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La decadenza delle culture e la scomparsa delle lingue che le veicolano sono sempre dovute a forze politico-militari. Proprio perché il latino era la lingua della legioni romane, ha distrutto tutte quelle che incontrava al suo passaggio, ossia quelle dell'intera Europa. Dopo la caduta dell'Impero Romano, allorquando il latino cessò di essere la lingua dei soldati, e divenne la lingua dei chierici e dei dotti dell'epoca, poté aver luogo la fioritura delle lingue delle differenti comunità dell'antico impero, dalla penisola Iberica alla Dacia. Ma delle lingue esistite prima dell'occupazione, non restavano ormai altre tracce che non alcune iscrizioni etrusche e la lingua greca. La Dacia era diventata la Romania, talché soltanto lingue latinizzate poterono svilupparsi e fiorire. Le lingue neo-latine attestarono la loro maturità a partire dal X secolo. le letterature germaniche e slave si sarebbero presentate solo nel XII e XIII secolo. L'evoluzione linguistica, ossia culturale, sociale e politica delle comunità non romanizzate aveva subito un chiaro arresto.

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Durante tutta l'epoca moderna, gli idiomi delle comunità minoritarie ebbero a subire un altro tipo d'oppressione, quello esercitato dallo stato-nazione. In nome dell'unificazione e della centralizzazione, la Spagna ha perseguitato il basco e il catalano: la Francia l'occitano, il basco e il brètone. Prima della guerra del 14-18, e persino più tardi, nelle scuole della Bretagna era proibito parlare il bretone persino durante la ricreazione. Ove le comunità sono bilingui, come per esempio in Alsazia, la tensione è costante. Tra il XV e il XIX secolo la lingua dalmata aveva una letteratura religiosa che fioriva lungo tutta la costa orientale dell'Adriatico. La sua poesia è segnata dal petrarchismo, il suo teatro dalla commedia dell'arte. Ma nel corso del XIX secolo il Dalmata si estingue. L'Impero d'Austria, che voleva germanizzare la regione, il Regno d'Italia, che voleva italianizzarla, e quello di Jugoslavia, che voleva slovenizzarla, sono riusciti a far sparire questa lingua.

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L'occidente, o come un tempo dicevano i comunisti, "il blocco capitalista", ha sempre più bisogno di coesione. In parole chiare, questo significa che sul continente europeo l'uso dell'inglese non deve più limitarsi alla borghesia degli affari. Bisogna che penetri tutti i ceti, come in India.
Nel rapporto annuale del British Council del 1968-69, a pagina 12 si legge: ... there is a hidden sale element in every English teacher, book, magazin, film strip and television program sent overseas....If then, we are gaining political, comnmercial and cultural advantage from the world-wide use of English, what are we doing to mantain this position?
Ecco la ragione che spinge gli americani e gli inglesi a investire così tanto nella loro lingua.
Sotto il peso dello spagnolo e del portoghese, tutte le lingue autoctone del continente latino-americano sono scomparse. Sotto il peso dell'inglese, persino le quindici lingue ufficiali (senza contare un centinaio d'altre lingue non ufficiali...) dell'India stanno scomparendo come mezzo di elevazione culturale. Il loro statuto attuale è regionale, magari esotico. In breve, appannaggio degli analfabeti.
Ecco una prefigurazione linguistica dell'Europa in un avvenire più prossimo di quello che non si pensi, data l'esistenza dei mezzi audio-visivi via satellite.

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Il tentativo d'anglicizzare il mondo per fini commerciali risale a molto lontano nel tempo. Ma è nel 1930 che questa operazione appare ufficialmente alla luce del sole, opportunamente teorizzata. In quell'anno, il linguista inglese C.K.Ogden pubblica il suo libro intitolato Basic English. Già nelle prime pagine veniamo a sapere che BASIC è l'acronimo di British, American, Scientific, International and Commercial.
Nel 1943, Churchill, che sperava in una vittoria per quanto possibile totale, sollecitava Roosvelt a uno sforzo comune per diffondere il Basic English nel mondo intero. Il Basic non ha che diciotto verbi, seicento sostantivi e alcune decine d'aggettivi: in tutto, ottocentocinquanta parole. E' quanto basta ad un non anglofono che vuole commerciare con un angloamericano. Per quest'ultimo è l'ideale: dalla parte del primitivo si ha un partner commerciale la cui lingua dispone soltanto, diciamo dell'aggettivo quick. Da parte del bianco, troviamo il partner la cui lingua dispone anche di speedy, fast, swift, rapid, prompt, brisk, Sudan e hasty. Nella trattativa commerciale, la forza sta dunque dalla parte del bianco. Presso gli indigeni della Polinesia, il Basic aveva dato eccellenti risultati. E perché non in Europa?
Quando osservo le commesse delle vie basse di Ginevra dispiegare il loro Basic per vendere un orologio a cucù ai turisti, o peggio, quando sento il capo del cerimoniale dello Stato di Ginevra augurare il benvenuto in inglese a personalità straniere, mi vengono sempre in mente gli hawaiiani…

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Di questi tempi i francesi hanno commemorato il bicentenario della Rivoluzione. Senza rendersene conto, hanno festeggiato una falsa libertà, una falsa uguaglianza, ed una falsa fraternità, almeno per quanto riguarda la politica linguistica della Francia e delle Comunità Europea.

Falsa libertà:
I francesi che aspirano ad una carriera scientifica devono sapere obbligatoriamente l'inglese. Senza l'inglese, niente carriera scientifica. L'esempio ci vien dato dall'Istituto Pasteur, che, recentemente, ha deciso di pubblicare esclusivamente in inglese i suoi annali più che centenari. Un editore francese, dicono all'università di Ginevra, non pubblica un libro su un soggetto scientifico se non è farcito di elementi bibliografici angloamericani.

Falsa uguaglianza:
Gli scienziati francesi devono investire nello studio dell'inglese un tempo considerevole, mentre loro omologhi anglo-americani, quel tempo lo consacrano direttamente alla ricerca nel loro campo. Il tempo perso dai primi costituisce il vantaggio dei secondi, in un'epoca in cui la ricerca deve avanza-re rapidamente se vuole rimanere competitiva.
L'85% degli scolari francesi studiano l'inglese come seconda lingua. In teoria, hanno la scelta tra dodici lingue. Ma, in pratica, l'infrastruttura dell'educazione nazionale non è soddisfacente se non per l'inglese.
E' questa la situazione della Francia e dell'intero continente europeo.

Falsa fraternità:
Tacito, storico Romano del l° secolo, notava già nei suoi Annali che nella bocca degli ostrogoti la lingua latina era marcata dal segno indelebile della schiavitù: una specie di basic latino che caratterizzava definitivamente la lingua di questi popoli persino dopo la loro liberazione. Questi antichi schiavi potevano parlare fin che volevano la lingua del loro padrone: sarebbero stati comunque vittime di discriminazione, non foss'altro che per la loro pronuncia (si pensi all'inglese parlato a Bombay o a Calcutta). E persino la fraternità dell'antico padrone somigliava a quella del colonizzatore verso il colonizzato.
Sulla soglia dell'Europa del 1993 i locutori galloricani sono sempre più numerosi in Francia, così come in tutto il continente. Grazie al loro accrescersi, nel subconscio dei futuri europei si formano un modello di civiltà, una gerarchia di valori socioculturali, di strutture del pensiero e di riflessi emotivi, che, globalmente, costituiscono l'omaggio del vassallo verso il suo signore. Un'alienazione, una ristrutturazione delle mentalità europee, che procede tanto in fretta quanto il progressodella catena MacDonald. L'Europa dei dodici, nel 1993, sarà popolata da colonizzati felici di esserlo, da domestici anche se parlano la lingua del padrone. Il provincialismo è il fattore determinante di questo fenomeno.

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Tutte le lingue nazionali sono glottofaghe. Le grandi mangiano le piccole. Il retoromancio sta per morire, così come il gaelico, benché quest'ultimo sia la lingua nazionale dell'Irlanda. Nessuno sembra avvedersene, a parte un'infima minoranza che chiamerei élite, se lo permettete.
A partire dal V secolo, Sidone Apollinare, vescovo di Lione e storico, notava che i nobili dell'Alvernia educavano i loro figli in latino, e non in gallico. Allarme inutile. Tutto quello che era gallico sarebbe scomparso, e quando la Francia nacque, fu in una Gallia ormai latinizzata.
All'inizio del nostro secolo il poeta nicaraguegno Ruben Darío, nei suoi Cantos de vida y esperanza metteva in guardia l'intera America latina verso il pericolo che rappresentava l'avanzare della lingua inglese nelle oligarchie e nelle classi superiori latino-americane. L'alienazione culturale, a suo parere, non poteva determinare che la dipendenza politica ed economica. Nel nostro 1989, chi potrebbe asserire che avesse torto?
Nel 1973 il danese Noorgard, presidente del Consiglio dell'Europa, dichiarava: "Una lingua europea è cento volte più importante di una moneta europea". Il presidente Pompidou si fece forte dell'occasione per proporre il francese come lingua del Mercato Comune, e per spiegare ufficialmente, per una volta senza circonlocuzioni, che l'adozione dell'inglese da parte del Mercato Comune l'avrebbe aggiogato agli interessi degli Stati Uniti.
Una delle prime decisioni dell'Unione Sovietica dopo l'annessione delle repubbliche baltiche fu d'imporre il russo in tutti gli atti ufficiali di queste repubbliche. Nel 1944 i russofoni erano fortemente minoritari in Estonia, in Lettonia e in Lituania. Oggigiorno sono maggioritari, e colui che non parla il russo può trovare un lavoro al massimo come netturbino.

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Solo una lingua a-nazionale può non essere glottofaga, e quindi rispettare le lingue nazionali. L'esperanto è una lingua eminentemente a-nazionale. Dietro di lei non c'è nessun tipo di potenza economico-militare, né alcuna forma di stato-nazione. Straniera per tutti, questa lingua pone tutti su di un piano di eguaglianza psicolinguistica.
Hawaiano o svizzero, il locutore dell'esperanto non si sente in istato d'inferiorità quando il suo interlocutore angloamericano lo interpella in esperanto.
Solo una lingua artificiale può essere non nazionale e non glottofaga. L'esperanto è una lingua artificiale, come sono artificiali tutte le grandi conquiste umane in tutti i campi. Artificiali sono le statue di Michelangelo, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, i vaccini contro le malattie, e chi più ne ha più ne metta.
Coloro che si oppongono all'esperanto perché è artificiale e che insistono sulla naturalità delle lingue dell'ONU e del Mercato Comune, dovrebbero essere privati di vaccino in caso di peste. Si dovrebbe lasciare che questa gente si vaccini da sola, per via naturale, come di solito capitava nel Medioevo... a coloro che sopravvivevano.
Nelle lingue che parliamo attualmente traspare ancora il fondo primitivo che aveva la nostra natura quando le abbiamo inventate, malgrado un processo di raffinazione più che millenario. Incongruenze, gratuità, anomalie, eccezioni, in breve una quantità di peccati contro l'armonia e la razionalità costellano ancora l'universo delle nostre lingue naturali.
Perché fleurir e floraison, floraison e fleurissage, cieco e cecità, pieve e plebano? Perché arrossire e non aggrigire? Quanti inglesi sanno che malaria treatment vuoi dire trattamento contro la malaria, e che malaria terapy vuoi dire cura di una persona tramite l'inoculazione della malaria?
Un interprete, peraltro inglese, dell'OMS, un giorno è caduto in una trappola della sua lingua: The Japanese Encephalitis Vaccine per lui sarebbe stato un vaccino contro l'encefalite, scoperto in Giappone. E' sbagliato, gli spiegarono dei medici angloamericani: è un vaccino contro l'encefalite detta giapponese.
Sul congiuntivo italiano, sono pronto a sostener la tesi che una tale morfologia ha strette relazione col sadomasochismo. Ecco che cos'è l'aspetto naturale delle lingue nazionali.

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L'esperanto è artificiale nel senso che è privo d'incongruità, d'anomalie e d'eccezioni. Lo è anche sul piano fonetico, cosicché l'apparato acustico di chicchessia lo capta senza difficoltà. Poiché la sua struttura è fondata sull'analogia, può essere imparato anche da coloro i quali non hanno una buona memoria (c'è chi l'ha appreso a sessant'anni).
Ma l'esperanto è artificiale anche nel senso che è universale. Universale perché nel suo corpus sono presenti punti di richiamo o d'affinità per i locutori di tutto il mondo, a qualsiasi famiglia linguistica appartenga la loro lingua. (E' universale anche nel senso degli universali della lingua, descritti da Joseph Greenberg, ma è una questione che dovrò trattare a parte).

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