La centralità del tema delle lingue madri nell’attuale realtà sociale italiana che ha visto in pochi anni un forte incremento del multilinguismo (si contano più di 150 lingue immigrate), con il più alto numero in Europa di provenienze diverse delle comunità immigrate, pone la questione del rapporto delle giovani generazioni con la lingua e la cultura d’origine.
Pur riconoscendo l’importanza dell’apprendimento della lingua del Paese ospitante, l’attenzione agli aspetti linguistici si è, fin dall’inizio degli anni 90, principalmente concentrata sull’apprendimento dell’italiano come seconda lingua (L2), trascurando o, comunque, sottovalutando l’importanza e la ricchezza culturale delle lingue degli stessi immigrati.
Come conseguenza, le famiglie migranti delle più varie comunità, prima ancora delle politiche nazionali ed europee nell’ottica del plurilinguismo, mettono bene in evidenza l’esigenza di non recidere i legami con il Paese d’origine, con la sua lingua e la sua cultura.
In questo senso, fermo restando il diritto a mantenere la lingua delle radici, numerose sono le iniziative con finalità interculturali, pseudo interculturali o per niente interculturali, che promuovono l’apprendimento della L1 da parte dei bambini\ragazzi di origine straniera, cosiddetti immigrati di seconda generazione, anche se spesso non sono immigrati per niente, perché nati in Italia.
L’immigrazione, dunque, rappresenta oggi una delle principali fonti del multilinguismo in Italia. Una vera sfida ancora tutta aperta e da declinare per le Istituzioni in generale e per la scuola in particolare.
Ma spesso questione cruciale anche per le famiglie immigrate, non di rado sole di fronte a modelli educativi distanti e a valori divaricanti. L’Istituzione scolastica, spesso ancora in difficoltà con questioni legate alla prima accoglienza degli alunni con cittadinanza non italiana, partendo dall’analisi dei libri di testo in chiave interculturale deve farsi carico della valorizzazione delle diverse culture e lingue presenti nel suo interno, superando l’approccio etnocentrico o folkloristico e orientandosi verso l’ottica dell’interculturalismo e del plurilinguismo che, come ha dichiarato il Consiglio d’Europa nel Quadro comune europeo di riferimento per le lingue, «favorisce i processi di interazione, la reciprocità degli scambi, lo sviluppo di competenze interculturali».
E i bambini\ragazzi possono utilizzare una lingua a scuola e una o due a casa? Possono avere una “lingua ufficiale” e una degli “affetti”, quella più intensa, quella delle ninne nanne, quella delle prime fiabe raccontate? La lingua d’origine è sempre sentita e accettata come tale? La lingua materna, la lingua attraverso cui passa la costruzione identitaria, la lingua che nominando il mondo lo crea, fatta di odori, immagini, movimenti, sensazioni nello spazio, vibrazioni della voce, percorsi è, prima di tutto, patrimonio personale che nel contesto migratorio può dar voce alla storia personale.
Molte sono anche le storie di fuga dalla lingua materna (L1), a favore della lingua del Paese d’accoglienza (L2) per conflitti in famiglia o per la storia avuta nel proprio paese: la lingua materna può risvegliare dolori e discriminazioni. Ma spesso la si sopprime per facilitare il percorso scolastico dei propri figli, preferendo parlare una lingua più modesta e trascurando la competenza nella lingua d’origine capace di esprimere parole ed emozioni che restano inespresse, “mute”, nella nuova lingua.
La perdita della lingua materna, la lingua prima che guida gli esseri umani nella prima infanzia e nel corso della vita, è un dolore interiore tra i più grandi e riapre dentro e attorno a sé la domanda irrisolta sulla propria identità.
In altri casi, quando la L1 continua a essere parlata e ascoltata anche nel Paese di emigrazione, in famiglia e tra conoscenti, è destinata a sbiadire e a regredire, se non è coltivata. Normalmente sono mantenute le abilità relative all’ascolto e alla parola, ma si perdono quelle relative alla lettura e alla scrittura.
Il danno della perdita non è soltanto affettivo e culturale, ma anche linguistico: le competenze acquisite in L1 sono infatti trasferite in L2. «Perdere la L1 non fa mai bene, mantenerla non fa mai male» (Gabriele Pallotti).
Il movimento tra la lingua materna e quella di accoglienza è un movimento che sviluppa l’abilità di “abitare le lingue” e non produce né una somma, immaginando di aggiungere una cultura, una lingua ad un’altra, né una sottrazione, pensando di perdere l’una a favore dell’altra.
Solo mediando tra la “propria cultura” e “quella dell’altro” si può tentare di costruire una sintesi di culture all’interno di uno spazio mentale e fisico in cui tutte le etnie condividano gli stessi spazi, comunicando, discutendo, dialogando.