Stralcio della conferenza inaugurale del prof. Humphrey Tonkin, Università di Hartfort, USA, al Congresso Esperantista Europeo a Verona, 24 agosto 2002

Quando molti anni fa si iniziò ad introdurre sistematicamente la lingua francese quale lingua governativa nel Québec (Canada), gli anglofoni sollevarono molte proteste. Perché si vuol cambiare la condotta degli uomini per legge, ci si domandò. Non si comprende che cose così individuali quali l'utilizzazione di lingue non si possono modificare per legge?

E' già trascorsa una trentina d'anni dall'inizio delle contestazioni linguistiche nel Québec. Una cosa si è subito imparata da quelle discussioni: le leggi sono necessarie per proteggere i deboli, non per confermare il potere dei forti; la politica linguistica è necessaria non per sostenere i privilegi già esistenti, ma per concedere i diritti a coloro, i quali in precedenza non ne avevano. Nel Québec attualmente la situazione linguistica è assolutamente diversa da quella che era cinquant'anni fa.

 


Concetti simili sull'inutilità di nuove leggi sono stati espressi sulle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti negli anni 50 60. Cose simili sono state dette delle leggi contro la discriminazione delle donne in molti Paesi.

Oggi in Europa, così come nel Québec trent'anni fa, si rischia di seguire una strada simile quando si tratta dell'uso della lingua. Una razionale politica linguistica tra gli Stati - membri occupa nella scala delle priorità una posizione ridicolmente bassa. La pratica attuale, secondo cui teoricamente tutte le lingue degli Stati - membri si trovano su un piano di uguaglianza (benché in pratica alcune lingue siano più eguali di altre), non solo non funziona adeguatamente, ma è spesso ignorata nella pratica.
Difficilmente un autore in lingua danese od olandese riesce a concorrere con quelli delle lingue maggioritarie; difficilmente l'industria editoriale, cinematografica, il teatro e quasi tutte le altre forme di espressione dell'arte umana, riescono a sopravvivere sotto il diluvio continuo dei prodotti culturali dei maggiori Paesi. Guardate quello che la gente legge in un treno olandese od in un aeroporto danese: sempre più sovente si leggono romanzi in lingua inglese, sempre più i prezzi dei prodotti culturali danesi crescono in modo tale da non poter essere concorrenziali. E se in Francia od in Germania si leggono soprattutto opere in lingua francese o tedesca, purtroppo spesso le opere che si leggono sono traduzioni dall'inglese: persino le cosiddette lingue maggioritarie iniziano a rinunciare alla propria indipendenza davanti agli effetti dell'inglese.

Sì, cari congressisti, il gioco cambia profondamente e soprattutto per il quasi criminale abbandono del problema linguistico da parte degli Stati un po' più forti. Ma oggi non si tratta più di lingue minoritarie come il danese o l'olandese, obbligate a cedere davanti a un gruppo di lingue potenti il francese, il tedesco, l'inglese, eventualmente lo spagnolo, l'italiano: ora si tratta del fatto che il francese e il tedesco e le altre lingue perdono la propria influenza nei confronti di una sola lingua: l'inglese. Il francese di oggi è il danese di ieri; il tedesco di oggi è l'olandese di ieri, ed essi si avviano ad un destino simile.


Nonostante questa continua erosione della posizione del francese e del tedesco e delle altre grandi lingue (ad eccezione dell'inglese) in Europa, i governi non comprendono ancora appieno la situazione. La lingua inglese ed i suoi prodotti culturali cinema, televisione, musica inondano rapidamente i loro territori culturali, così che intere aree dove prima regnavano il francese o il tedesco, sono ora colonizzate dall'inglese la scienza, ad esempio; in generale l'educazione di livello superiore; la programmazione televisiva; il software dei computer: si tratta di una elencazione quasi infinita. Il punto non è che una lingua domina le altre (anche se questo in effetti avviene), ma che una serie di prodotti si accaparra l'economia culturale precedentemente pluralista, quindi che quella lingua spinge sempre più i prodotti culturali delle altre in una posizione marginale. La lingua è sinonimo di potenza; la potenza si manifesta nell'impossessarsi dell'indipendenza, della libertà estetica, e perfino dell'economia.

Così come gli anglofoni di Montreal hanno opposto resistenza all'applicazione di leggi sui problemi linguistici, o i bianchi dell'Alabama hanno opposto resistenza all'applicazione di leggi su questioni razziali, così i parlanti della lingua inglese sono contenti di lasciare che l'attuale regime linguistico a Bruxelles ed a Strasburgo percorra sempre più la strada della discriminazione.

La soluzione a questo problema non sta più nel vano sforzo di insistere sui diritti linguistici dei francofoni e dei germanofoni: questa battaglia è già stata persa, e queste lingue diventano sempre più regionali, sempre più neglette da coloro che insistentemente usano l'inglese come unica lingua. L'unica possibilità in grado di conservare l'Europa delle diversità culturali è una collaborazione sistematica di tutti i partiti attorno a soluzioni che contemporaneamente conservino la pluralità linguistica e la introducano dove essa è necessaria. Questa soluzione dovrebbe implicitamente significare che gli anglofoni studino altre lingue. L'esperanto, lingua neutrale, sperimentata da oltre cento anni, pienamente espressiva e flessibile, sta davanti al naso dei solipsisti che combattono tra di loro, ed essi la ignorano.