorico dagli esperti che raccomandano la più ampia glottodiversità possibile, avviene in Europa in paral­lelo con un fenomeno altrettanto forte, che è la regionalizzazione in atto, fenomeno politico e economico importante e complementare alla costituzione dell'Europa unita. Alle volte, avendo per modello lo stato nazionale (l'etnostato), la regionaliz­zazione, in linea di principio, tende a valorizzare e ad emancipare gli idiomi a diffu­sione regionale, dunque tende a frantumare i grandi blocchi nazionali anche sul piano linguistico e su quello dell'istruzione scolastica. Questo problema, laddove esiste già o laddove inizia a manifestarsi, è però diverso dalla promozione della pluralità lin­guistica nel senso del potenziamento di tutte le competenze linguistiche. È un pro­blema diverso poiché l'emancipazione dell'idioma locale è progettata o anzi avvie­ne a spese della koinè nazionale/statale precedente, di più ampia diffusione geogra­fica e sociale. Di fatto in molti casi una precedente situazione di bilinguismo/diglos­sia tende a evolversi, non sempre spontaneamente, verso il monolinguismo, creando sul piano internazionale delle entità linguisticamente più deboli o più segregate. Questo è quanto si sta verificando negli stati diventati indipendenti dell'ex Unione Sovietica, in cui il russo sta regredendo e vien fatto regredire; su tale fenomeno le valutazioni sono ovviamente discordi (S 6/1992, articolo di H. Haarmann; Culture... 1996, art. di I.-M. Greverus). Più concretamente, in Estonia parte della popolazione non concepisce più il proprio paese come stato multinazionale che conceda ricono­scimento alla minoranza più importante che è quella russa. Per la Lettonia, invece, si parla addirittura di "polizia linguistica" che spia e punisce la russofonia pubblica, al mercato ad esempio. Quale cornice generale all'intero discorso non è lecito dimen­ticare che nell'Europa orientale, diversamente dall'Europa occidentale, il più delle volte le popolazioni minoritarie sono maggioranze in contesti politici diversi ma limitrofi e che dunque il confine politico, tagliando fuori ampi territori e grandi masse della stessa lingua ed etnia, raramente o quasi mai coincide con quello etno­linguistico. Per queste situazioni, nonché per le conseguenze dei nuovi fenomeni europei di migrazione, attualmente il migliore rimedio teorico è l'assunzione del principio del duplice riferimento culturale-territoriale, malvisto peraltro dalle politi­che o dagli atteggiamenti di tipo nazionalistico.


Un altro problema, oltre ai due sopramenzionati, che va a scontrarsi con la que­stione di come impostare proficuamente un'istruzione plurilingue generalizzata e democratica, è un'esigenza linguistica molto sentita in alcuni grandi stati europei. Tale problema è relativo all'apprendimento a scuola della lingua nazionale o ufficiale dello stato. Ci riferiremo all'Italia e alla Francia. In questi due paesi gli osserva­tori mettono in evidenza la necessità di impartire una miglior educazione linguistica delle rispettive lingue 'nazionali'. Si tratta dunque di una problematica circoscrivi-bile in parte a un ambito monolinguistico, dato che la causa del deterioramento, o del supposto deterioramento dell'italiano o del francese nelle generazioni più giovani, non viene individuata nel bilinguismo collettivo ma nel malfunzionamento scolasti­co. In Italia, com'è noto, sono generalizzate le lamentele sulla competenza linguisti­ca insufficiente, soprattutto di quella scritta, dei giovani che varcano le soglie del­l'università, nonostante oramai vi siano legioni di linguisti e di letterati che operano intorno alla scuola. In Francia si ripetono gli appelli a considerare l'insegnamento linguistico/monolinguistico come materia principale o come una delle materie prin­cipali della scuola, raccomandazione collegata ai progetti di riforma della scuola. Nel numero del 21.6.1996 del quotidiano "Le Monde" è stata pubblicata l'introduzione alla relazione della commissione nominata dal Ministero per l'educazione naziona­le sul problema della riforma della scuola; gli obiettivi primordiali individuati per la scuola dell'obbligo, dunque per i fanciulli e i ragazzi fino ai sedici anni, sono molto semplici e si direbbe scontati; il fatto però che questi obiettivi vengano espli-citati sta a significare che la scuola in generale non offre i mezzi per raggiungerli in modo ottimale. Il sapere primordiale di ciascun cittadino francese dovrebbe com­prendere il leggere, scrivere, parlare correttamente il francese; saper calcolare; conoscere le figure, i volumi, le proporzioni e riconoscere l'ordine di grandezze; riuscire a situarsi nello spazio e nel tempo e prima di tutto nel proprio ambiente cir­costante; altri obiettivi che presento in ordine sparso: educazione del corpo e della sensibilità artistica, manipolazione delle macchine semplici e non in ultimo luogo apprendimento dei valori della democrazia. Come si può osservare, in questa sede l'educazione plurilingue/multiculturale non è prospettata. Il quadro più ampio di riferimento di queste preoccupazioni e di queste raccomandazioni linguistiche dovrebbe essere la ripartizione dello spazio educativo tra materie umanistiche e scientifiche, in modo che anche all'analfabetismo tecnologico, laddove esiste, venga posto rimedio. In Francia viene denunciato (v. "Le Monde", 24.1.1997) anche l'illetterismo degli adulti, vale a dire l'incompetenza linguistica di persone che pur essendo scolarizzate, non padroneggiano sufficientemente il registro scritto richie­sto dalla moderna vita professionale, sociale, culturale e persino privata (corrispon­denza). Questi due aspetti, illetterismo e analfabetismo tecnologico, sommati uno con l'altro, indicano che la scuola non forma e non educa sufficientemente proprio nei settori fondamentali linguistico-scientifici. In questo modo si è ritornati alla base del discorso, in quanto è chiaramente problematico mettere d'accordo le preoc­cupazioni per un miglior insegnamento della lingua prima o della lingua naziona­le/ufficiale con le necessità di un'instruzione plurilingue, evitando al contempo di trasformare la scuola in un'istituzione in cui venga impartito esclusivamente o soprattutto l'insegnamento linguistico.



9. A livello comunitario si pone l'accento anche sulla valorizzazione delle enormi competenze linguistiche abbandonate a se stesse o lasciate andare alla deriva, come le lingue originarie degli immigrati di qualsiasi provenienza (un esempio per tutti: il caso dei Vietnamiti in Finlandia (S 9/1995), o i numerosi idiomi minoritari e regio­nali. Ci si preoccupa, per lo meno in linea teorica, di dare voce e mezzo di espres­sione ai linguisticamente emarginati, a coloro che sembrano essere "muti e stupidi"; a coloro che vivono di continuo una condizione di inferiorità linguistica, condizione peraltro vissuta anche da intellettuali non anglofoni quando si trovino in contesti internazionali di pura anglofonia.



La semplificazione della situazione linguistica, raggiungibile con l'adozione di una sola e comune lingua storica o artificiale, non è dunque attualmente un obietti­vo teorico ragionevole. Tale semplificazione contrasterebbe infatti con la necessità di un'espressione ricca e articolata, adatta a popolazioni ad avanzata alfabetizzazione e con una tecnologizzazione di massa. L'obiettivo generale non sembra essere quello razionale della perfezione linguistica, tanto meno della perfezione logica entro una sola lingua, quanto l'acquisizione di uno strumento linguistico duttile, creativo; non si è alla ricerca della semplicità universale dedotta da pochi principi ma si persegue la potenzialità aperta a tutto. Tuttavia, come sottolineano gli studi (S 8/1994), l'uso raffinato, sfumato, di una lingua storica, che si raggiunge soltanto dopo lunghi anni di allenamento e di full immersion, è richiesto soprattutto nei settori umanistici, letterari, creativi; nei settori scientifici, in cui vige un linguaggio parzialmente forma­lizzato e stereotipato, e in cui in sostanza è sufficiente un linguaggio soltanto deno­tativo e non connotativo, la convergenza maggioritaria su di una sola lingua, l'ingle­se, inutile ripeterlo, è già avvenuta.





Anche nel settore degli affari domina ed è richiesto prioritariamente l'inglese. Sono, questi ultimi (scienze e transazioni commerciali) esempi di ambiti speciali, internazionalizzati, dove è frequente la presenza fisica, come interlocutore effettivo, di stranieri; sono pertanto anche esempi di cosiddetti spazi transglossici, che si rea­lizzano anche con la presenza di un solo esolingue, e in cui si tende spontaneamen­te a convergere su una lingua internazionale comune a tutti (S 8/1994, articolo di CI. Truchot). Ciò determina la necessità, a parere di alcuni, di far obbligatoriamente diventare l'inglese se non lingua franca unica d'Europa, al meno una delle lingue presenti nel repertorio complessivo del singolo. Questa soluzione attenuerebbe il pericolo dell'inglese unico, salvaguarderebbe il ruolo delle lingue nazionali/locali che in molti casi si vuole tutelare a tutti i costi (v. il caso del francese oppure del sardo) e spingerebbe gli stati europei a elaborare meglio la propria politica linguisti­ca interna (S 8/1994). Per le lingue romanze, che nel loro insieme, francese in testa, sono minacciate di marginalizzazione come lingue di prestigio (a causa sia dell'in­glese che del tedesco), si stanno elaborando a ritmo sostenuto metodi di apprendi­mento simultaneo di 4-5 lingue (v. "Le francais dans le monde" genn. 1997; Reinheimer-Tasmowski 1997; EuRom 4 1997 e altri progetti ancora). Parallelamente, la necessità della comprensione multilingue (nella ricerca bibliografica, ad esempio) spinge i linguisti e gli psicolinguisti ad indagare sulle strategie di comprensione, da parte di un lettore adulto e fortemente motivato, di un testo specialistico in lingue sconosciute (v. "Le francais dans le monde" 1997 cit.).

10. È opportuno, a questo punto, introdurre l'argomento spinoso del grado di com­petenza linguistica, cioè del grado di appropriatezza linguistica raggiungibile in situazione sia monoglossica che soprattutto pluriglossica. G. Ludi, nella presenta­zione degli atti del colloquio sul bilinguismo del 1984 (Devenir bilingue...1987), dichiara che non si è voluto insistere per principio sui lati deficitari della competen­za degli individui bi/plurilingui; questo in virtù del fatto che il bi/plurilinguismo spontaneo non è il risultato di una giustapposizione di due o più competenze mono-lingui, ma va considerato come uno stato qualitativamente diverso dal monolingui-smo e tendenzialmente equilibrato (equilibrato per lo meno rispetto alla situazione che lo genera). Sia la competenza dell'individuo bi/plurilingue, sia la sua personalità vanno dunque affrontate olisticamente e non vanno parcellizzate. Come ambito di studio specializzato, è compito della cosiddetta linguistica di contatto (ted. Kontaktlinguistik) affrontare i fenomeni d'interferenza.



Da queste considerazioni sulle competenze complessive dell'individuo plurilin-gue nasce anche il concetto di marca transcodica, relativo a entità linguistiche astrat­te il cui contenuto derivi spontaneamente e inevitabilmente dall'incontro di più codi­ci (si tratta, in concreto, di prestiti, calchi, transferts, slittamenti o commistioni di codici). La marca transcodica, in quanto entità astratta legata a fenomeni spontanei e osservabili, non comporta giudizi di valore; in sede osservativa non viene perciò classificata come 'errorre' o come 'scarto dalla norma'. Sulle marche transcodiche possono tuttavia pesare giudizi sociali, espressi in maniera diversificata in funzione della competenza del singolo. Una certa comunità può semplicemente consentire lo sviluppo del bilinguismo (Ducos 1983, p. 62), accettando al contempo i problemi sociologici, linguistici (le marche transcodiche) e psicologici che ne derivano sul piano individuale e collettivo; in un'altra comunità, invece, le marche transcodiche possono essere ritenute non tollerabili, e di conseguenza

criticate e sanzionate. Per quanto, dunque, l'individuo bi/plurilingue costituisca un caso complesso e struttura­to, ciò non implica che il suo inserimento sociale come individuo plurilingue non ponga problemi. In certe situazioni, come ad esempio quella attuale dell'Armenia, molti bilingui vengono definiti semilingui, cioè poco competenti in ciascuna delle due lingue e pertanto etnicamente ibridi, dominati da complessi di inferiorità, e rite­nuti potenzialmente aggressivi (v. Lengua... 1997).









Dato che il grado di competenza può incidere sulla riuscita dell'interazione lin­guistica, limitatamente ai consessi internazionali importanti si sta prospettando la soluzione del dialogo poliglotta (S 8/1994) che è d'altronde il tipo d'interazione lin­guistica che può avvenire spontaneamente in una qualsiasi comunità plurilingue sbi-



lanciata (Francescato-Solari Francescato 1994); questo significa che ogni interlocuto­re parla con appropriatezza la propria lingua e comprende le lingue degli altri, il che combina le competenze attive con quelle passive a livello di gruppo, e non più sol­tanto a livello di individuo. Ma anche in questo caso il risultato spontaneo previsto, limitandoci sempre alle riunioni internazionali e tenendo presente le capacità medie dei singoli, sarebbe più o meno la trifonia di cui si è già parlato (anglo-tedesco-fran­cese). Infatti nemmeno le nove lingue ufficiali attuali della comunità europea, per non parlare di tutti gli altri idiomi, si trovano allo stesso livello di forza competitiva. Ciò fa convergere spontaneamente i parlanti delle lingue meno diffuse sulle lingue internazionali di affermato prestigio.



Quale che sia la soluzione che si dovrà adottare, il plurilinguismo degli europei è visto come inevitabile e auspicabile; di conseguenza l'educazione plurilingue deve essere raggiunta ed è considerato un obiettivo vantaggioso raggiungerla. Certamente però, comparando i costi e i mezzi di un'educazione plurilingue con quelli di un'e­ducazione monolingue, quest'ultima dimostra tutti i suoi vantaggi pratici in termini di costi, tempi, formazione del personale e risultati. Ma questi vantaggi sono tali sol­tanto all'interno di uno stato, sempre che lo stato sia ufficialmente monolingue, e non è questo il caso di certi stati europei. Inoltre il monolinguismo scolastico crea bar­riere linguistiche interstatali incompatibili col futuro previsto per l'Europa. E dun­que, benché meno problematico e meno costoso, il monolinguismo intrastatuale è di impedimento alla creazione dell'Europa unita plurilinguistica. Per essa si prevede anche un organo transnazionale, pluridisciplinare, politicamente indipendente, auto­revole e rappresentativo delle lingue e dei paesi dell'Unione europea. Si auspica dun­que, nell'appello di Amsterdam, la creazione di un Consiglio europeo delle lingue, col compito di elaborare le direttive di una politica linguistica dell'Europa: creazio­ne di comitati nazionali per lo studio e la promozione del plurilinguismo; promozio­ne di dibattiti sulla politica linguistica nei parlamenti nazionali e al parlamento euro­peo; promozione di campagne informative rivolte al grande pubblico sugli orienta­menti e gli obiettivi di una politica plurilingue; promozione di un ampio programma di scambio di insegnanti tra le istituzioni scolatiche, insegnanti che andrebbero a svolgere il proprio lavoro nella propria lingua, collaborando così sia all'acquisizione di conoscenze, sia all'acquisizione delle lingue; e non in ultimo luogo sollecitazione a elaborare il quadro legale che regolamenti gli scambi su grande scala, le professioni legate alle lingue e l'uso linguistico dei mezzi di comunicazione di massa.







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