Quante volte nelle vie di Roma e in quelle di varie città d’Europa ho avuto occasione di osservare personaggi immobili, trattenuti nella loro realtà da uno spesso strato di cerone bianco, come scesi da un altro angolo di mondo, nelle vesti di faraoni, damerini del settecento, Pierrot, cowboys…

"Statue viventi" è il termine esatto per definirli ma molte persone li chiamano "mimi"; il mimo, se facciamo dei passi indietro nella storia, era in realtà nell'antica Grecia una sorta di dialogo recitato in scena che per lo più si riferiva a fatti di vita quotidiana; in età ellenistica poi divenne un genere di sola lettura; quando, poi giunse a Roma il mimo era già una forma raffinata e prese piede in un momento di crisi dei generi più elevati che si ebbe in età repubblicana; pian, piano, infatti, durante l'età imperiale, si distaccò dalla commedia e dalla tragedia ed assunse le forme di balletto e recitazione muta basata soprattutto su improvvisazioni; il tema base delle scenette era quello degli equivoci piccanti o del litigio con finale a sorpresa, adeguato al gusto popolaresco.
In età più recente, poi, con Etienne Decroux, considerato il padre del mimo moderno, e maestro dei più grandi attori di mimo francese quali Jacques Lecoq e Marcel Marceau, abbiamo l'elaborazione di una grammatica corporale in cui viene descritto e codificato ogni singolo movimento da riprodurre sulla scena.
Dunque l'arte del mimo, ai tempi nostri, è da considerare una sorta di dialogo basato esclusivamente sulla gestualità ma, per tornare a questi personaggi che troviamo per le strade, comunque vogliamo chiamarli: "statue viventi" oppure "mimi", colpiscono e sorprendono anche con la sola presenza o con pochi movimenti; più di una volta mi è capitato di avvicinarmi ad uno di loro per gettare una moneta nel raccoglitore posto ai loro piedi e il dialogo brevissimo che, qualche volta, ne è nato si è svolto su un piano più diretto rispetto alla comunicazione a parole; un'espressione di gioia degli occhi e un gesto di ringraziamento della mano ricambiati da un mio sorriso hanno creato un contatto inequivocabile ed esclusivo rispetto alle persone circostanti ed è proprio in questo tipo di esclusività, dettata anche dal silenzio, che io trovo anche il distacco, la malinconia dell'artista che per la sua particolare natura vive estraniato da certe regole della società, con pochi spiccioli.
Ricordo, con piacere, l'immagine di uno di questi personaggi ad una fermata di autobus dove attendevo anch'io; era seduto su una valigia col mento appoggiato alla mano, abiti usuali, jeans e maglietta, forse tornava a casa ma aveva ancora sul viso il trucco di colore bianco e un cappello a cilindro in testa; dall'altra mano penzolava qualcosa; ad un certo punto, passò l'autobus che doveva prendere, si alzò e prima di salire sul mezzo si accostò a me e mi donò il fiore che aveva in mano, senza sorridere.