L'ERA lancia la petizione “No Question time”, a nome di tutti gli italiani, al Presidente del Senato Renato Schifani e a quello della Camera Gianfranco Fini.

La questione (si perdoni il gioco di parole) riguarda la dicitura inglese “Question time”, con la quale viene indicata la seguente procedura: l'Assemblea parlamentare, a norma dell'art. 135-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e dell'art. 151-bis del Regolamento del Senato, dedica periodicamente un'apposita fase dei propri lavori all'illustrazione di una serie di interrogazioni parlamentari già presentate, di solito riguardanti argomenti di particolare urgenza, e a cui viene data risposta in aula dall'organo esecutivo.

Se consideriamo che anche il Consiglio Nazionale svizzero utilizza la dicitura italiana “ora delle domande”, non si capisce perché la Repubblica italiana debba usare un termine anglofono, ove l'analogo nazionale sia disponibile.

La petizione, oltre ad indicare come necessaria la sostituzione del termine, chiarisce anche le ragioni contestuali che ispirano tale necessità. “La prima ragione è quella di un riequilibrio con il riconoscimento delle minoranze linguistiche di cui all'art. 6 della Costituzione, anche se a livello di legislazione ordinaria è intervenuta la Legge 15 dicembre 1999, n. 482. La seconda ragione è suggerita dal fenomeno delle immigrazioni che da tempo interessa anche l'Italia. L'ufficialità dell'italiano, connessa all'aspetto della sua promozione e tutela in quanto fondamento culturale nazionale, consentirebbe di attuare politiche di integrazione, aiutando lo straniero a sentirsi pienamente parte della comunità nazionale. La terza ragione è data dalla necessità di difendere con maggiore convinzione i diritti della lingua italiana nell'ambito dell'Unione Europea, sulla base di quanto stabilito dai Trattati e dai Regolamenti comunitari, visto l'andamento eufemisticamente poco corretto delle prassi delle istituzioni comunitarie, improntate in maniera esclusiva al trilinguismo anglo-franco-tedesco, come dimostra la recente questione del brevetto europeo che lascia fuori Italia e Spagna in virtù di una cooperazione rafforzata miope e asservita alle lingue cosiddette "forti".