Quando molti anni fa si iniziò ad introdurre sistematicamente la lingua francese quale lingua governativa nel Quebec (Canada), gli anglofoni sollevarono molte proteste. Perché si vuol cambiare la condotta degli uomini per legge, ci si domandò. Non si comprende che cose così intime quali l’utilizzazione di lingue non si possono modificare per legge? E se si protegge la lingua parlata dai francofoni, perché non si protegge la lingua parlata dagli anglofoni?

E’ già trascorsa una trentina d’anni dall’inizio delle contestazioni linguistiche nel Quebec. Una cosa si è subito imparata da quelle discussioni: le leggi sono necessarie per proteggere i deboli, non per confermare il potere dei forti; la politica linguistica è necessaria non per sostenere i privilegi già esistenti, ma per concedere i diritti a coloro, i quali in precedenza non ne avevano.

Nel Quebec attualmente la situazione linguistica è assolutamente diversa da quella che era cinquant’anni fa. La maggioranza francofona non solamente gode di maggiori diritti nel campo dell’educazione nella propria lingua o nel rivolgersi al governo ai vari livelli o nell’adire le vie giudiziarie, ma può anche usufruire della cultura di lingua francese in un ambiente essenzialmente francofono. Con la lingua francese molti francofoni prosperarono economicamente, e acquisirono la nozione che la cultura francese non era più vista, nel contesto canadese, come una cultura provinciale utile per sagre e feste del santo patrono, bensì era diventata una finestra sul mondo, una porta per entrare con fierezza nel proprio patrimonio culturale tradizionale.

Concetti simili sull’inutilità di nuove leggi sono stati espressi sulle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti negli anni 50 – 60. Come si possono cambiare i sentimenti degli uomini cambiando le leggi? Come si può creare tolleranza con un’apparente intolleranza legislativa? Ma un uomo, che tornasse negli Stati Uniti dopo cinquant’anni di assenza, troverebbe un mondo diverso: un maggior numero di negri con diplomi universitari, impiegati in posti di responsabilità nelle grandi imprese, in posizioni di governo, tra gli avvocati, i medici, i giudici.

Cose simili sono state dette delle leggi contro la discriminazione delle donne in molti Paesi; ma queste leggi hanno avuto come risultato un notevole progresso nella posizione sociale ed economica delle donne.

Oggi in Europa, così come nel Quebec trent’anni fa, si rischia di seguire una strada simile quando si tratta dell’uso della lingua. Nonostante che all’interno di quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea esistano leggi più o meno efficaci per proteggere i diritti linguistici delle minoranze, la formazione di una razionale politica linguistica tra gli Stati-membri occupa nella scala delle priorità una posizione ridicolmente bassa. La pratica attuale, secondo cui teoricamente tutte le lingue degli Stati-membri si trovano su un piano di uguaglianza (benché in pratica alcune lingue siano più eguali di altre), non solo non funziona adeguatamente, ma è spesso ignorata nella pratica. Invano le piccole nazioni protestano, poiché ognuno ovviamente sa, che in caso di vera urgenza esse possono cavarsi d’impaccio con l’inglese – ed infine in quell’ambiente le lingue sono viste come meri strumenti di comunicazione, alcuni dei quali funzionano meglio di altri. Invano le piccole nazioni chiedono maggiore eguaglianza linguistica quando gli interessi degli Stati potenti sbarrano ad essi la strada in modo molto efficace.

Se si trattasse soltanto di questo, che le grandi lingue riescono, nonostante le regole ed i principi dell’eguaglianza linguistica, nelle istituzioni dell’Unione Europea, a predominare nei convegni e nei corridoi, si potrebbe eventualmente protestare, ma in ogni caso si perderebbe poco. Ma, a dire il vero, la mancanza di prestigio e di potere delle lingue minoritarie si estende a molti altri ambienti. Difficilmente un autore in lingua danese od olandese riesce a concorrere con quelli delle lingue maggioritarie; difficilmente l’industria editoriale, cinematografica, il teatro e quasi tutte le altre forme di espressione dell’arte umana, riescono a sopravvivere sotto il diluvio continuo dei prodotti culturali dei maggiori Paesi. Guardate quello che la gente legge in un treno olandese od in un aeroporto danese: sempre più sovente si leggono romanzi in lingua inglese, sempre più i prezzi dei prodotti culturali danesi crescono in modo tale da non poter essere concorrenziali. E se in Francia od in Germania si leggono soprattutto opere in lingua francese o tedesca, purtroppo spesso le opere che si leggono sono traduzioni dall’inglese: persino le cosiddette lingue maggioritarie iniziano a rinunciare alla propria indipendenza davanti agli effetti dell’inglese.

Sì, cari congressisti, il gioco cambia profondamente – e soprattutto per il quasi criminale abbandono del problema linguistico da parte degli Stati un po’ più forti. Una decina d’anni fa era possibile dire che il danese (ad esempio) non lo si poteva pienamente utilizzare nelle contrattazioni informali in seno all’Unione Europea, poiché, alla fine, si trattava di una lingua appena usata al di fuori della Danimarca; ugualmente si può dire per il greco o l’olandese. Era necessario che in ogni caso i parlanti di quelle lingue acquisissero la conoscenza delle lingue maggioritarie. Cinquant’anni fa, i danesi e gli olandesi studiavano spesso il francese o il tedesco per cavarsela in ambienti internazionali – anche se l’inglese era tuttavia più popolare. Ma oggi non si tratta più di lingue minoritarie come il danese o l’olandese, obbligate a cedere davanti a un gruppo di lingue potenti – il francese, il tedesco, l’inglese, eventualmente lo spagnolo, l’italiano: ora si tratta del fatto che il francese e il tedesco e le altre lingue perdono la propria influenza nei confronti di una sola lingua: l’inglese. Il francese di oggi è il danese di ieri; il tedesco di oggi è l’olandese di ieri, ed essi si avviano ad un destino simile.

Nonostante questa continua erosione della posizione del francese e del tedesco e delle altre grandi lingue (ad eccezione dell’inglese) in Europa, i governi non comprendono ancora appieno la situazione. La lingua inglese ed i suoi prodotti culturali – cinema, televisione, musica – inondano rapidamente i loro territori culturali, così che intere aree dove prima regnavano il francese o il tedesco, sono ora colonizzate dall’inglese – la scienza, ad esempio; in generale l’educazione di livello superiore; la programmazione televisiva; il software dei computer: si tratta di una elencazione quasi infinita. Il punto non è che una lingua domina le altre (anche se questo in effetti avviene), ma che una serie di prodotti si accaparra l’economia culturale precedentemente pluralista, quindi che quella lingua spinge sempre più i prodotti culturali delle altre in una posizione marginale. La lingua è sinonimo di potenza; la potenza si manifesta nell’impossessarsi dell’indipendenza, della libertà estetica, e perfino dell’economia.

Mentre a Bruxelles si ignora questo problema, esso a poco a poco va verso una soluzione svantaggiosa. Così come gli anglofoni di Montreal hanno opposto resistenza all’applicazione di leggi sui problemi linguistici, o i bianchi dell’Alabama hanno opposto resistenza all’applicazione di leggi su questioni razziali, così i parlanti della lingua inglese sono contenti di lasciare che l’attuale regime linguistico a Bruxelles ed a Strasburgo percorra sempre più la strada della discriminazione, sulla quale i privilegi delle lingue minoritarie sono solo teorici, in un ambiente che ignora i principi linguistici fondamentali e favorisce sempre più l’inglese. Sì, in teoria il finlandese è sullo stesso livello del francese, ma in pratica non si usa il finlandese nelle riunioni in cui si vuole effettivamente convincere gli altri partecipanti, tra l’altro poiché i limiti di bilancio impediscono del tutto l’utilizzazione di interpreti dal finlandese.

Ma proprio per la mancanza d’influenza delle lingue minoritarie, i finlandesi, i greci e perfino gli italiani diventano sempre più abili nell’inglese. I tedeschi ed i francesi devono ora resistere non solo all’influenza degli anglofoni (di nascita), ma anche dei parlanti le lingue minoritarie, che hanno già rinunciato alle proprie lingue, anche perché tra l’altro i francesi ed i tedeschi non erano pronti a difenderli. Così dunque le lingue di secondo piano sono ora minacciate da una parte dall’inglese e dall’altra dai buoni parlanti dell’inglese come seconda lingua.

La soluzione a questo problema non sta più nel vano sforzo di insistere sui diritti linguistici dei francofoni e dei germanofoni: questa battaglia è già stata persa, e queste lingue diventano sempre più regionali, sempre più neglette da coloro che insistentemente usano l’inglese come unica lingua. L’unica possibilità in grado di conservare l’Europa delle diversità culturali è una collaborazione sistematica di tutti i partiti attorno a soluzioni che contemporaneamente conservino la pluralità linguistica e la introducano dove essa è necessaria. Questa soluzione dovrebbe implicitamente significare che gli anglofoni studino altre lingue. L’esperanto, lingua neutrale, sperimentata da oltre cento anni, pienamente espressiva e flessibile, sta davanti al naso dei solipsisti che combattono tra di loro, ed essi la ignorano. Forse decideranno, che anche questa non è la soluzione per il loro problema – ma prendano questa decisione preferibilmente sulla base di un serio studio delle sue possibilità. Se i francesi ed i tedeschi comprendessero, che la strada migliore per conservare l’autonomia e l’influenza delle proprie lingue sta nella limitazione del ruolo e del diffondersi dell’inglese, sostenendo una soluzione neutrale, forse inizieremmo finalmente a trovare una strada razionale per questa vergognosa battaglia unilaterale.

Ma questa situazione positiva non si creerà se noi, i parlanti di esperanto, resteremo tranquillamente seduti, esattamente come i diversi Stati restano tranquillamente seduti, mentre l’inglese si appropria del ruolo di ‘soluzione’ ineguale, egemone antiglobalista. Così come i cittadini del Quebec decenni fa iniziarono ad usare le leggi, l’Europa dovrebbe cominciare a costruire un regime linguistico profondamente basato su una politica linguistica logica, giusta e decisa. E gli esperantisti devono aiutare a mobilitare il pubblico su questa scelta politica.

Questa linea politica inizierà il suo cammino quando gli uomini inizieranno a credere, che i diritti linguistici sono tanto importanti quanto ad esempio i diritti delle donne, o i diritti di cittadini di altre razze. In alcuni Paesi europei, le minoranze linguistiche sono riuscite in modo notevole a conservare la propria vitalità e persino a ribaltare secoli di abbandono. I Paesi europei devono capire che, di fronte ai britannici ed agli irlandesi, essi sono Paesi le cui lingue sono minoritarie, i cui sforzi di sopravvivenza non sono molto dissimili da quelli delle lingue lappone o celtiche, del frisone o del friulano, nelle rispettive nazioni. Attentati contro la loro indipendenza linguistica sono attentati essenzialmente discriminatori.

E gli esperantisti, sono pronti con le loro argomentazioni? Grazie al sostegno finanziario dell’UEA (Associazione Esperantista Universale) ed alla importante collaborazione finanziaria delle associazioni esperantiste raggruppate nell’Unione Esperantista Europea, si è molto intensificato il lavoro informativo e di pubbliche relazioni a Bruxelles, tramite il Centro di comunicazione da poco aperto, che ha lo scopo di intervenire sull’esperanto e sui problemi linguistici presso le istanze dell’Unione Europea. Questa nuova evoluzione è secondo me il passo più importante nei circa quarant’anni di attività europea. Le associazioni nazionali rappresentate in queste congresso e gli attivisti a Bruxelles ed in altri luoghi, tra l’altro anche qui in Italia, meritano il nostro elogio più sincero. L’intervento aggressivo del Centro di comunicazione nelle politiche linguistiche dell’Unione Europea, tra l’altro per contrastare la discriminazione linguistica, è una strada buona e giusta: se non ci si rende conto che la discriminazione linguistica è inaccettabile come sono inaccettabili altre forme di discriminazione, non si presterà nemmeno la giusta attenzione al problema linguistico (come abbiamo notato questo si riscontra nell’attuale passività delle istituzioni a Bruxelles). E se l’esistenza della cosiddetta soluzione esperanto nemmeno apparirà agli orizzonti mentali delle persone influenti a Bruxelles, persino la decisione di affrontare i problema linguistico lascerebbe l’esperanto a margine.

L’Esperanto è pronto per giocare un ruolo in Europa? Abbiamo veramente il coraggio di proporlo come soluzione? Certamente avremmo maggior coraggio se un maggior numero di non esperantisti (esterni) dichiarassero il loro sostegno al nostro lavoro; e noi avremmo maggior coraggio se la lingua stessa fosse completamente pronta con tutta la terminologia settoriale e i suoi interpreti, traduttori, ed insegnanti di lingue. Un altro compito del Centro di Bruxelles è proprio quello di sollecitare il sostegno dei non esperantisti, tra l’altro di politici, universitari, educatori, linguisti. Il Centro di Bruxelles potrebbe anche aiutarci a prendere coscienza della necessità di sviluppare la nostra lingua in modo più incisivo e diligente, così che sia completamente pronta per il ruolo, che noi prevediamo per essa.

Io spero, che le associazioni esperantiste europee continueranno a sostenere questa iniziativa veramente straordinaria. Il rapporto del Centro del giugno scorso contiene un elenco completo di articoli pubblicati su giornali in diverse parti del mondo ed una lunga serie di repliche ad altri simili articoli.Il progresso del Centro ha già convinto un grande mecenate dell’UEA a mettere a disposizione del denaro per un’iniziativa pubblicitaria a Bruxelles. Io non dubito, che registreremo ulteriori successi, se collaboreremo efficacemente per far funzionare il Centro.

Ma questo dipenderà tra l’altro dalla collaborazione attiva degli uomini vicini al Centro – a Bruxelles ed in Belgio in generale, ma anche nelle diverse associazioni nazionali, e nell’UEA. Spesso le nostre iniziative si esauriscono o si dissolvono non per mancanza di soldi o per mancanza di idee, ma per mancanza di collaborazione e di volontà di arrivare ad un accordo. Io spero, che questa nuova iniziativa europea non perda il suo impeto per la nostra incapacità ad organizzarci per utilizzare efficacemente le buone occasioni per presentare i nostri argomenti, che si aprono davanti a noi.

Proprio questa esitazione, questa mancanza di collaborazione, questa preferenza a non giungere ad un deciso accordo finale, affligge i diversi membri dell’Unione Europea. Se veramente le diverse nazioni vogliono conservare l’Europa delle culture, ascoltino il messaggio di molti, tra l’altro di noi esperantisti, che già da oltre un secolo mettiamo in pratica una forma di comunicazione che rende gli uomini pari conservando le diversità culturali locali e regionali. Siamo forse una piccola banda di utopisti o profeti di una nuova Europa? Questa decisione, cari congressisti, deve essere nostra. Non dobbiamo esitare davanti a questa nuova ed unica scommessa.