La professoressa Maria Luisa Altieri Biagi è docente di Storia della Lingua Italiana all’Università di Bologna. In seguito alla prolusione da lei tenuta in occasione dell’apertura dell’Anno Accademico 1993-1994, in cui si parlava anche di Esperanto, il GEB (Gruppo Esperantista Bolognese) ha deciso di intervistarla su questo tema e sul fenomeno lingua in generale.


D. Se dovesse dare un giudizio sul modo in cui si svolge attualmente la comunicazione internazionale, che cosa direbbe? Esiste una lingua dominante?

R. Una domanda un po’ vaga... La lingua dominante certamente esiste, ed è l’inglese. Io sarei meno catastrofica di quanto non sono gli altri, perché la storia della nostra lingua è piena di episodi simili; nel Settecento la situazione attuale dell’inglese era rappresentata dal francese, e fra il Cinque e il Seicento era rappresentata dallo spagnolo. Poi non è successo niente, è rientrato tutto.

D. Però oggi c’è la televisione...

R. Oggi c’è la televisione e quindi è tutto accelerato; ad ogni modo la lingua dominante è l’inglese, su questo non c’è nessun dubbio. E poi, dire inglese non è proprio giusto, perché si tratta di una sottospecie di inglese; è un inglese rudimentale, che per noi può avere anche uno scopo pratico, ma nuoce molto alla lingua inglese, impoverendo la sua articolazione..

D. Io non so fino a che punto sia di utilità pratica l’inglese attuale: mi sembra si tratti di un’utilità pratica minimalista, serve per alcune cose ma, per quel che riguarda una comunicazione a livello qualitativamente più alto, ancora non ci siamo.

R. Certo. Si tratta di una lingua che funziona largamente al livello che io chiamo della “sopravvivenza quotidiana”; ma bisogna smetterla di dire che l’inglese è facile. L’inglese è facile perché lo usiamo in maniera rudimentale, però l’inglese per esempio è una delle lingue più difficili che esistano per quanto riguarda la pronuncia. Ora incominciano a studiare inglese da piccoli ed è un gran bene, una persona di una certa età l’inglese non lo imparerà mai, ormai non ha più l’apparato fonatorio capace di pronunciare certi suoni, mentre una lingua di più facile pronuncia... sto pensando al tedesco, per non dire poi di lingue come l’italiano o lo spagnolo, o l’Esperanto: l’inglese non è che sia una scelta utilissima. Qualunque lingua è semplice se trattata come noi trattiamo l’inglese, e in più l’inglese ha una pronuncia difficoltosa.

D. E infatti il successo dell’inglese non è dovuto alle sue qualità intrinseche, ma ad una precisa situazione politica...

R. Di tipo, diciamolo pure, economico, perché se non ci fossero gli Stati Uniti, col loro potere economico e tutto ciò che questo comporta... potere economico significa anche prestigio scientifico ( per il semplice fatto che si possono pagare i cervelli per fare della ricerca), vuol dire prestigio politico; è il denaro l’elemento che ha favorito l’inglese e il prestigio che l’inglese ha oggi, come “lingua passaporto”.

D. Ma Lei ritiene che si arriverà, allora, a una situazione di diffuso bilinguismo con l’inglese trattato da lingua inglese e non da miscuglio personalizzato?

R. Se c’è qualcosa che io ho imparato occupandomi di storia della lingua è che non bisogna fare vaticinii troppo precisi perché non si possono mai prevedere certi eventi. Ci sono stati momenti in cui noi linguisti ai nostri figli facevamo studiare il russo, o il cinese o il giapponese dicendo “domani si parlerà russo”, e Lei vede che non è questa la situazione. È difficile fare delle previsioni. Io però non sarei così sicura al cento per cento che domani il bilinguismo sarà con l’inglese.

D. Io direi però che stiamo andando verso una situazione non di vero bilinguismo, ma di uso nella comunicazione internazionale di una specie di pidgin, un inglese molto scorretto, con un certo margine di oscillazione da un Paese all’altro...

R. Sì, per ora la situazione è questa, e non piace a nessuno. Per esempio non piace agli inglesi, che non ne sono per nulla soddisfatti e hanno perfettamente ragione.

D. E gli americani?

R. Mah, forse gli americani si pongono meno il problema, però gli inglesi, lo so con precisione, non hanno affatto piacere di questo sfruttamento... Oltretutto bisogna pensare una cosa: se domani tutti gli altri popoli fossero bilingui, cioè avessero la loro lingua per gli usi “profondi” e una lingua “superficiale” per i contatti umani, cioè l’inglese, questa sarebbe una forza, perché il bilinguismo è una forza. Solo gli inglesi non avrebbero bisogno di essere bilingui e questo li chiuderebbe in un monolinguismo pericoloso.

D. Pericoloso in che senso?

R. Nel senso che se è vero che la lingua è un fortissimo aiuto per il pensiero, il possesso di due lingue raddoppia questa situazione positiva, e il possesso di tre è ancora meglio; cioè più lingue sappiamo, più filtri abbiamo per il nostro pensiero. Un popolo che diventasse indolente nell’imparare le altre lingue perché la sua è dovunque conosciuta, sarebbe diciamo così avviato ad un monoliguismo poco utile dal punto di vista mentale.

D. Ecco, questo senz’altro dal punto di vista mentale, però mi sembra che la supremazia linguistica sia una componente importante di una supremazia a livello più generale...

R. Questo sì, bisogna vedere però se c’è una politica che affianca... Le faccio subito un esempio antico: è chiaro che i Medici nel Cinquecento e nel Seicento hanno prodotto questa politica di esportazione della loro lingua in Italia, ma era appoggiata ad una manovra politica per cui la lingua diventava il simbolo di un’espansione, di un equilibrio retto da loro, di una supremazia che si esprimeva per esempio anche coi papi medicei; si capisce che abbiano fondato la Crusca e poi l’Accademia del Cimento: volevano che la lingua e la ricerca scientifica consolidassero il loro potere politico. Però oggi i giochi sono estremamente vari, io non credo che la lingua possa avere questa funzione su base, diciamo così, universale.

D. Ma io ho sentito dire spesso “Mentre noi studiamo faticosamente l’inglese loro, che già lo sanno, studiano la chimica, studiano la fisica nucleare...”

R. No guardi, questo è un modo strumentale di concepire le lingue. La lingua serve sì come strumento, ma è una delle sue funzioni. La funzione più importante della lingua è quella di dialogare con il nostro pensiero, di dargli lucidità, di tradurre verbalmente le nostre operazioni mentali. Ecco, questo va sempre tenuto presente. Dal punto di vista strumentale la lingua è sostituibile con altri codici, in fin dei conti specializzando il codice gestuale o un codice iconico noi potremmo tranquillamente utilizzarlo a livello di sopravvivenza quotidiana. Però quello che è insostituibile della lingua è il tipo di educazione mentale che dà il pensare in una lingua o in più lingue.

D. E in una lingua artificiale?

R. Io non ci vedrei molta differenza. Una lingua artificiale è una lingua, funziona come una lingua e starei attenta a fare la distinzione perché quando noi parlavamo latino, nel Cinque, Sei e Settecento, quella per noi era una lingua artificiale; la lingua che oggi parlano in Israele è una lingua artificiale. Io non farei questa distinzione così estrema fra “lingue naturali” e “lingue artificiali”, abbiamo assistito a lingue che muoiono e che quindi quando rinascono dovrebbero essere artificiali, come il latino per noi, ma che funzionavano benissimo. Pensi all’ebraico, all’irlandese; insomma di esempi ne abbiamo molti.

D. Riferendomi alla Sua relazione “La lingua italiana fra tradizione municipale e vocazione europea” vorrei capire meglio per esempio la Sua ipotesi di un plurilinguismo in cui ciascuno parla la propria lingua e se questa è una possibilità vera di comunicare.

R. Allora, devo ribadire un concetto che ho già espresso. Per me l’utilità di una lingua non è soltanto quella strumentale ma anche quella per così dire “mentale”, cognitiva. Più sono le lingue al nostro servizio più io vedo questo aspetto potenziato. Quindi mi piace in sé il plurilinguismo, non soltanto perché consente una comunicazione molto varia con popoli diversi, ma anche perché offre strumenti diversi al nostro modo di pensare, di ragionare. Quell’idea cui Lei alludeva è una constatazione: cosa significa imparare una lingua, ci sono dei gradi in questo nostro apprendimento. Un grado molto utile, ma certo non completo, è capire quando si legge. Ci sono persone, io sono fra quelle, che quando leggono un testo tedesco lo capiscono abbastanza bene, con l’aiuto di un vocabolario. Però sentendo parlare in fretta perderebbero molte cose, e sarebbero terribilmente imbarazzate a parlare quella lingua. Quindi ci sono tre livelli: se fosse possibile, come mi sono accorta che è possibile, arrivare a un livello di comprensione, di conoscenza passiva, sarebbe già qualcosa di molto importante, e io sto controllando che in città molto aperte al plurilinguismo come Zurigo o Bruxelles, mentre prima era necessario parlare la lingua locale, oggi si entra in un negozio e si vedono quattro o cinque persone che parlano ciascuna nella propria lingua comprendendosi. Io posso parlare in italiano e vengo capita, mi viene risposto in francese e capisco. Sarebbe molto importante arrivare a un “plurilinguismo passivo”, nel senso che ciascuno parla la propria lingua senza perdere la ricchezza che essa comporta, ma capisce anche le altre lingue. Questo sarebbe un utile stadio intermedio.

D. Che, mi sembra, va un po’ nella direzione della politica linguistica della CEE che, in linea teorica, predica appunto il plurilinguismo...

R. Sì, perché è un arricchimento mentale, un rispetto delle singole lingue nazionali e un rispetto del fatto che abbiamo bisogno di una lingua ricca per esprimerci riccamente. Certo è una cosa ancora da venire...

D. Sì ma mi sembra anche che si fermi solo ad un certo stadio dei bisogni comunicativi, che non li soddisfi tutti, anche perché abbiamo nove lingue ufficiali nella CEE, più due semiufficiali, più tante altre...

R. Certo. Lei insomma vuole arrivare a farmi dire che è necessario l’Esperanto.

D. Beh, io vorrei capire se è necessaria una lingua in comune per tutti.

R. Ecco, se non pretendiamo troppo da questa lingua io direi di sì. Penso che i fallimenti del passato possano essere dovuti ad una metodologia sbagliata nel farla attecchire. Cosa succederebe oggi se una lingua come l’Esperanto fosse assunta dalla Comunità Europea, fossero preparati dei corsi di Esperanto omogenei per tutti i Paesi (ma naturalmente differenziati a seconda delle rispettive lingue) e programmati nelle ore di scuola con trasmissioni di tipo internazionale, diciamo due o tre ore alla settimana, in tutte le scuole della Comunità? Questo potrebbe essere fatto. Dal basso, dalla base, io lo vedo poco, ma dall’alto, da una specie di Ministero della pubblica istruzione internazionale...

D. Il problema è che questo richiederebbe un cambiamento nella politica linguistica della CEE, che finora è sempre stata freddina con l’Esperanto. Ma cos’è che potrebbe indurre questo tipo di cambiamento?

R. Mah, anche non sentir dire tante sciocchezze, perché di sciocchezze sull’Esperanto se ne son dette tante, non abbiamo mai provato in realtà cosa vuol dire fare una didattica scientifica dell’Esperanto, bisogna vedere se c’è la volontà politica... certo un uomo come Umberto Eco che dice che ci crede vi aiuta. Finché troviamo dei linguisti superciliosi che fanno una gran distinzione fra le lingue naturali e le lingue artificiali, o che hanno questa visione romantica della lingua, un po’ neogrammatica, come fosse una piantina, allora è difficile che queste cose attecchiscano. Bisogna essere un po’ più umili e vedere quali sarebbero i vantaggi. Primo: non ci sarebbero lotte campanilistiche, perché Lei se l’immagina il giorno in cui qualcuno stabilisse che in Europa la lingua comune è l’inglese che cosa succederebbe con la Francia? La Francia non ci starebbe di sicuro: l’accordo monetario, l’accordo commerciale, tutto è più facile di questo. La Francia non cederà mai su questo punto, e intelligentemente, perché l’identità di un popolo è la sua identità linguistica, su questo non c’è dubbio; ma anche i tedeschi non credo che accetterebbero. Invece una lingua per tutti, che potesse diventare oggi o domani la lingua europea, che non andasse a interferire con le lingue nate e cresciute in casa, e con cui ognuno naturalmente si identifica, di cui è padrone, perché è concresciuto con quelle, potrebbe essere la soluzione. Il successo tecnico dipende però dalla serietà con cui l’esperimento viene fatto, perché i corsi non andrebbero affidati a persone qualunque, ma ad una commissione di linguisti molto seria che studi il corso base e le differenziazioni lingua per lingua, perché si tratta di fare uno studio contrastivo, insegnare l’Esperanto a un italiano o a un finlandese è diverso.

D. Ecco, e infatti io volevo chiederle perché certi ambienti culturali hanno sempre liquidato con sufficienza la proposta esperantista, ma mi pare che mi abbia risposto molto chiaramente...

R. La sufficienza è un elemento del carattere; non si regge su basi scientifiche.

D. Luigi Heilmann, parlando con Valerio Dalla nel 1982, raccontò che lui in passato era stato esperantista ma che poi aveva lasciato perdere dal momento che l’Esperanto, in quanto lingua fondata sulle lingue naturali, disse proprio così, è destinato, qualora adottato ufficialmente, a frantumarsi in tanti dialetti e quindi a perdere la sua funzione.

R. Può anche darsi. Se una lingua vive, evidentemente si evolve, però oggi il pericolo è meno grave per la rapidità dei rapporti, la comunicazione in simultanea in cui siamo immersi, basterebbe che ci fosse una televisione veramente europea, e ci stiamo arrivando, se ci fosse una trasmissione in Esperanto per tutta l’Europa, Lei se l’immagina, questa avrebbe un tale valore unificante per cui terrebbe insieme la lingua. Ciò che impedisce a una lingua di vivere una diaspora dialettale è l’esistenza di un nucleo solido, ad esempio politico, come Roma nell’Impero o Parigi nella Monarchia, oppure economico. Qui ci sarebbe il nucleo televisivo, importantissimo: con un’emittente che trasmettesse in tutti i Paesi usando una certa lingua, non sarebbe facile che questa lingua si frantumasse. Ci sarebbero naturalmente delle piccole varianti, ma si tratterebbe delle piccole varianti che si sentono fra la Toscana e l’Umbria o certe zone delle Marche.

D. Una situazione ideale.

R. Ma sì, perché forse qualche venatura locale lo caratterizzerebbe, lo personalizzerebbe.

D. Molti affermano che l’Esperanto non può funzionare in quanto lingua artificiale. D’altra parte abbiamo André Martinet che sostiene che “i linguisti sanno bene che le lingue sono ampiamente artificiali, le lingue si fabbricano, io stesso ho fabbricato delle parole in francese”, poi fa l’esempio dell’ebraico, dell’irlandese e dell’estone, e dice “però il pubblico non è per niente informato su questi fatti, ed è per questo che prova una sorta di contrarietà verso ciò che non è naturale”.

R. Sì, lo dicevo prima, parlare di “lingua artificiale” è già una specie di condanna. Sono più d’accordo con Martinet che non con coloro che hanno questo atteggiamento di diffidenza. Bisognerebbe provare, su basi europee e scientifiche. L’Esperanto è sempre stato la “trovata” di qualche gruppo di intellettuali, invece bisognerebbe vedere cosa succederebbe con la diffusione di massa, se i bambini di tutt’Europa facessero ogni settimana due ore di Esperanto via etere.

D. Forse c’è anche un blocco politico: sempre André Martinet ha detto che “l’Esperanto mette in pericolo la sacralità e l’onnipotenza dello Stato”. Lei ritiene che questo sia un ostacolo reale?

R. Mah, io mi chiedo se i francesi preferirebbero come lingua di scambio l’Esperanto o l’inglese. Credo senz’altro l’Esperanto.

D. Forse preferirebbero il francese...

R. Certo, fanno in questo senso una politica molto intelligente, molto produttiva; però non potendo avere questa soluzione, sceglierebbero quella che meno lede la loro “sacralità”. Si immagini se io, come storica della lingua, non amo la storia e la tradizione. Però temo un poco l’idea della sacralità.

D. Lei conosce la struttura grammaticale dell’Esperanto? Se sì, cosa ne pensa?

R. Non posso definirmi un’esperta di Esperanto, so alcune cose che sappiamo tutti, ma mi sento una generica.

D. Un’altra domanda: Eco ha affermato “Noi viviamo in un momento storico nel quale è più facile accettare le lingue, persino le lingue artificiali”, e inoltre “l’artificialità dell’Esperanto non è uno svantaggio”. Lei è d’accordo che viviamo in un momento storico nel quale è più facile accettare le lingue?

R. Sì. Ci sono certi aspetti della nostra vita legati all’uso del computer, ci sono contatti molto rapidi, un continuo girare dei giovani; quando mai la necessità di comunicare si è posta con tanta urgenza? Nel Quattrocento si muovevano i mercanti, nel Settecento i letterati, oggi si muovono tutti. Ecco che allora l’Esperanto, se diffuso come ho detto, cesserebbe di essere l’ipotesi di cerchie ristrette. Ci vorrebbe a Bruxelles un centro per lo studio dell’Esperanto. Bisogna “farla” l’opinione pubblica; voi siete abilissimi in questo, continuate. Fino a prova contraria, io credo in questa possibilità. Se i vari capi di Stato una volta, riunendosi, discutessero di questo aspetto e cercassero di risolverlo con la consulenza dei tecnici della comunicazione, io penso che le cose potrebbero essere se non altro verificate.

D. La ringrazio per questo colloquio.