Una legge impone l'italianizzazione dei simboli provenienti da alfabeti non latini nei nomi e cognomi dei cittadini.

Appiattimento culturale e italianizzazione forzata, erano storie già sentite, pensiamo ai toponimi e ai nomi dei paesi sconvolti: Roure (la quercia) venne roreto, a monte di Perosa-Argentina il Ri dl'Agreu o Riou dl'Agrevou, ossia il "Rio dell'agrifoglio" venne Rio Agrevo, Ël Saret (ovvero l'altura) in fraz. di Carignano diventa Ceretto, Erburent, sotto il fascismo Roburento, oggi diventa Roburent e ancora Leynì e Mathi in provincia di torino italianizzati in Leinì Matì con il regio decreto del 12 aprile 1939, o Aich diventa Acqui Terme, Bè (Canavese) diventa Baio, Belvej (Astigiano) che significa "Bel Vedere" diventa Belveglio.

Per non parlare dei cognomi: non solo vennero italianizzati quelli dei vivi ma gli scempi maggiori si videro nei cimiteri. La ove si conservava viva la memoria di coloro che si ritrovavano ad essere stranieri per ragioni di imperialismo e di nazionalizzazione, gli vennero cambiate le iscrizioni lapidarie poiché considerate un pericolo per conservare intatta l'unità del paese, la razza italica...

Le messe in sloveno nel Friuli vennero proibite, così come la lingua francese (lingua veicolare e istituzionale non che scolastica) nelle vallate del Piemonte e valle d'Aosta, diedero compensi per chi chiamava i figli con nomi storici romani (così intere generazioni di Augusto, Italo, Cesare, Benito...) nelle scuole e nella pubblica amministrazione vennero inserite persone del tutto straniere al territorio come strumenti colonizzatori, chiusero gli organi di stampa in lingue regionali.

«Basta con gli usi e costumi dell'Italia umbertina, con le ridicole scimmiottature delle usanze straniere. Dobbiamo ritornare alla nostra tradizione, dobbiamo rinnegare, respingere le varie mode di Parigi, o di Londra, o d'America. Se mai, dovranno essere gli altri popoli a guardare a noi, come guardarono a Roma o all'Italia del Rinascimento... Basta con gli abiti da società, coi tubi di stufa, le code, i pantaloni cascanti, i colletti duri, le parole ostrogote.»

(Il costume da Il Popolo d'Italia del 10 luglio 1938)

Potrei riempire la pagina di quanto abbia imperato la mentalità livellante e colonizzatrice delle retoriche nazionaliste che in coro ci ripetono dall'epoca monarchica, poi in quella fascista e ora quella mediatica il ritornello: "siamo in Italia".

Storie lontane e amare quelle del Ventennio, che vengono esorcizzate commemorando in pompa magna dalle personalità statali il giorno della Liberazione, il 25 aprile.

Già, storie lontane!

Nessuno penserebbe che in data 2 febbraio 2009 il ministro Brunetta, in quella legislatura ministro per la pubblica amministrazione e l' innovazione, decretava l'approvazione della tabella ufficiale di traslitterazione dei simboli diacritici presenti nei nomi e cognomi dei cittadini italiani. Il decreto si pone l'obiettivo di definire una grafia standardizzata in presenza di segni diacritici (segni che alterano la pronuncia) nelle lettere.

Quest' atto è particolarmente grave, poiché mina l' identità delle persone con nomi o/e cognomi aventi simboli che provengono da alfabeti non latini e pertanto non di origine italiana.

Decreto più che mai assurdo se pensiamo all' Italia come ad un paese che tenta di aprirsi sempre più all' Europa, quindi con scambi transfrontalieri anche di persone oltre che di merci, per tanto aperto ad accogliere il bagaglio identitario di chi viene "da fuori".

Per non parlare delle odissee che devono affrontare gli immigrati extracomunitari alle prese con la burocrazia, un decreto del genere non fa altro che complicare ulteriormente le cose.

Ma non solo è un passaggio difficile per chi è straniero da poco, lo è anche per chi straniero lo è diventato, un po' per caso un po' per necessità migratorie da tempi remoti: per i cosiddetti grandi processi storici.

Proprio così, mi riferisco alle minoranze linguistiche storiche, che già non poco arrancano a riprendesi e in più ora hanno una legge che le nega alle loro lingue d'essere espresse in sede istituzionale o meglio, ne è concesso l'utilizzo ma i simboli non italiani non sono ammessi.

Un bel pasticcio se pensiamo alle popolazioni germaniche del Piemonte e del Sud Tirolo, ma anche dei francofoni della Vallée, delle valli valdesi e degli Escartons Piemontesi, delle valli occitane e francoprovenzali, dei sardi, dei ladini, dei friulani, degli sloveni...

In pratica non è concesso di utilizzare in sede istituzionale la propria lingua, ma cosa ancor più grave è che chi porta "il fardello" di avere un nome o/e un cognome francofono, occitano, sloveno, walser...(portatori di simboli diacritici) non potrà registrarlo come tale all' anagrafe ma verrà italianizzato perdendo di fatto la propria identità storica.

Proprio in questi mesi una ragazza della val Chisone, territorio di minoranza francofona e occitana che dovrebbe essere tutelato dalla legge, ha segnalato alla comunità montana (baluardo difensore del territorio che verrà dissolto dimostrando come le Alpi per il mondo "romano" siano periferia del mondo) le difficoltà nel vedersi riconoscere dagli uffici anagrafici, e quindi sui documenti. Invece di avere una carta d'identità con il nome Vinçon (che si pronuncia vinson) ne ha una che le da una nuova identità e ora lei per lo stato è la signorina Vincon.

Questa azione di negazione dell'identità e del bagaglio storico-culturale va ad aggravarsi ancora di più quando si nota nelle vie del paese di San Germano Chisone lo stesso fenomeno così la vecchia via Vinçon sull' epigrafe della via è diventato anch' esso via Vincon sulla quale la ragazza per provocazione ha incollato una piccola cediglia sotto la C (la quale speriamo vivamente ci resti).

Il fatto oltre che anticostituzionale è anche antistorico poiché l' intestatario della via di cognome si chiamava Vinçon e non Vincon, altrimenti a Torino sarebbe consentito cambiare chiamare via Giuseppe Caribaldi invece che Garibaldi.

Ora lei si è rivolta ad alcuni avvocati, ma si sa il cammino per far valere i propri diritti spesso è lungo, costoso e soprattutto incerto, ancor più quando si è completamente soli ad agire abbandonati anzi, contrastati dalle istituzioni.

Quanti esempi si possono portare che restano nell'ombra per anni. Come per esempio nelle scuole di valle ove gli insegnanti provenienti da fuori e scarsamente preparati sul territorio in cui insegnano deformano i cognomi degli alunni in cognomi pronunciati "all'italiana", espropriazione non su carta ma nelle coscienze.

Cosi Martin (pronunciato martèn) diventa Màrtin, Merlin (da pronunciare Merlèn) diventa Mèrlin o Merlìn, Guiot (da pronunciare Ghiò) lo si pronuncia all'italiana e via soffrendo.

La comunità montana a riguardo della vicenda Vinçon ha mandato una delibera a tutti i comuni del territorio così che si esprimano a favore di una mozione che possa abrogare questa legge assurda. Noi ci rendiamo conto che nel 2012 onorare la resistenza vuol dire di più che sbandierare tricolori senza considerare i diritti fondamentali dell'uomo, vorremmo che si riprendesse in mano la carta di Chivasso e si desse una rinfrescata alla memoria poiché le direttive erano molto chiare: federalismo, rispetto della cultura alpina, della lingua e del territorio Alpino...

Ma le direzioni da sessant'anni a questa parte non sono proprio le stesse sperate da Chanoux, Peyronel, Malan e gli altri firmatari della carta.

Continuiamo a parlare e a scrivere nelle nostre lingue madri, sono una delle poche armi che abbiamo per emanciparci e non lasciarci inglobare e appiattire dal sistema che ci svuota, rendendoci tutti ugualmente consumatori.