Lingue e linguaggio incidono in modo decisivo sulle modalità di interazione personale e quindi sulle più basilari forme di relazione giuridica ma non possono essere considerati alla stregua di beni giuridici in senso stretto. Le questioni linguistiche, in generale, possono fondarsi sulle prescrizioni delle carte costituzionali o internazionali, ma nel ragionare su di esse si deve dare conto che le lingue sono sempre qualcosa di più di un mero strumento di comunicazione. Esse costituiscono un marcatore dell’identità individuale e collettiva e, attraverso la loro pragmatica, si configurano come vere e proprie istituzioni culturali. Inoltre, le leggi linguistiche e le norme giuridiche raramente vanno di pari passo. Le lingue non rispettano i confini territoriali di uno Stato; non si fermano alle frontiere, ma le attraversano in modo immateriale, anche senza essere portate dalle persone che le parlano. Sebbene, in condizioni di isolamento, lingue differenti possano convivere le une accanto alle altre per secoli, nel caso di circolazione di persone, scambi commerciali o lavorativi, di rapporti familiari tra gruppi linguistici diversi le lingue più “deboli” saranno lentamente ma inesorabilmente soppiantate da quelle più “forti”, ovvero quelle che le persone hanno più incentivo a parlare o opportunità ad imparare a causa del loro maggiore prestigio o della loro più ampia diffusione.  

Tali assunti, che da un punto di vista sociolinguistico potrebbero apparire delle ovvietà, possono costituire il punto di avvio di un cortocircuito normativo senza precedenti in Italia. Una recente sentenza (TAR Lombardia, 25 maggio 2013, n. 1348) ha sollevato un intenso dibattito circa la qualificazione della lingua italiana come lingua ufficiale dello stato. Nel dettaglio, il tribunale amministrativo lombardo ha annullato una delibera del Politecnico di Milano, impugnata da diversi docenti dell’Ateneo, che imponeva, in vista dell’internazionalizzazione dell’istruzione e della ricerca, l’insegnamento per i corsi di laurea magistrale e i dottorati esclusivamente in lingua inglese. Tra l’altro, la decisione in questione configurava, traendola indirettamente dall’art. 6 della Costituzione, l’ufficialità della lingua italiana come principio cogente e imperativo dell’ordinamento; riteneva che tale qualifica determinasse il primato della lingua italiana in ogni settore della vita dello Stato, anche di là da specifiche disposizioni di tutela; specificava che tale primato spettasse all’italiano soprattutto rispetto ad altre lingue straniere prive di disposizioni di salvaguardia; chiariva che tale primato giuridico andasse riconosciuto non in modo fine a sé stesso, ma in maniera da garantire la conoscenza e la diffusione dei valori che ispirano lo Stato italiano.

Leggi l'articolo di Giancarlo Anello - confronticostituzionali.eu