Noto al vasto pubblico, fra l’altro per il suo romanzo Il nome della rosa (1980), e all’ambiente scientifico per i suoi fondamentali lavori di semiotica, Umberto Eco durante l’Anno Accademico 1992-93, nella Cattedra Europea del Collège de France (il più prestigioso istituto d’istruzione di Francia), tenne una serie di conferenze sulla “ricerca della lingua perfetta attraverso la storia della cultura europea”: l’opera che ne è risultata, edita in italiano col titolo La ricerca della lingua perfetta, Bari, Laterza, 1993, è stata poi pubblicata anche in varie altre lingue.

Dato il tema, Eco ha trattato anche dell’Esperanto. Il 20 gennaio 1993, l’autore ha cortesemente accettato di avere una lunga conversazione con István Ertl, redattore della rivista dell’UEA Esperanto, e François Lo Jacomo, linguista parigino, membro dell’Accademia di Esperanto; sono stati toccati molti argomenti, senza limitarsi esclusivamente alla lingua internazionale: per esempio, in primo luogo si è parlato della traduzione, che paradossalmente sembra essere una condizione necessaria per l’esistenza di un lingua “non perfetta”.

Dell’intervista (pubblicata nel testo integrale, in Esperanto, come Esperanto-Dokumento 32E dell’UEA) diamo il testo riassuntivo pubblicato nella rivista Esperanto, organo dell’UEA, nel febbraio 1993).

Il problema della traduzione e il bilinguismo

Eco: La questione se sia possibile tradurre fra le lingue è un problema filosofico molto vecchio, ma finora è stato trattata in maniera abbastanza imprecisa. Ora per la prima volta nella storia si sta affrontando in maniera rigorosa questa questione.

Ritengo che per voi il problema della traduzione sia fondamentale, perché l’Esperanto può esistere solamente se si riconosce il principio che è possibile tradurre. Se esistesse una lingua perfetta, essa sarebbe il parametro per ogni possibile traduzione. Ma, in mancanza di questo parametro, la lingua veicolare può esistere solo se è possibile tradurre da una qualsiasi lingua a una qualsiasi altra lingua. In apparenza una lingua veicolare dovrebbe eliminare la traduzione, ma, al contrario, la traduzione è il principio stesso che giustifica la possibilità e l’esistenza di lingue veicolari.

Lo Jacomo: Ci sono proprio degli studi che provano che gli esperantisti in generale sanno più lingue straniere, rispetto alla media delle persone, e quindi sono anche più sensibili ai problemi della traduzione.

Eco: Ciò non mi sorprende. Chiunque abbia imparato una seconda lingua è più aperto all’apprendimento di una terza. Di ciò ho esperienza diretta coi miei figli, che sono bilingui. Per loro è molto facile imparare una terza lingua, anche se poi forse la dimenticheranno, ... C’è una certa apertura mentale alla molteplicità delle lingue.

Ertl: Si tratta di apertura mentale o di ruolo propedeutico delle lingue già apprese?

Eco: Una volta volli fare un esperimento in proposito. Un mattino domandai a mio figlio: “Cos’è questo?”

- Burro [in italiano]

- Ma non è anche Butter [= burro, in tedesco]?

- Sì infatti, rispose, è anche Butter.

Divisi il burro in due pezzi e dissi: “Quale dei due è burro e quale è Butter?”

- Sono tutti e due burro e Butter insieme.

Potei dunque constatare che per lui non c’è alcuna scissione della realtà.

Il sapere fin dalla nascita che le cose possono avere due nomi prepara mentalmente alla possibilità che possano avere anche un terzo nome.

In effetti sul bilinguismo attualmente si sa molto poco... Dato che ora le coppie bilingui stanno diventando, se non la norma, almeno una cosa del tutto normale nella società europea, forse avremo in futuro studi migliori sul bilinguismo.

Ertl: Si sta preparando un esperimento, all’Università La Sapienza di Roma, su una ventina di donne attualmente incinte, che daranno alla luce bambini che diverranno bilingui (con l’Esperanto e un’altra lingua).

Eco: Davvero? Tuttavia ogni forma di bilinguismo comprendente l’Esperanto spingerà questo in una posizione subalterna, perché sulla strada si parla la lingua dell’ambiente. Cioè è sbagliato il mito della lingua materna. Non è con la lingua della madre che s’identificano i bambini, ma con quella dell’ambiente, con la lingua della strada, della donna delle pulizie.

I miei figli, in Italia, hanno appreso dalla madre il tedesco, tuttavia la loro lingua, quando parlano tra loro, è l’italiano.

Lo Jacomo: Le lingue rispondono sempre a un certo bisogno di comunicazione. Si rifiuta una lingua, se questa viene usata in una situazione comunicativa in cui non ci sente a proprio agio.

Uno per il quale l’atmosfera della strada appare familiare tende automaticamente ad assumere la lingua della strada; se, per esempio, prova dei conflitti con i genitori, tende a rifiutare la lingua di casa... si tratta di situazioni note.

Oltre l’aspetto puramente linguistico, si devono considerare anche i sentimenti legati a una lingua. Da questo punto di vista l’Esperanto sembra diverso dalle altre lingue. Di solito l’apprendimento di una certa lingua significa il tentativo di integrarsi nel gruppo che la parla, mentre l’Esperanto lo si impara proprio per uscire dal gruppo nel quale si è immersi naturalmente.

Eco: Ma, d’altra parte, si può certamente essere legati affettivamente alla comunità esperantista. Nella vita spesso si creano particolari situazioni affettive: io continuo a parlare francese con quegli amici americani con i quali ho parlato in francese in occasione del nostro primo incontro.

Una volta dissi durante una mia lezione: “Un’interlingua sarà sempre solamente per rapporti pubblici, non sarà mai lingua materna” e aggiunsi anche scherzosamente: “Non si farà mai l’amore in una interlingua”. Ricevetti un bigliettino, un po’ imbarazzante, di una studentessa, che diceva: “Signore, lei ha torto. È possibilissimo fare l’amore in Esperanto: ...io lo faccio”. Non sapevo se si trattasse di una proposta...

Sì, se è vero che esiste un legame affettivo con la comunità esperantista, è possibile capire che gli esperantisti amoreggino in Esperanto.



Il ruolo dell’Esperanto

Ertl: Dunque, alcune persone sono emotivamente legate all’Esperanto. Ma altre forse lo temono. Si deve temere l’Esperanto?

Eco: No, io credo che nessuno tema l’Esperanto. L’atteggiamento generale è l’indifferenza...

Ertl: O meglio, l’ignoranza.

Eco: Sì, prendete me, per esempio. Fino a sei mesi fa me ne infischiavo dell’Esperanto. Veramente. Sebbene io sia un esempio di persona colta con molta curiosità, fu necessario che cominciassi a lavorare sulla Ricerca della lingua perfetta, il tema delle mie conferenze al “Collège de France”, perché arrivassi alle lingue internazionali.

All’inizio ritenevo che fosse impossibile rendere effettivamente usata una lingua artificiale, perché la storia ha dimostrato l’impossibilità di una tale utopia. Un’altra mia obiezione aveva origine dalle idee di Whorf, secondo il quale ogni lingua è anche una particolare concezione del mondo. Nessuna lingua può essere neutrale, perché la concezione del mondo che impone si confronta con le concezioni imposte dalle altre lingue.

Ma devo dire che, non appena per motivi scientifici ho cominciato a occuparmi un po’ di Esperanto, ho cambiato la mia posizione e ho preso un atteggiamento più flessibile.

Il fatto che nella storia non si sia mai riusciti a far usare una lingua artificiale è certamente un argomento molto forte, ma non decisivo. Proprio allo stesso modo si è dimostrato che non era possibile andare sulla Luna! Il principio che non fosse possibile introdurre nell’uso una lingua artificiale era valido fino a ieri, ma domani la situazione potrà cambiare. Vedete l’Albania: nel giro di una generazione gli italiani senza volerlo hanno insegnato l’italiano agli albanesi, semplicemente perché questi ultimi erano esposti ogni sera alla televisione italiana. I giovani di oggi parlano più o meno bene l’inglese per la potenza dei mezzi di comunicazione di massa. Viviamo in un momento storico in cui è più facile fare accettare le lingue, anche una lingua artificiale.

Del resto l’artificialità dell’Esperanto non è uno svantaggio. Prima di avere idee più chiare sull’Esperanto anch’io ero disturbato dalla sua artificialità. Ma, in effetti, se non sapessi che si tratta di una lingua artificiale, avrei potuto crederla naturale.



L’egoismo dei governi


L’altro argomento che valeva contro qualsiasi lingua internazionale, citato a cominciare dal filosofo Fontenelle, era quello dell’egoismo dei governi, che non hanno interesse a sostenere una lingua internazionale, perché preferiscono diffondere la propria lingua. Ebbene, proprio oggi l’egoismo dei governi potrebbe spingerli ad appoggiare l’Esperanto. Perché?...

Vedo quello che succede attualmente in Francia: si parla continuamente della pericolosità dell’inglese, ma il fantasma che effettivamente ossessiona i francesi è il tedesco. Presto saranno disposti a sostenere una lingua veicolare, solo per ostacolare il rafforzamento di un’altra lingua. Da allora la resistenza delle istituzioni potrebbe venir meno.

Resta per me ancora un’importante obiezione. Cioè che ogni lingua parlata è sottoposta a mutamenti, quindi, se una lingua internazionale si diffonde, rischia di cambiare - oppure al contrario di diventare troppo controllata, come il francese classico...

Questa è una contraddizione di base, ma, in mancanza di esperienza storica, non si può affermare nulla in proposito. Bisognerà che dieci milioni di giapponesi comincino a parlare l’Esperanto per poter giudicare se l’Esperanto giapponese diverrà un dialetto o no.

Ertl: Ma proprio su ciò c’è la tesi di François Lo Jacomo, Libertà o autorità nell’evoluzione dell’Esperanto, che descrive i due poli dell’evoluzione.

Eco: Sì, ma il problema potrà cambiare radicalmente, in modo imprevedibile, quando avrete un miliardo anziché un milione...

Ertl: Come lei ha detto, dietro a ogni lingua c’è una certa visione del mondo. A suo parere, questo è valido anche per l’Esperanto? Non è questo, piuttosto, un luogo d’incontro di diversi modi di vedere il mondo, un crocevia della comunicazione?

Eco: Non sono in grado di risponderle, perché non parlo l’Esperanto, sebbene ne abbia studiato la grammatica. Come e quanto una lingua contribuisce a formare una visione del mondo, questo lo si può constatare solo mentre s’impara tale lingua.

In via di principio potrei accettare che una lingua mista, che ha preso strutture lessicali e sintattiche da diverse lingue, possa ridurre le particolarità delle visioni del mondo delle lingue fonti. Ma, se si tratta di una lingua seria (voglio dire: di un universo linguistico autonomo), suppongo che anch’essa in qualche modo imponga una qualche propria visione del mondo.

Tuttavia non occorre esagerare con l’argomento di Whorf. Abbiamo sentito a sazietà la storia degli eschimesi che hanno quattro parole per dire neve. Ebbene, se lei spiega a un eschimese che per lei si tratta della stessa neve, egli capirà benissimo. Sì, una lingua definisce il pensiero, ma fornisce sempre anche la possibilità di uscire dalla lingua stessa oltrepassandone i limiti. Probabilmente l’80-90% di coloro che conoscono Guerra e pace di Tolstoj hanno letto il romanzo in traduzione. Malgrado ciò esso ispirerà a un lettore giapponese e a uno svedese idee e reazioni molto simili.

Questo non risponde alla sua domanda...

Ertl: Ma ancora da un punto di vista teorico, lei è d’accordo sul fatto che la lingua internazionale dovrebbe idealmente essere un luogo neutrale d’incontro, adatto a interpretare diverse visioni del mondo?

Eco: Sì, questo mi sembra praticamente possibile. Sebbene io insista sul fatto che ogni lingua, e quindi anche l’Esperanto, rappresenti una propria visione del mondo, tuttavia ritengo anche che l’Esperanto possa diventare un crocevia, una specie di Hong Kong delle lingue. Per le città, allo stesso modo che per le lingue, è normale che la grande frequenza delle relazioni internazionali dia luogo a una grande possibilità di contatti con diverse culture.

Lo Jacomo: Mentre di solito le lingue impongono una loro visione del mondo, io mi domando se nel caso dell’Esperanto non sia la visione del mondo a spingere a imparare la lingua.



La “religione” dell’Esperanto


Eco: È proprio questa una delle mie scoperte degli ultimi sei mesi. Devo riconoscere che, rispetto agli altri progetti di lingua internazionale, dietro l’Esperanto c’è un’ideologia, il che spiega perché esso abbia tenuto, mentre gli altri hanno fallito. Esiste una “religione” dell’Esperanto che spinge le persone a imparare e parlare la lingua, mentre non esiste una “religione” del Volapük o dell’Ido. L’inglese lo si impara attualmente per motivi pratici. Ma possono esserci delle spinte ideali che fanno decidere di imparare una lingua, e sono forti.

Lo Jacomo: L’Esperanto si può considerare a diversi livelli: in primo luogo, come progetto; in secondo luogo, come lingua che ha oltrepassato la fase di progetto e si è evoluta; infine, è possibile considerare tutto quello che è legato sociologicamente e psicologicamente all’Esperanto, ciò che può essere chiamato il fenomeno Esperanto. Quale di questi aspetti la interessa?

Eco: È un po’ difficile per me rispondere. L’Esperanto potrebbe un giorno interessarmi per il suo meccanismo linguistico. Ma fino ad ora non mi sono dedicato abbastanza a questo lavoro. Diciamo che soprattutto la sua storia e la sua ideologia mi sembrano fenomeni interessanti: questi sono il suo lato sconosciuto. La gente percepisce l’Esperanto solo come uno strumento che viene proposto, e non sa nulla dello slancio ideale che lo anima. Ma io sono stato più affascinato dalla biografia di Zamenhof che dalla grammatica di Migliorini. Dovreste far conoscere di più quest’aspetto! Perché non è mai stato fatto un film su Zamenhof? Il lato storico-ideologico dell’Esperanto resta del tutto sconosciuto.

Ertl: Ma bisogna anche dire che non è necessariamente un’ideologia a far sì che si diventi esperantisti. La nostra identità è costituita da parecchi fattori, non tutti riscontrabili in ogni esperantista.

Eco: Ho usato la parola ideologia in senso molto largo: un insieme di idee, di opinioni... Volevo piuttosto dire quello che gli inglesi e gli americani chiamano philosophy, la filosofia di un’impresa, come di un’associazione di giovani esploratori... Dunque, un qualche orientamento generale. Senza di ciò, per esempio voi non avreste le vostre riviste - ci sarebbe solo un commercio di grammatiche, e basta. Persino l’idea di tradurre tutte le opere della letteratura mondiale è ideologica, non utilitaria. Per quanto ho potuto constatare, spesso si tratta di autori di secondo piano. Ho visto che sono stati tradotti Giacosa o De Amicis, e non mi dite che il mondo ne aveva bisogno.

Lo Jacomo: Perché gli esperantisti usano la loro lingua per far conoscere la loro identità a tutto il mondo, attivamente. Ognuno traduce le opere che egli stesso ritiene importanti. È un modo di esprimersi.

Eco: Lei mi ha rivelato una cosa molto interessante... e molto ideologica! Dunque, si traducono Giacosa e De Amicis non solo per mostrare che la lingua è capace di tradurre tutto, ma perché si deve dare a tutti la possibilità di parlare. Questo è filosofico. Purtroppo solo gli esperantisti se ne giovano.

Ertl: In alcuni casi, però, la traduzione in Esperanto è servita come ponte per, ad esempio, traduzioni in cinese. Del resto il fatto che si traduce molto dalla propria lingua in Esperanto è un argomento di ricerca molto interessante. Dato che le norme dell’Esperanto sono meno rigide di quelle delle altre lingue e che si tratta di una lingua più flessibile, nelle mani di un buon traduttore essa ricrea più facilmente lo stile dell’originale.

Eco: Ma mi dica, se leggo un testo in Esperanto pensato in un’altra lingua, questo non mi darà l’impressione di essere scritto male?

Ertl: Questo dipende specialmente dalle capacità del traduttore - e, più in generale, dalla distribuzione sociolinguistica degli esperantisti. Alcuni usano un buono stile, altri sono più influenzati dagli schemi della propria lingua.

Lo Jacomo: La tolleranza linguistica svolge un ruolo importante in Esperanto. Direi che esistono diversi livelli di comprensione, di esattezza linguistica. Evidentemente, quanto più elevato è il livello, tanto più si è consapevoli delle sottigliezze, tanto più accuratamente ci si esprime. Non so cosa ne pensi lei...

Eco: Vengo a sapere cose nuove. È un’intervista interessante, nella quale l’intervistato ha molto poco da dire.

Ertl: Diventerà una cattiva intervista.

Eco: Però è stato un dialogo molto interessante. Per esempio, non avevo mai pensato alle differenze stilistiche o ai gradi di tolleranza di cui avete parlato.

Voi sapevate, venendo da me, di non potervi attendere mirabili rivelazioni da una persona che non parla l’Esperanto.

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