Un diritto, secondo il PIV *, è “la facoltà, riconosciuta da leggi, statuti o usanze, di compiere un’azione, disporre e far uso di qualcosa o esigere qualcosa da altri”. E il primo esempio che quel dizionario presenta per questa parola è : “solo i doveri sono il fondamento dei diritti”. Questo mi sembra assolutamente giusto. Noi viviamo infatti in un tempo in cui si parla molto di diritti, ma si trascura il fatto che essi non hanno senso senza i rispettivi doveri.

Per quanto riguarda il diritto alla comunicazione, mi sembra che i doveri spettino soprattutto alle istituzioni ufficiali, allo Stato, al Ministero della Pubblica Istruzione, ai giornalisti, agli insegnanti, etc. Dell’aspetto tecnico non dovremmo lamentarci, dato che viviamo in una società in cui i mezzi tecnici per comunicare adeguatamente sono, almeno nei Paesi sviluppati, molto ben organizzati. Ma a cosa serve poter comunicare attraverso Internet, a costi minimi, con il Kazakistan e il Brasile, se in questa comunicazione non possiamo usare una lingua adeguata? Davanti al popolo, davanti alla gente comune, gli Stati e l’élite intellettuale hanno un dovere che tuttavia non compiono: ricercare qual è il miglior mezzo di comunicazione linguistica e raccomandarne l’uso.

 

 

Noi viviamo in una società ossessionata dall’efficienza. Non è strano, dunque, che ci s’interessi così poco del rapporto, da una parte, tra quello che s’investe nell’apprendimento delle lingue e nei servizi linguistici, e, dall’altra, i risultati delle enormi somme così investite ? In tutto il mondo, milioni di bambini e adolescenti studiano una lingua straniera per sei o sette anni, per diverse ore settimanali, più i compiti di casa, e il risultato è che, tranne che nei paesi di lingua germanica, solo un allievo su cento, in Europa, è capace di usare veramente la lingua studiata alla fine del periodo scolastico. E in Asia la situazione è ancora più deplorevole. A Hong Kong la conoscenza dell’inglese è misera: [cito] “sebbene tutti gli allievi della scuola media abbiano lezioni di inglese per diverse ore al giorno (...) soltanto poco più della metà hanno superato con successo, l’anno scorso, l’esame di lingua inglese, che devono sostenere all’età di 16 o 17 anni” [fine della citazione]1. Immaginate un po’! Un investimento di diverse ore al giorno e la metà degli interessati non ha raggiunto il livello desiderato! L’investimento in denaro, in tempo e fatica è gigantesco, ma il risultato è misero.

Questo sistema è quasi la negazione delle idee, proclamate così a gran voce dal neoliberalismo, del giusto rapporto tra costo ed efficienza.


Per sapere qual è il miglior sistema bisogna fare dei confronti. In agronomia, quando appare un nuovo metodo o una nuova semente, non li si accolgono sùbito, ma si fanno dei confronti. Si divide un campo in due parti. Si usa il nuovo metodo o la nuova semente in una metà, il metodo e la semente tradizionali nell’altra metà. Quando viene il momento del raccolto, si può misurare la differenza. Similmente, esistono oggi in molti paesi delle associazioni di consumatori che confrontano le diverse merci dal punto di vista della qualità e del prezzo. Ma questi confronti non avvengono mai quando si tratta di lingua. Sebbene si investano enormi somme nell’insegnamento delle lingue, e, dato che quest’investimento si mostra vano, poi si spendono di nuovo enormi somme per l’interpretariato e la traduzione, non si fa mai un confronto ufficiale dei diversi mezzi linguistici usati dalla gente per la reciproca comprensione.

Il mezzo di comunicazione scelto, tuttavia, ha delle conseguenze ben più importanti di quanto di solito non si creda. Per esempio, non è forse uno dei nostri diritti il fatto che la comunicazione tra un pilota di un aereo e il personale della torre di controllo sia organizzata in modo tale da fornire ai viaggiatori la miglior possibilità di sopravvivenza? Ebbene, non è per niente così. Quella comunicazione avviene in inglese, per una raccomandazione provvisoria della Organizzazione dell’Aviazione Civile Internazionale, una decisione presa nel 1951, ma la cui provvisorietà non è stata mai rivista. Come risultato, i problemi linguistici in questo campo sono elencati dalla stessa Organizzazione come la terza causa degli incidenti aerei.

Perché questo? Perché, per molti aspetti, l’inglese è una delle lingue meno adatte per la comunicazione internazionale. Negli esperimenti fatti per trovare quali lingue sono le più chiare dal punto di vista dei suoni, cioè le più comprensibili, per la loro struttura fonetica, anche in presenza di forti rumori, si è evidenziato che la prima è l’italiano, e la seconda l’esperanto, mentre l’inglese si trovava solo al tredicesimo posto. Molte lingue del mondo funzionano egregiamente con solo cinque vocali, a, e, i, o, u, mentre l’inglese ha 15 suoni vocalici. Questo significa che molte delle distinzioni fatte dall’inglese sono impossibili per tre quarti dell’umanità. Pochi popoli sono capaci di fare una distinzione tra ship (“nave”) e sheep (“pecora”), o fare una distinzione adeguata tra bad manners e bed manners. La prima espressione significa “cattiva educazione”, “maniere scortesi”, la seconda si riferisce al modo di comportarsi con qualcun altro a letto. E uno dei più frequenti suoni dell’inglese, frequentissimo, dato che si ritrova nell’articolo e in molti pronomi e avverbi di base, il suono th, non si trova nelle abitudini fonetiche di quattro quinti del pianeta. Ne risulta che, in base alla maggioranza delle pronunce del mondo, non è possibile sapere se la persona in questione ha detto “lottò”, “pensò”, “insegnò” o “cercò ”. Quelli tra voi che hanno avuto l’occasione di conversare in inglese con coreani, cinesi e giapponesi avranno certamente notato che è quasi impossibile sapere se hanno detto first o third, cioè se parlano del primo o del terzo. Confrontate queste parole in inglese e nelle altre lingue e constaterete che l’inglese è una di quelle lingue in cui è più difficile fare le necessarie distinzioni.

E non ho detto nulla delle pronunce locali. In Australia si pronuncia today (“oggi”), come to die (“morire”). Un pilota una volta mi ha detto che comprende bene soltanto l’inglese degli Stati Uniti del nord-est, che l’inglese di Londra lo capisce con più difficoltà, e che quello del Texas, della Scozia e della Nuova Zelanda gli pone spesso dei gravi dubbi. Terribilmente difficile è capire l’inglese di paesi non anglofoni, come la Tailandia, o molte regioni dell’Africa.

Inoltre l’inglese si serve di molte forme idiomatiche, che non hanno assolutamente un equivalente semantico in altre lingue del mondo, così che, spesso, un pilota di un paese non anglofono non capisce quello che gli dice un controllore di volo anglofono. Per esempio, nel 1997, a Seattle, negli Stati Uniti del nord-ovest, un pilota russo cominciò ad atterrare su una normale carreggiata urbana, presso una scuola, perché non aveva capito la forma idiomatica della persona nella torre di controllo che aveva detto : “Can you make the runway?”, letteralmente “Puoi fare la pista d’atterraggio?”.

Il fatto che l’inglese ha una grammatica molto imprecisa, spesso con nessuna possibilità di capire quale correlazione ci sia tra le parole, è un fattore di molte gravi incomprensioni. Il problema è che un pilota deve reagire con grandissima velocità. Io sono di professione traduttore alle Nazioni Unite e anche presso l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ho abitato a New York per cinque anni. Probabilmente conosco l’inglese almeno altrettanto bene quanto un pilota medio. Ma se fossi stato il pilota che attendeva il permesso per decollare, e a cui il controllore di volo della torre di controllo, a Tenerife, ha detto “Clipper 1736 report clear of runway”, certamente non avrei capito immediatamente, come infatti è accaduto al pilota in questione, così che il suo aereo è entrato in collisione con un altro, e per questo sono morte quasi 600 persone.

Ho qui una lista di incidenti aerei, che si sono verificati per errori nella comunicazione linguistica.

1972, Florida 101 morti Una domanda non nella norma da parte della torre di controllo.

1977, Canarie 583 morti Un pilota olandese interpretò una frase inglese secondo la sintassi dell’olandese.

1981, California 34 feriti Uso idiomatico della parola hold.

1980, Canarie 146 morti Confusione tra turns left (gira a sinistra, indicativo) e turn left (girare a sinistra).

1981, Corsica 180 morti Linguaggio poco chiaro dalla torre di controllo.

1983 Madrid 169 morti Procedura di comunicazione errata.

1984, Virginia 92 morti Mancata comprensione del permesso di atterrare.

1986, Berlino 72 morti Mancata comprensione delle istruzioni sulla direzione in cui andava condotto l’aereo.

1990, New York 73 morti Errato messaggio di carburante insufficiente.

1993, Cina numero di morti sconosciuto - Il pilota non capì il significato delle frasi che lo avvertivano che si stava avvicinando alla terra. Le sue ultime parole, registrate nella scatola nera, furono: “Che significa pull up?”.

1995, Colombia 155 morti Il controllore di volo della torre di controllo, di lingua spagnola, disse di non esser riuscito a tenere, in inglese, la necessaria conversazione con il pilota dell’aereo in arrivo, dell’American Airlines, che si dirigeva verso una montagna.

1996, Indonesia numero di morti sconosciuto - Molti viaggiatori giapponesi persero la vita perché gli steward non poterono comunicare con loro in una lingua comprensibile.

1996, Florida 110 morti La FAA (Amministrazione dell’Aviazione Federale americana) chiarì che una sostanza letale era stata caricata a bordo del Valujet in quanto gli operai non sapevano leggere l’inglese.

1996, India 349 morti Il controllore di volo nella torre di controllo, di lingua hindi, parlava con un forte accento hindi. Il pilota kazaco non comprese e guidò il suo aereo in modo tale da entrare in collisione nell’aria con un aereo arabo.

1996, Londra nessun morto - Decollo senza autorizzazione, che mise in pericolo altri aerei. Si calcola che qualcosa di simile si verifica una volta l’anno. I piloti che non conoscono bene l’inglese possono solo ignorare le istruzioni della torre di controllo e far affidamento sul loro intuito per sapere il da farsi.

1997, Seattle nessun morto - Un pilota russo, incapace di parlare in inglese con la torre di controllo, cominciò l’atterraggio su una carreggiata vicino a una scuola elementare (ho già menzionato questo caso). Il controllore della torre si era espresso in modo idiomatico: “Can you make the runway?”.

1999, Chicago nessun morto - Un Boeing cinese 747 si portò per errore sul corridoio di decollo per mancata comprensione delle istruzioni dalla torre di controllo. Si fermò a soli 30 metri da un altro Boeing 747, dalla Corea, che si stava preparando per il decollo, con 362 persone a bordo.

1999, Shanghai 8 morti Pilota coreano, controllore di volo cinese.



A mio avviso, il diritto alla comunicazione include il diritto alla comunicazione necessaria per garantire la nostra vita; e la società, cioè tutti coloro che hanno influenza sulla nostra vita, siano essi presidenti, ministri, parlamentari, professori, insegnanti, giornalisti, hanno un dovere ben preciso: il dovere di studiare gli aspetti linguistici della nostra sopravvivenza e il dovere di organizzare le cose in modo tale che il sistema più sicuro sia generalizzato. Hanno il dovere di mettere a confronto i diversi modi di comunicazione tra persone di lingua diversa, confrontarli in base a tutta una serie di criteri: esattezza, precisione, facilità, chiarezza, giustizia, costo, efficacia dello studio, idoneità ad una rapida comprensione e dunque a un’immediata reazione di riflesso, etc. Coloro che hanno potere decisionale, tuttavia, hanno accettato passivamente l’inglese come mezzo di comunicazione internazionale, senza alcuna analisi critica, come se semplicemente non fosse possibile un confronto obiettivo tra le diverse possibilità e quindi scegliere la miglior soluzione. Questo fatto costituisce una terribile mancanza di senso di responsabilità. Significa prendersi gioco degli interessi dei cittadini.

Ma secondo me il diritto alla comunicazione contiene molto più del semplice diritto alla comunicazione che garantisca la sopravvivenza. Esso presuppone anche, per esempio, il diritto a non essere messi in situazioni in cui, a causa della lingua, ci si mostra ridicoli. Consideriamo il caso della signora Helle Degn, ministro danese, la quale, all’apertura di una riunione internazionale e desiderando scusarsi per una conoscenza non approfondita del tema da discutere, in quanto aveva appena assunto l’incarico di ministro, disse: “I am at the beginning of my period” [Sono all’inizio delle mestruazioni; intendeva dire: del mio incarico di ministro]. Perché questa donna ha destato la derisione generale? Perché si è trovata esposta al rischio del ridicolo, che i rappresentanti di molti paesi non devono mai affrontare? Forse per colpa sua? Certamente no. Come la maggioranza degli stranieri che usano l’inglese ad alto livello, lei aveva studiato e praticato la lingua per più di diecimila ore. Ma non si raggiunge mai un livello di uguaglianza con i locutori nativi. Il rischio di essere ridicoli ne è distribuito equamente.

Il diritto alla comunicazione include anche, secondo me, il diritto di potersi esprimere in condizioni di eguaglianza con gli altri. Da giovane, ho lavorato come segretario addetto al verbale nel Comitato Regionale per il Pacifico Occidentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un medico giapponese, il dr. Okamoto, rappresentava il suo paese nel suddetto Comitato. Anno dopo anno, durante le sedute, non diceva mai più di due o tre frasi preparate su un foglio di carta. Tutti noi pensavamo: “Be’, non è molto loquace”. Ma una volta capitò che il governo giapponese invitò il Comitato a tenere una seduta a Tokyo e fornì la traduzione simultanea dal giapponese. Il comportamento di quel delegato cambiò completamente. Ora aveva molto da dire e contribuì abbondantemente e proficuamente alla trattazione di ogni punto all’ordine del giorno. Era libero dall’handicap di dover esprimere i suoi pensieri in una lingua straniera. Scoprimmo una personalità completamente diversa.

Le lingue usate nelle riunioni internazionali spesso definiscono chi parlerà e chi no. L’anno scorso si è tenuto a Vienna un grande congresso di psicoterapia. Le lingue di lavoro erano l’inglese e il tedesco. Due terzi delle persone che contribuirono ai dibattiti erano anglofoni o germanofoni. Una collega mi disse: “Sembra che non esistano psicoterapeuti competenti nei paesi slavi e in quelli latini”.

Bisogna rendersi conto che colui che deve parlare in una lingua straniera soffre di un handicap e l’handicap è tanto più grave, quanto più la lingua di comunicazione è diversa dalla sua lingua materna e quanto più essa è incoerente, cioè piena di forme che sono contrarie al funzionamento spontaneo del cervello. L’esperanto non è vicino in modo uguale a tutte le lingue materne. Ma almeno, tra tutte le lingue esistenti nel mondo, l’esperanto è quella che segue di più il funzionamento naturale del cervello, quando vogliamo esprimere qualcosa.

Colui che usa la lingua di un altro popolo appare meno intelligente di quanto sia in realtà. Se voi dovete cercare la parola giusta, non la trovate, balbettate un po’ e alla fine usate un’altra parola, meno adatta, se per di più fate errori di grammatica, e inoltre avete un’intonazione e un accento stranieri che i vostri ascoltatori trovano buffi, voi non apparite voi stessi, come vi mostrereste se poteste usare la vostra lingua. I vostri interlocutori non vi riconoscono, essi conoscono solo una vostra caricatura, conoscono solo un commediante che cerca di assumere il ruolo di uno straniero, ma che non ci riesce molto bene. È un po’ come se vi avessero obbligato a indossare dei vestiti che non si adattano al vostro corpo, cosicché i movimenti più semplici sono in qualche maniera frenati. Quello che mostrate di voi è molto inferiore al vostro vero livello. Ma questo gli altri non lo considerano. La consapevolezza dell’handicap linguistico è talmente esigua, che la grande maggioranza della gente non immagina affatto in che grado l’obbligo di usare una lingua diversa dalla propria cambia l’aspetto della persona e di conseguenza anche la maniera in cui gli altri vi giudicano. Per questo dobbiamo considerare come una gravissima mancanza di rispetto verso la persona il fatto che coloro che hanno potere decisionale, dal punto di vista politico e culturale, impongono praticamente a tutti l’uso dell’inglese. L’inglese infatti è, per i non anglofoni, una delle lingue che più mettono in condizioni di handicap, per la sua pronuncia, per la sua grammatica imprecisa, per le migliaia di forme idiomatiche che lo caratterizzano e per la grande estensione del suo vocabolario.

In italiano, se voglio usare il concetto di “libertà”, è sufficiente che io abbia appunto imparato la parola libertà, mentre non si può dire che io conosca l’inglese se non so che esistono liberty e freedom. Non conoscete l’inglese se non sapete che “fraterno” è a volte fraternal a volte brotherly, o che “inevitabile” è talvolta inevitable e talvolta unavoidable. Per noi occidentali il problema è attenuato dal fatto che una delle due forme ci è generalmente nota a causa della nostra lingua materna, ma un ungherese, un turco, un etiope, un cinese o un coreano deve imparare due parole, mentre in un’altra lingua una sola è sufficiente. Se comparate le lingue costaterete che alcune mettono gli stranieri in stato di handicap molto più di altre lingue. Per esempio l’italiano dà, allo straniero che lo impara, un minore svantaggio rispetto all’inglese, dato che è più coerente. Quale che sia la vostra lingua materna, avrete bisogno di minor sforzo per ricordarvi la parola dentista, se potete metterla in relazione con dente. Ma in inglese, dentist non ha alcun rapporto con tooth, che significa “dente”. L’inglese richiede qui un maggiore sforzo.

Si resta davvero stupefatti davanti alla passività con cui i popoli, come anche gli addetti all’informazione e i governanti, accettano questi handicap come se non esistesse una soluzione migliore.

Una delle cause di questa deplorevole passività va vista nel fatto che uno dei principali fattori che dominano la società è l’inerzia. È più facile non riflettere su un problema che affrontarlo con spirito critico. Inoltre, il problema del diritto alla comunicazione in una società che tende alla mondializzazione e alla globalizzazione, è complesso: in esso vi sono aspetti politici, economici, sociali, culturali, linguistici, pedagogici e psicologici. Quando una cosa è complessa, la nostra tendenza naturale è alla semplificazione. Come risultato, la società ha un’immagine terribilmente semplificata della situazione linguistica sul nostro pianeta. Per una gran parte dell’umanità, il problema linguistico semplicemente non esiste. Questa gente pensa: “Il problema si risolve con l’inglese, o coi traduttori”. Per altre persone (o per quelle stesse persone in un altro momento) c’è sì un problema, ma non esistono soluzioni, se non quelle a cui si è sempre fatto ricorso.

Di conseguenza, la maggior parte delle vittime di questa situazione non si sentono vittime. Considerate, per esempio, un lavoratore straniero, i cui diritti non vengono rispettati perché la sua misera conoscenza della lingua locale consente che quest’uomo venga facilmente sfruttato, o il direttore generale di una media impresa, che non riesce a ottenere per la sua azienda un interessantissimo contratto, perché la sua conoscenza dell’inglese non è sufficiente per difendere davvero la sua proposta nelle trattative. Essi non si sentono vittime di un sistema assurdo e ingiusto, ma si sentono in colpa, sentono che dovrebbero conoscere l’altra lingua e, se non è così, devono rimproverare solo sé stessi.. Pensano: “Se non sono capace di farmi capire, è colpa mia. Sono stato troppo pigro o non abbastanza bravo per acquisire un mezzo di comunicazione adeguato”. Il diritto alla comunicazione, come è proclamato nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, non è sentito come qualcosa che la società dovrebbe organizzare nello spirito di giustizia e con realismo in relazione alla capacità media di apprendimento della popolazione del mondo.

Le persone che a causa della lingua si mostrano ridicole o sono trattate ingiustamente dalla polizia, dal sistema giudiziario o dai loro padroni, non sono consapevoli che la società ha più responsabilità nel loro handicap, di quanta non ne abbiano loro stessi. Pertanto la discriminazione di cui stiamo parlando viene percepita solo raramente. Capita eccezionalmente di leggere una frase come la seguente, che parla dei “portieri”, cioè delle persone che selezionano i candidati per un posto di lavoro sulla base di un colloquio in lingua inglese: [faccio una citazione] “La lingua inglese dei cosiddetti portieri è uno degli aspetti meno visibili, meno misurabili e meno compresi della discriminazione”. [fine della citazione]

Un altro fattore determinante è il fatto che coloro che sfruttano i parlanti di altre lingue trovano comodo che i problemi linguistici consentano loro di non assumersi mai la responsabilità delle loro azioni vergognose.

Per esempio, un viaggiatore svizzero a Manila (Filippine), persuase un adolescente, E. B., ad andare con lui in Svizzera; gli aveva promesso di finanziargli gli studi, di dargli un alloggio, di mantenerlo e persino di adottarlo legalmente. Il quattordicenne accettò. Quando arrivò, fu costretto a entrare in una rete di prostituzione e inoltre veniva usato in casa del padrone come uno schiavo. Un’occasione di salvarsi gli si presentò quando due poliziotti vennero nella casa in cui lui era rinchiuso; infatti si sospettava che vi si svolgesse qualcosa di illegale. I poliziotti effettivamente videro il giovane, ma lui parlava solo un pidgin inglese e loro non capivano affatto l’inglese. Il padrone parlò con loro nel locale dialetto svizzero tedesco. Il giovane non riuscì a farsi capire e lo sfruttatore spiegò a modo suo le lamentele del giovane, in una lingua non comprensibile per lo schiavo, cosicché questi non poté contestare le affermazioni del padrone, come avrebbe potuto fare se non fosse stato rinchiuso nel suo handicap linguistico. Soltanto per il fatto che alla fine riuscì a scappare si è venuto a sapere della sua triste sorte.

A Ginevra un uomo del Burkina Faso fu condannato senza capire cosa gli accadeva, perché parlava solo il suo dialetto africano e la procedura si svolgeva in francese. Impressionato dalla polizia e probabilmente provando i sensi di colpa di solito legati all’handicap linguistico, l’uomo firmò il verbale scritto su di lui, sebbene non lo avesse compreso. Abbiamo conoscenza del fatto solo per un caso felice, infatti un avvocato si trovava al posto giusto e al momento giusto e riuscì ad ottenere che la condanna venisse annullata. Poco mancò che l’uomo dovesse prendere l’aereo e far ritorno in Africa, prima che l’amministrazione prendesse in esame la sua richiesta d’asilo politico, con il pretesto che fosse colpevole di atti illegali, di cui in effetti lui era innocente, ma che non era capace di contestare.

In casi simili, uno degli aspetti del problema dell’handicap linguistico è la difficoltà di trovare interpreti. Le amministrazioni si servono di chiunque abbia abitato nella regione linguistica in questione, ma non è affatto facile per un interprete tradurre rimanendo obiettivo, senza introdurre deformazioni dei fatti a causa delle proprie opinioni politiche o del proprio stato emotivo. Molti profughi hanno sofferto di questa conseguenza dell’handicap linguistico.

Il fatto che la nostra società non sia consapevole dell’importanza della lingua come fattore della piena dignità umana conduce a forme larvate di discriminazione, che di fatto pregiudicano il diritto alla libera comunicazione. Un lavoratore straniero a Berlino, che ho avuto occasione di conoscere, è obbligato a parlare in tedesco a suo figlio nella scuola materna perché la maestra d’asilo esige di poter capire quello che si dicono genitori e figli. Naturalmente, non si tratta di niente di terribile in sé, perché quelle comunicazioni si limitano a qualche minuto al giorno. Ma il comportamento di quella signora rivela l’opinione molto diffusa che la lingua non è importante. Questo è negare tutto l’aspetto emozionale della lingua, come il ruolo della lingua stessa nei sentimenti di identità, che sono una delle basi del sentimento della dignità. Quella maestra d’asilo non si rende conto che la sua richiesta mostra disprezzo e che essa rafforza il sentimento di essere esclusi, o di avere uno status inferiore.

Le autorità di tutti i paesi, i responsabili e coloro che hanno posizioni eminenti nelle organizzazioni internazionali meritano che gli venga detto: “L’esperanto esiste. Ogni studio comparativo obiettivo dei diversi metodi usati dagli uomini per comunicare al di là delle barriere linguistiche mostra che esso è un mezzo di comunicazione nel quale il rapporto tra costi e efficienza è il più favorevole, il sistema psicologicamente più soddisfacente e per di più lo strumento di comunicazione più libero da svantaggi dal punto di vista culturale, in una parola, che esso è il migliore. E tuttavia, voi organizzate la società in modo tale che le sue qualità e in particolare la sua superiorità in confronto con altri sistemi sono in generale sconosciuti. Assumetevi le vostre responsabilità. Avete scelto l’inglese, la traduzione simultanea, il bilinguismo, le ricerche sulla traduzione automatica e altri sistemi d’ogni sorta, che voi applicate coi soldi del contribuente. Noi abbiamo diritto di ricevere delle spiegazioni. Diteci dunque, basandovi su confronti fatti sul campo, nella pratica, in cosa quei metodi superano l’esperanto. Spiegateci il vostro rifiuto dell’esperanto, o il suo carattere di tabù, basando il vostro punto di vista su irrefutabili fattori quantitativi e qualitativi”.

Ho detto all’inizio che c’è un rapporto tra il diritto e il dovere. Ebbene, al diritto alla comunicazione si lega, secondo me, il dovere di rendere consapevoli i responsabili politici, sociali e dell’informazione del loro dovere di togliere il tabù all’esperanto. L’attuale sistema mondiale della comunicazione linguistica certamente porta con sé molte sofferenze, per le quali stranamente c’è ben poca compassione e solidarietà. Nessuno sembra prendere sul serio la triste situazione di milioni di alunni, che, in tutto il mondo, sudano sulle incoerenze della lingua inglese e il suo gigantesco vocabolario, che dedicano ore ed ore di sforzi per un risultato che non ha niente a che fare con quello che si aspettavano all’inizio. Nessuno sembra prendere sul serio le sofferenze di molti profughi e persone che si sono spostate dal loro paese, che si trovano costantemente in situazioni, in cui la mancanza di un mezzo di comunicazione pratico è fonte di complicazioni, sofferenza e spesso ingiustizie. Nessuno sembra prendere sul serio il fatto che molti disoccupati troverebbero un posto adeguato, se non fossero handicappati dal fatto che non sono mai riusciti ad apprendere a fondo l’inglese, sebbene non sia colpa loro, dato che non tutti hanno talento linguistico. E naturalmente si potrebbero citare molti altri esempi. Sarebbe sconveniente da parte mia confrontare la mia situazione con le difficili vicissitudini a cui ho fatto allusione. Tuttavia, sta di fatto che io spesso mi trovo in situazioni in cui devo usare una lingua straniera, soprattutto l’inglese, situazioni in cui non mi sento a mio agio, in cui sento fortemente la differenza con il mio interlocutore e nelle quali l’handicap mi disturba notevolmente, cosicché non posso essere del tutto naturale, del tutto me stesso. È un fatto dunque che la qualità della mia vita sarebbe molto migliore se invece di dover usare l’inglese in tutte queste situazioni, potessi usare l’esperanto, in cui si evitano la maggioranza dei dubbi ed esitazioni che tanto impediscono di esprimersi spontaneamente in una lingua straniera nazionale. Se esiste un metodo per comunicare comodamente con persone di altra etnia, perché non usarlo? Non abbiamo forse il diritto, non solo di comunicare, ma anche di comunicare comodamente, in modo piacevole e senza barriere?

Forse penserete tutti: “Be’, questo è un bel sogno, ma in pratica cosa si potrebbe fare?”

Per prima cosa dobbiamo usare e diffondere il concetto di handicap linguistico. Quest’handicap è frequentissimo nel mondo di oggi e causa molte sofferenze, frustrazioni e ingiustizie. Allo stesso modo dobbiamo usare e diffondere il concetto di comfort linguistico. E dobbiamo legarlo al concetto di diritto. Perché la persone di tutte le nazioni non dovrebbero avere il diritto di comunicare comodamente?

Poi dobbiamo rendere consapevoli le altre persone delle cause del problema. Forse la causa principale è che manca la volontà di risolverlo, perché l’attuale ordine (o per meglio dire, disordine) linguistico offre vantaggi ad alcuni gruppi o classi sociali, che non vogliono rinunciare alla loro superiorità. Un’altra causa può essere che manca una vera consapevolezza del problema, della sua influenza che perturba la vita di milioni di persone. Parte di questa mancanza di consapevolezza forse è dovuta, a sua volta, alla volontà di ignorare l’aspetto neuropsicologico di una lingua, cioè l’estensione delle nozioni da immettere nel nostro cervello per acquisire una lingua, in altre parole, il fatto che, per parlare con facilità la maggior parte delle lingue, bisogna che centinaia di migliaia di riflessi siano inseriti nel cervello e restino lì in esercizio.

Bisogna sottolineare un punto importante che non viene mai menzionato nelle discussioni sull’uso delle lingue, cioè che una grandissima proporzione dello sforzo imposto al cervello nell’apprendimento linguistico non contribuisce in alcun modo all’efficacia della comunicazione, e dunque all’eliminazione degli ostacoli che creano l’handicap linguistico. In altre parole, se si trova una lingua che segue davvicino il flusso naturale dell’energia nervosa, senza imporre l’immissione di riflessi condizionati per deviare questo processo naturale, questa lingua offre una soluzione al problema.

È un dato di fatto che in tutto il mondo l’esperanto viene usato in reti umane che insieme formano una sorta di diaspora in cui l’handicap linguistico non esiste o esiste in minimo grado. L’esperienza di questo ambiente assomiglia a quello che si suole chiamare un studio pilota che ha dimostrato che il mezzo è adatto per lo scopo. Agire come se quell’esperienza non esistesse significa insultare i milioni di persone afflitte dall’handicap linguistico e che di diritto potrebbero godere una più alta qualità di vita, consentita dal comfort linguistico.

Dobbiamo renderci conto che sarebbe utile scegliere un approccio a lunga prospettiva. Una volta controllati i fatti in questione, se l’esperanto si mostra il miglior mezzo per liberare la società mondiale dall’handicap linguistico, sarebbe possibile organizzarne l’insegnamento nelle scuole elementari di tutto il mondo. Questo non cambierebbe molto nei programmi di studio, perché in un primo stadio basterebbero dieci minuti al giorno per un anno, ed è possibile integrare questi dieci minuti nell’insegnamento della lingua materna.

Insegnarlo nelle scuole elementari non disturberebbe l’insegnamento di altre lingue nelle scuole secondarie. Di conseguenza, invece dell’attuale situazione in cui milioni di adolescenti si tormentano la mente con risultati deplorevoli nello sforzo di imparare bene l’inglese, gli alunni vedrebbero le lingue nazionali come qualcosa che vale la pena di studiare per motivi culturali. Essi potrebbero scegliere, secondo il luogo di residenza, tra lingue come il sanscrito, l’italiano, il farsi*, il greco antico, l’inglese shakespeariano, l’ebraico, l’arabo o qualunque altra. Un simile piano contemporaneamente risolverebbe due problemi della prossima generazione. Eliminerebbe l’handicap linguistico e libererebbe il mondo dalla tendenza verso una cultura basata soltanto sui prodotti americani.

Molti governi investono somme gigantesche nell’insegnamento dell’inglese con risultati estremamente deludenti. Quando udite che il capo del programma messo in piedi dall’Università della Malaysia per addestrare gli insegnanti d’inglese dice: [citazione] “Molti insegnanti di inglese non sono capaci di conversare in inglese”2 [fine della citazione], cosa potete attendervi, tanto più che questo giudizio è valido per molti paesi?

E la causa non va vista nella pigrizia, nell’organizzazione inadatta o nella pedagogia errata. Ma va vista nell’enorme e irriducibile quantità di riflessi necessari per padroneggiare la lingua inglese. Non sarebbe giustificato sostituire quell’investimento veramente inefficace con uno molto meno costoso, che potrebbe realmente salvare il mondo dalla piaga dell’handicap linguistico? Questo richiederebbe solo un’autentica volontà e un coordinamento internazionale simile a quello che si è organizzato con sommo successo in un tempo relativamente breve per eliminare il vaiolo.

L’handicap linguistico non è come una maledizione davanti a cui ci si potrebbe dichiarare impotenti. L’esperienza della comunità esperantofona dimostra il contrario. Quelli che vogliono che si ignori l’esperanto col pretesto che esso è inadatto, pericoloso, impossibile, etc., si assumono una responsabilità molto seria, ergendosi così contro l’obiettività, e dunque contro la giustizia. Se esiste un rimedio per curare da una malattia endemica una popolazione, che figura farebbe quel responsabile della pubblica sanità che soffocasse ogni tentativo di diffondere il medicinale, tenendo così milioni di uomini nel dolore o nella debolezza, dato che lui, senza neanche gettare uno sguardo alla letteratura specialistica e ai risultati di progetti pilota che applicano quel farmaco sul campo, ha già deciso che quel trattamento è senza valore? Agire così è insultare la dignità umana. Noi abbiamo il diritto di esigere dalle nostre autorità che non restino passive e inerti di fronte ai problemi linguistici, che diventano sempre più acuti a causa della cosiddetta globalizzazione. L’incapacità della maggioranza di comunicare comodamente attraverso le barriere linguistiche, così come l’ineguaglianza nella possibilità di soddisfare il diritto alla comunicazione, sono, in certo qual modo, delle malattie della mente dell’umanità. Quando esiste un rimedio per curare una malattia, un rimedio che costa poco e non presenta nessuno svantaggio, i cittadini hanno il diritto che il rimedio sia messo a loro disposizione. Perciò, penso che possiamo esigere, di diritto, che le alte sfere politiche, culturali e intellettuali informino obiettivamente sul problema linguistico, sui costi dell’insegnamento e dell’uso dell’inglese in confronto coi costi dell’insegnamento e dell’uso dell’esperanto, in relazione ai risultati di entrambi i sistemi. Ma non esiste un diritto senza il dovere corrispondente. Abbiamo il dovere di fare tutto il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema linguistico, sui suoi molteplici aspetti e sul fatto che per questo problema esiste una soluzione. E la giustizia esige che questa soluzione venga presa in considerazione.



(Traduzione dall’esperanto di Fabrizio Pagliaroli)

 

Claude Piron, psicologo, traduttore, poliglotta, docente alla Facoltà di Psicologia e di Scienze dell’Educazione all’Università di Ginevra, è stato traduttore e resocontista alle Nazioni Unite a New York e all’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, organizzazioni per le quali ha compiuto diverse missioni in Africa e in Asia. Attualmente lavora come psicologo a Coppet, vicino a Ginevra.

Ha dedicato diversi scritti al problema della resistenza psicologica dei più a una soluzione come l’esperanto del problema della comunicazione internazionale.

Particolarmente rilevante è il suo libro La défi des langues, Parigi, L'Harmattan, 1994, una delle più efficaci argomentazioni a favore dell'esperanto.

È autore altresì di cinque romanzi in esperanto, sotto lo pseudonimo di Johàn Valano e ha pubblicato in questa lingua un saggio sulla formazione della personalità: Kiel personeco sin strukturas, Liegi, SUK, 1978.


* PIV: Plena Ilustrita Vortaro de Esperanto, il più autorevole dizionario monolingue di esperanto. (N.d.T.)

1 Philip Segal, “Tongue-Tied in Hong Kong”, International Herald Tribune, 980318.

2 Jay Branegan, “Finding a Proper Place for English”, Time, 1991.09.16, pag. 51.