Nuovi linguaggi e libero mercato

riflessioni di Giulio Marino



Roma, 19 gennaio 2004

Mio nonno investiva i suoi risparmi in buoni postali, come mio padre. Io li investivo in bot, ma il muro di Berlino non era ancora caduto e investire in borsa si diceva ancora “giocare in borsa”. Poi il muro è caduto, e con il muro l’economia del socialismo reale. Il liberismo economico è diventata la scienza del capitalismo e la borsa non più un gioco d’azzardo ma un’istituzione irrinunciabile.

Gli albanesi apprezzarono subito l’ebbrezza del liberismo e, appena liberatisi dalla schiavitù comunista, investirono i loro risparmi in ardite operazioni finanziarie. Qualcosa non funzionò e si ritrovarono ben presto più poveri che pria. La malavita organizzata apprezzò molto l’arrivo sul mercato dei kalasnikov insieme con l’apertura di una nuova via di comunicazione, il Canale d’Otranto, dove far transitare a prezzi da monopolio le genti migranti dell’est e del sud del mondo insieme a droga ed armi molto ricercate sul mercato occidentale.

Si, un monopolio dei trasporti, perché l’occidente democratico non concede visti d’ingresso ai popoli poveri dell’est. Se lo facesse questi potrebbero salire su un comodo traghetto e con poche decine di euro venire in occidente. I paesi liberi e democratici preferiscono aiutare la criminalità organizzata, la mafia nostrana e quella albanese che offre ai diseredati dell’est comodi passaggi da clandestini su gommoni arieggiati, per poche migliaia di euro e, senza alcun supplemento, concede loro il brivido di una attraversata avventurosa senza la certezza di approdare sull’altra sponda.

I vecchi ideali sono stati immediatamente sostituiti dalla nuova ideologia vincente che l’occidente, sapientemente guidato dall’unica superpotenza planetaria, orgogliosamente esporta ovunque, se necessario anche con la forza. E con l’affermazione indiscussa dei principi del neo liberismo economico anche la lingua scritta e parlata si adegua acquisendo nuovi termini e nuove espressioni indispensabili per l’espletamento degli atti liturgici che la nuova ideologia richiede. E come in tutte le liturgie il significato delle parole è del tutto superfluo, quello che conta è l’accettazione del dogma che, in quanto tale, non può e non deve essere discusso. Quindi il nuovo linguaggio importato dagli States ci ha fatto conoscere parole come business plan, corporate governance, rating, stock option, bond e tante altre il cui significato ci risulta quasi sempre sconosciuto e misterioso.

Chi non possiede la nuova lingua difficilmente ci capisce qualcosa in questioni di borsa ed io sospetto che anche tra gli addetti ai lavori debbano essere pochi a capirci qualcosa e quei pochi, veri sacerdoti di quella che è diventata la nuova religione, si guardano bene dal trasmettere agli altri le loro conoscenze, anche perché, se lo facessero, violerebbero il dogma che consente loro di indossare i sacri paramenti e metterebbe in discussione l’intero sistema.

Nel lontano 1982 ero a Praga, città bellissima e piena di fascino. Era un settembre particolarmente mite ed era piacevole girare per le strade. La gente era vestita bene, in modo decoroso, nessun mendicante, nessuna periferia degradata ma bei quartieri moderni. Mezzi pubblici efficienti e rigorosamente elettrici con stazioni di scambio lungo l’anello periferico tra le ferrovie e i bus extraurbani, insomma quello che Roma sogna di fare tra un decennio e che assai difficilmente riuscirà a fare tra un trentennio. Ma la cosa più bella, oltre alla mancanza di traffico, era l’assoluta mancanza di tabelloni pubblicitari e della pubblicità commerciale in genere. L’unica pubblicità, organizzata in apposite bacheche poste nei punti strategici della città, era quella dei cinematografi, dei teatri e dei concerti. I negozi e le botteghe artigiane svolgevano liberamente la loro attività economica; nelle birrerie e nei ristoranti, però, tutto doveva essere venduto con modalità trasparenti che consentissero di verificare la quantità del venduto, sicché i bicchieri erano tutti rigorosamente graduati.

Ma tutto questo aveva un prezzo. Un prezzo che i cechi, e non solo loro, non gradivano ed era un prezzo imposto a tutti i popoli del blocco sovietico: la libertà di espatriare verso l’occidente.

L’Ungheria era un po’ diversa. Molti di quelli che fuggivano in occidente transitavano da Budapest. Per essere un paese comunista aveva delle sue peculiarità. Nel giugno dell’83 mi trovavo, per la prima volta, a Budapest. L’anno prima ero stato a Praga e non potei non notare alcune sostanziali differenze. Intanto Budapest si presentava molto più simile ad una città occidentale, non foss’altro per il traffico automobilistico, poi notai subito la presenza di cartelloni per la pubblicità commerciale e mi colpì, in modo particolare, quello che pubblicizzava un quotidiano inglese. Le vetrine dei negozi e la merce esposta lasciavano trasparire una certa ricchezza ma, accanto a questa ricchezza, mi colpì una vecchina che, nei sottopassaggi della metropolitana, rovistava nei secchi della spazzatura in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti mentre alcuni ragazzi, dall’aspetto non proprio lucido di chi aveva appena assunto degli stupefacenti, chiedevano soldi ai passanti. Insomma fuori traffico e belle vetrine e, nei sottopassaggi, l’altra faccia della medaglia.

Fin quando al capitalismo occidentale si poteva contrapporre il collettivismo sovietico tutte le critiche erano possibili, all’uno come all’altro sistema, e si potevano immaginare sistemi che cercassero, come nelle socialdemocrazie scandinave, di unire i vantaggi del collettivismo a quelli del capitalismo evitando, per quanto possibile, i difetti di entrambi.

Poi, all’improvviso, un papa polacco, un presidente americano ex attore e un sindacalista cattolico, anch’egli polacco, dettero inizio a quella che doveva essere, e fu, la fine del socialismo reale.

La parola d’ordine fu “privatizzazione”. “Statale” divenne sinonimo di antiquato, retrogrado, inefficiente, improduttivo, fuori dalla storia. Le banche furono tutte privatizzate e i banchieri divennero consulenti finanziari. Azioni e obbligazioni dovevano e potevano essere vendute a tutti, anche ai piccoli risparmiatori ai quali mai si era osato prima proporle. Vendere e comprare titoli azionari divenne l’attività principale per tutte le banche. Maggiori erano gli scambi e più alti gli introiti provenienti dalle commissioni.

Una nuova classe sociale emergeva: era la classe dei manager, tutti rigorosamente con master presso le università americane. Per loro nascevano particolari incentivi economici legati, così si dice, ai profitti aziendali. I manager, super motivati economicamente, aumentarono i loro stipendi giustificandoli con i maggiori profitti aziendali. Ma nella maggior parte dei casi più che di maggiori profitti vi fu un aumento di valore delle aziende quotate in borsa.

La borsa saliva perché la nuova aristocrazia, quella dei manager che giustificavano i loro privilegi economici con l’aumento di valore che le loro aziende acquisivano in virtù delle scelte aziendali da loro fatte, aveva capito che il valore delle aziende non era necessariamente quello ricavabile dal profitto, ovvero dalla produzione, ma era quello che il mercato attribuiva alle stesse in ragione delle previsioni di crescita che i bilanci lasciavano trasparire.

Oggi sappiamo che i bilanci di un’azienda possono essere scritti in tanti modi e, in altrettanti, possono essere letti o fatti leggere. L’importante è che la differenza tra le voci di attivo e quelle di passivo sia sempre positiva. Quindi, se non aumentano le entrate, basta far diminuire le uscite, magari tagliando le spese per il personale.

Basta solo annunciare il taglio di personale di un’azienda perché la borsa faccia immediatamente crescere il valore delle azioni di questa.

Ma questo può andar bene nel breve periodo. Nel periodo medio lungo le cose cambiano aspetto.

Il valore delle azioni, gonfiato dalle speculazioni di borsa, allora scende all’improvviso. Le banche che avevano lucrato le commissioni derivanti dalla vendita delle azioni quando queste erano in crescita, adesso continuano a piazzare le stesse azioni di cui gli ultimi incauti acquirenti si sbarazzano rimettendoci: sono gli acquirenti arrivati per ultimi, quelli che rimangono con il cerino acceso in mano.

Ma la borsa funziona solo se un mercato è in crescita, nel caso contrario bisogna ricorrere all’inganno per far credere l’esistenza di una crescita che non c’è.

Insomma è come, anzi senza come, una catena di Sant’Antonio.

Quando finisce, gli ultimi pagano per tutti.

Un altro paragone azzeccato è quello del gioco d’azzardo. Anche se sei un bravo giocatore il rischio esiste sempre. Però puoi barare e approfittare dell’inesperienza dei nuovi giocatori trascinati con l’inganno al tavolo verde.

E l’informazione? Cosa fa l’informazione in un paese democratico? Intanto è libera, libera di essere venduta e comprata. Una libertà elementare dettata dalle libere leggi del libero mercato a cui nessuno può sfuggire, nemmeno la lingua. Si la lingua, quella che serve per veicolare le informazioni e le conoscenze, i pensieri e le riflessioni, le emozioni e le passioni. Ma anche per scrivere le leggi e le sentenze.

Se ti tolgono la lingua ti tolgono il pensiero, per questo dobbiamo tutelarla la nostra lingua. Almeno la lingua non lasciamola nelle mani del libero mercato.

Ma perché la lingua inglese avanza, si impone imperiosa e si sostituisce letteralmente alla nostra lingua?

Chi e cosa ha stabilito che l’inglese debba affiancarsi, fino a sostituirsi del tutto, alla lingua nazionale allorquando si intende comunicare con persone dall’idioma diverso dal nostro ma non necessariamente anglosassoni?

Ma soprattutto, perché nessuno, nessun mass media, si pone o propone il problema? E’ forse una cosa trascurabile dover rinunciare alla propria lingua in favore di un’altra appartenente ad un popolo e ad un paese diverso dal nostro?

E’ vero, l’Europa, quella politica, è lontana dal divenire una confederazione ma almeno salviamo i principi. E’ vero o non è vero che tutte le lingue europee hanno pari dignità? Allora, se così è, gli annunci nelle stazioni, negli aeroporti e persino nei convogli delle metropolitane europee, se non avvengono solo nella lingua del paese in cui si trovano devono essere fatti in tutte le lingue della Comunità europea. Non è tollerabile che la lingua nazionale venga affiancata solo dall’inglese.

Nell’agosto del 1987 mi trovavo a Mosca (allora era la capitale dell’URSS) e soggiornavo al Rossia, uno degli alberghi più grandi del modo, a due passi dalla Piazza Rossa. Ricordo i depliant che, nelle lingue più diffuse, erano lasciati nelle camere per fornire le informazioni sui servizi offerti ai clienti. Tra tutte le lingue disponibili era presente anche l’esperanto. Stessa cosa notai alcuni anni dopo all’Avana, era il luglio del 1992 ed anche all’hotel Plaza della capitale cubana l’esperanto era annoverato tra le lingue nelle quali erano tradotte le principali informazioni fornite ai turisti attraverso i depliant.

L’URSS e Cuba, due paesi allora comunisti (Cuba lo è ancora oggi) non trascuravano l’importanza dell’esperanto, lingua i cui sostenitori sono stati perseguitati da Hitler, Stalin e persino da Saddam Hussein.

Forse queste osservazioni possono essere utili per comprendere il silenzio che i nostri mass media dedicano all’esperanto e, in genere, ai problemi della comunicazione linguistica in Europa?

La cosa che più mi fa riflettere, però, è la banalità di queste osservazioni. Una banalità che dovrebbe apparire scontata ed invece non lo è. Anzi, ne sono certo, per molti la questione è di nessuna rilevanza, un non problema (quanti sanno cos’è l’esperanto?).

Certo, come si può pensare di mettere in secondo piano la supremazia così faticosamente raggiunta dall’inglese grazie al lavoro portato avanti dalla cinematografia americana e dai discografici inglesi, sapientemente supportato dalla televisione nostrana che negli ultimi anni non ha fatto altro che arricchire sempre di più i suoi palinsesti con prodotti anglo-americani?

Certo gli anglo americani, prima di vincere la guerra contro Saddam Hussein hanno vinto quella contro Hitler e il nazi-fascismo e un qualche riconoscimento gli deve pur essere dovuto.

L’accettazione passiva dell’inglese è il prezzo che dobbiamo pagare per aver perso la guerra?

Beh, se è così, perché non dirlo chiaramente? Così ci mettiamo l’anima in pace è impariamo l’inglese. Infondo è sempre stato così in passato: i vincitori imponevano la loro lingua ai vinti.

Ma forse i principi non scritti della democrazia, quella che deve essere esportata ad ogni costo dai paesi occidentali, impongono qualche piccola ipocrisia!