Tazio Carlevaro

Vi ringrazio per avermi invitato a parlare su lingua e pace come processo autoregolatore, nel quadro della Vostra riunione d'insegnanti federalisti. Ho accettato, sebbene non sia un insegnante, perché desideravo presentarVi questa particolare concezione di processo dinamico, e proprio perché siete insegnanti, federalisti, e interessati ai problemi linguistici.

Voi sapete infatti che il problema della pace è stato troppo sovente visto in un modo assai unilaterale:

- o come una predicazione messianica che richiede da chi ascolta una vera e propria metanoia;

- oppure come una meccanica trasformazione dovuta all'influsso preponderante delle circostanze mutate: dal punto di vista marxista, dalla trasformazione socialista o magari comunista dell'economia; da un punto di vista religioso, dall'accettazione d'una religione universale: dal punto di vista linguistico, dall'accettazione d'una lingua universale.

Invece, se esaminiamo i paesi e le rare regioni del mondo che da anni vivono in pace, ci rendiamo conto del come la pace, ossia la convivenza pacifica, sia piuttosto un processo autoequilibrantesi di natura storica. Esso si sviluppa e si trasforma nel tempo, e funziona in base a forze che si pongono in equilibri stabili, o in disequilibrio.

In una visione dinamica, ossia cibernetica, dovremmo scorgervi:

-elementi determinanti interni (forze in equilibrio sistemico);

-elementi determinati interni (risultati dell'equilibrio sistemico delle

forze);

-elementi di input (che richiedono processi interni di assimilazione e di accomodazione), e

- processi di output, che sono i risultati dei meccanismi d'equilibrazione.

Tale concezione è sufficientemente meccanica per non cadere nella mitologia. È però sufficientemente polivalente per non cadere nella monomania. E accoglie anche il contributo del singolo, e anzi, lo richiede e lo provoca.

Voi sapete che so l'esperanto: è per questo che i problemi della pace non mi sono stranieri: infatti essi sono tra gli elementi traenti del pensiero culturale organicamente legato al movimento esperantista, e che riguarda la convivenza. Da circa cento anni pensatori quali Ludovico Lazzaro Zamenhof, Gaston Moch, Bertha Von Suttner, Edmond Privat, e moltissimi altri, si sono occupati di queste relazioni di convivenza, studiando il ruolo della tolleranza, della lingua, del federalismo. della religione, dei partiti politici.

Ho detto prima che è possibile esaminare gli equilibri linguistici negli Stati ove essi esistono, e trarne conseguenze concettuali ed operative circa:

- l'economia politica (intesa come Staatswissenschaft); - l'economia (intesa come Wirtschaftswissenschaft); - la psicologia e la sociologia,

e quindi, di conseguenza,

- la politica della lingua e la politica dell'educazione.

Storicamente, i conflitti linguistici sono sorti prepotentemente in Europa nel XIX e nel XX secolo.

In precedenza sappiamo invece che i conflitti (sia nazionali che internazionali) erano piuttosto legati alla:

- religione (un vero e proprio simbolo dell'appartenenza ad un gruppo unitario);

- alle classi sociali (tra detentori del potere e dipendenti); - al tipo di organizzazione (città/campagna);

- all'idea politica (radicale/conservatore).

Invece, nel XIX secolo:

- l'educazione si è generalizzata;

- i traffici e i commerci in aumento hanno determinato il proliferare di mezzi di comunicazione, con l'apertura di innumerevoli vie di comunicazione, che hanno reso possibile e accompagnato la crescita produttiva impressionante del settore industriale, e il miglioramento del settore primario, che pur perdendo d'importanza sul piano demografico, è riuscito malgrado tutto a fare fronte in un modo massiccio alle richieste

provocate dall'aumento della popolazione; in altre parole, c'è stata una crescita industriale accompagnata da una sana crescita qualitativa e quantitativa del settore primario.

- Ma la crescita della produzione industriale e quella del settore primario non è stata possibile senza un accrescimento massiccio del settore terziario, che nel secolo scorso era pressoché assente, o quantomeno concentrato nelle agglomerazioni urbane. Ora, il funzionamento specifico del settore terziario è basato sull'utilizzazione della comunicazione. È così che la società (la Gesellschaftsgefüge), da compagine monolitica, ossia relativamente poco articolata (se non secondo le articolazioni classiche viste sopra), è diventata un sistema d'istituzioni profondamente correlate da comunicazioni, e profondamente differenziate internamente, sempre però in comunicazione reciproca. Una buona fetta del terziario, anzi, ha una funzione fondamentalmente decisionale: probabilmente oltre la metà di coloro che hanno a che fare col settore terziario fanno parte della compagine dello Stato o ne sono in un qualche modo connessi. Il linguaggio qui non è soltanto un mezzo di comunicazione, ma è anche uno strumento di prestigio per quello che esso rappresenta.

Ne è nato il mito dello:

- Stato uninazionale omogeneo, che si oppone ad una società eterogenea. La lingua diventa bandiera e simbolo dello stato unitario accentratore, che si oppone alla realtà storica regionale. In questo modo lo stato viene identificato alla società civile, diventandone l'elemento traente.

Si pone allora un problema:

- possono insorgere, nelle compagine sociale, delle tensioni sociali, delle rivolte, in seguito a momenti di evidente inadeguatezza, per esempio a disfunzioni amministrative, o a ingiustizie. Molto spesso, specialmente a partire dal XIX secolo, queste lotte avvengono sotto una bandiera linguistico-nazionale, tuttavia un attento esame permette di capire che il conflitto non è mai esclusivamente linguistico.

Noi vediamo dunque come:

- la pace linguistica è inscindibile dalla pace generale: la pace linguistica, e quella generale, sul piano concettuale si basano su condizioni oggettive (equilibrio di forze) e soggettive (coscienza di volere la pace, e di operare in questa direzione).

Ci possiamo chiedere allora come funzioni l'equilibrio di forze che permette lo stabilirsi di condizioni oggettive e soggettive in favore della pace generale.

Dobbiamo dapprima abbandonare la mitologia dello stato identificato con la compagine sociale. In realtà, la società è una realtà multidimensionale che funziona come un sistema complesso, in cui si articolano realtà sociologiche diverse, che chiameremo "clivaggi".

Esistono vari tipi di clivaggio:

-il clivaggio religioso;

-il clivaggio sociale (inteso come clivaggio di classe, ossia di relazione col potere):

-il clivaggio urbano (città/campagna);

-il clivaggio professionale (qualità del lavoro);

-il clivaggio ideologico (sovente partitico);

-il clivaggio basato sulle diverse abitudini storicamente ereditate ("razziale").

Questi clivaggi non si escludono vicendevolmente, ma, anzi, possono assommarsi. Una semplice considerazione della legge degli equilibi sistemici ci informa che quanti più clivaggi confluiscono in un gruppo, tanto maggiormente rilevante sarà il peso di quest'insieme di clivaggi nella compagine sociale.

Possono quindi generarsi delle tensioni nel sistema, che, se non sono gestite in modo adeguato (ossia se si gestiscono in modo grupposintonico invece che socio-sintonico), possono accrescersi, e venire infine politicizzate. ossia vissute coscientemente come elemento di rivendicazione e di lotta. Si tratta di una conseguenza inevitabile, che merita d'essere compresa, e in cui, a mio giudizio, lo Stato dovrebbe avere un ruolo di mediatore (ossia recepire i conflitti in modo sociosintonico, non grupposintonico).

Si tratta di un ruolo che lo Stato può avere solo a condizione di essere uno Stato democratico, che s'identifica con l'insieme della società, e che vive la propria missione nella pacificazione di queste lotte insorgenti (peraltro inevitabili).

Si tratta di un ruolo che lo Stato ha soltanto nella società democratica dell'Europa occidentale.

È vero che lo Stato è una delle espressioni formali della compagine sociale, ma né la può sostituire, né la può interamente rappresentare, se esclude eventuali clivaggi minoritari della compagine sociale stessa. Lo Stato democratico ha alcune caratteristiche "strutturali" proprie:

-lo Stato deve sopravvivere nel tempo (legge della durata);

-deve sopravvivere in modo democratico (legge della legittimazione);

-dev'essere efficace negl'istrumenti politici (legge della decisionalità);

-deve garantire l'ordine interno (legge della mediatività); -----deve garantire la sicurezza esterna (legge della difesa).

Il fatto che lo Stato sostenga un gruppo di clivaggi determina uno stato di ineguaglianza fattuale che, percepito dai soggetti politici, causa la percezione d'un sentimento di carenza, e poi l'individuazione della natura della carenza in quanto tale; infine questa carenza provoca la messa in moto di meccanismi d'ostilità, e finalmente lo scoppio del conflitto sociale, e eventualmente della lotta armata.

Questa percezione del sentimento di carenza e la sua progressiva concretizzazione verso meccanismi d'ostilità e di conflitto si basa su alcuni meccanismi psicologici, che chiameremo "stereotipi"; esistono: - l'autostereotipo, ossia l'opinione del soggetto politico circa se stesso come membro di un clivaggio;

- l'eterostereotipo; ossia l'opinione circa il soggetto politico espressa dai membri d'un altro clivaggio;

- l'eterostereotipo proiettivo, ossia l'opinione che il soggetto politico si fa circa l'opinione che soggetti d'altri clivaggi si fanno su di lui.

Il compito dello Stato democratico è quindi quello di mediare in questo conflitto, e non quello di favorire l'uno o l'altro dei gruppi di clivaggi; altrimenti lo Stato opera contro il principio di legittimazione. Per questo lo Stato deve disporre di una propria mediatività e di una decisionalità.

D'altro canto, i conflitti linguistici non sono mai solo linguistici: tutti gli elementi, ossia tutti i clivaggi, devono essere considerati nell'analisi, ed opportunamente mediati.

La mediatività non è niente senza la decisionalità, che è la tecnica della presa di decisione una volta trovato il compromesso, decisioni che abbiano però un fondamento sociale ed economico realistico. In altre parole, si tratta di una messa in opera del consensus, calcolati costi e svantaggi, sovente inevitabili e magari pesanti, ma certamente utili all'insieme degli scopi dello Stato.

Le scelte dello Stato democratico sono numerose: -centralizzazione versus federalismo;

-imposizione versus compromesso;

-unità monoclivate (ossia - pure - versus unità pluriclivate, ove sussistano dei meccanismi mediativi).

In altre parole, se riportiamo queste scelte al problema della diversità linguistica, uno Stato può basarsi sul principio dell'unità linguistica, in cui vengono considerate l'esistenza delle minoranze linguistiche, oppure basarsi sul principio della territorialità linguistica, in cui l'organizzazione vera e propria della realtà linguistica venga ammessa nella sua storicità, la cui gestione è delegata almeno in parte a organizzazioni locali. Queste due possibilità, di cui probabilmente la seconda sembra essere più operativa nella protezione dei diritti delle minoranze, richiede però anche un aiuto tecnico, finanziario e scolastico alle lingue minoritarie, aiuto che dev'essere molto maggiore quanto più ristretta è l'incisività della minoranza linguistica nella compagine sociale.

Vi chiederete che scopo abbia con queste mie considerazioni, tuttavia penso che lo sappiate:

- siete educatori, ma dovete educarvi, siccome per esempio il principio della territorialità può comportare dei sacrifici importanti non soltanto a livello dello Stato., ma anche a livello dei singoli cittadini che si spostano sul territorio dello Stato stesso;

- siete anche federalisti: spero però non del tipo di federalismo come a volte viene presentato, ossia a favore d'una federazione di gruppi monolingui, oppure d'una federazione di entità storiche, come gli Stati nazionali, in cui peraltro continuino i vecchi sistemi di oppressione linguistica.

E gli esperantisti in questo che cosa hanno da dire? Per poter rispondere, dobbiamo considerare che l'esperanto è un progetto culturale. Voglio dire che il movimento esperantista è uno strumento fondamentalmente educativo: nella mia ricerca ho evidenziato come la tolleranza venga applicata come strumento trasmesso dal vertice dell'organizzazione dello Stato, sempre più in giù, verso le realtà locali, verso il livello comunale. Dal livello comunale lo strumento della ricerca del consenso viene passato al singolo. È così che la tolleranza dev'essere insegnata al singolo come un comportamento pratico, e non solo come un'attitudine teoretica. L'esperanto è importante proprio come strumento di educazione alla tolleranza pratica, e il suo movimento è una palestra di questa attitudine.

Inoltre l'esperanto è lo strumento linguistico che rende possibile oggigiorno la territorialità linguistica senza sacrificare all'estremo chi dovrà accettarla in un senso o nell'altro.

L'esperanto è quindi lo strumento per una politica mediatrice: -nella lettura della nostra situazione presente;

-nell'interpretazione del nostro passato;

-nel progetto d'una futura gestione dei conflitti sociali e linguistici.

Se è sostenuta da un'adeguato bagaglio analitico, questa visione cibernetica della mediatività dello Stato, ossia della tolleranza elevata a instrumentum regni, non è volontaristica: infatti nel concetto sistemico di equilibrio è possibile un input anche da un sottosistema interno (nel caso specifico come espressione della volontà umana). D'altro canto, nel contesto politico, conta la coscienza della missione da compiere, che è un elemento traente dell'educazione dell'uomo (Sendungsbewusstswein).

In fondo, il concetto di tolleranza come pratica attiva, sviluppato per esempio da Edmond Privat, deriva da una pratica sociale necessaria, da lui opportunamente meditata e riflessa. In altre parole, essa è l'espressione riflessa, ossia individualizzata, di un disegno sociale collettivo, ossia della mediazione attiva alla ricerca d'un compromesso tra clivaggi in tensione. Questa operatività della mediazione attiva determina l'accettazione di responsabilità all'interno di un piano decisionale, e la messa in atto di scelte politiche, economiche e culturali. La scuola può insegnare all'individuo l'uso degli strumenti per l'analisi della conflittualità; l'esperanto rappresenta per l'individuo un importante strumento tecnico-pratico, la lingua, oggi elemento traente dei conflitti d'identificazione nello Stato moderno per via della sua importanza (del potere che rappresenta) nella comunicazione.

La ricerca della pace è quindi oggi vieppiù un mosaico, di cui certamente né l'economia sola né la linguistica sola né la psicologia sola possono fornire una visione globale né tantomeno un apporto definitivo. E soltanto l'interazione di tutti questi campi che può farci avanzare in una ricerca che abbia un impatto anche operativo.

Categoria: Approfondimenti
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