25.09.2004 ApOnLine
Bruxelles cancella la lingua italiana
Una denuncia del Comitato Allarme Lingua nella Giornata delle lingue Europee

La rappresentante a Bruxelles del Comitato Allarme Lingua, Anna Maria Casagrande, ha inviato una lettera agli europarlamentari italiani, in occasione della Giornata delle Lingue Europee (26 settembre), con la quale denuncia una sconcertante manovra per eliminare la lingua italiana dal consesso della UE. Lo riferisce “Dis-Espresso”, supplemento dell’Agenzia esperantista “Disvastico”, diretta dal collega Giorgio Bronzetti.
La Sig.ra Campogrande, funzionaria della Commissione europea, segue con molta attenzione – ed apprensione, specialmente in questi giorni di cambiamento dei commissari – gli sviluppi del dibattito sulle lingue di lavoro da utilizzare nell’Unione europea e nutre fiducia che i politici italiani si mobilitino per chiedere al neo Presidente della Commissione Barroso, prima che sia troppo tardi, delle garanzie per l’italiano e per il multilinguismo.


La situazione linguistica, in seno alle istituzioni europee è delle più gravi. Il “Gruppo Antici” del Consiglio sta studiando, in gran segreto, un modus vivendi linguistico in vista delle nuove adesioni, sulla base del documento della presidenza danese, che non aveva trovato alcun consenso in seno al Consiglio Europeo. Le voci che trapelano sono delle più inquietanti, per tutti, ma in maniera del tutto particolare per l’Italiano che è la lingua di uno dei quattro grandi Stati Membri dell’Unione e Membro Fondatore della Comunità Europea insieme a Francia e Germania.
Corre voce, negli ambienti comunitari di Bruxelles, che l’orientamento del gruppo di lavoro sarebbe quello di consacrare, sulla carta, un sistema basato su tre lingue: francese, inglese e tedesco e che questo nodo centrale sarebbe accompagnato da misure, tra le più antidemocratiche e tra le meno “comunitarie” immaginabili, le quali, predisporrebbero dei contingenti di traduzione-interpretazione per ogni Stato Membro aldilà dei quali ognuno dovrà pagarsi le proprie traduzioni-interpretazioni, trasformando, in tal modo, questi servizi in una specie di shopping-center à la carte.
Un sistema linguistico di questo tipo occulta completamente la dimensione politica dei Servizi linguistici che invece di essere considerati uno strumento di democrazia, al servizio dei cittadini europei, vengono equiparati a dei servizi di manovalanza, trascurando il fatto evidente che l’Unione Europea ha bisogno urgente di una politica linguistica degna di questo nome. Nel sistema, in fase di costruzione, quello che colpisce di più è che questo farà pesare sui Paesi più deboli, e su quelli che non saranno riusciti ad imporre la loro lingua, come lingua di lavoro effettiva, i costi dei servizi di traduzione e di interpretazione, salvo consentire l’uso esclusivo delle tre lingue con grave danno della partecipazione effettiva e concreta, di questi Paesi, al processo di integrazione europeo. Si noti, come ironia finale del sistema, che alle spese per l’uso delle tre lingue contribuiscono tutti i paesi dell’Unione. Gli italiani, quindi, pagheranno perché la loro lingua non sia usata e poi pagheranno di nuovo per avere la traduzione in italiano. Apparentemente, gli ambienti italiani non avrebbero niente da eccepire sulla messa in opera di questo sistema allorché le condizioni imposte all’Italia appaiono talmente inique che costituiscono una ragione valida, tra le più pertinenti, per ritirarsi dall’Unione.
Nessuno finora ha, infatti, spiegato alle autorità italiane, e soprattutto al popolo sovrano, secondo quali criteri la Commissione Prodi abbia ritenuto come lingue di procedura: il francese, l’inglese e il tedesco, che sono le lingue di tre dei quattro “grandi” dell’Unione, lasciando da parte l’Italia che è il quarto. L’Unione ha infatti solo quattro grandi Paesi e l’Italia è uno di questi. L’Italia è inoltre Membro Fondatore della Comunità Europea e, a questo titolo, depositario del progetto originario. Se il criterio di selezione è quello demografico, che sarebbe il solo ad avere un minimo di legittimità, insieme a quello dell’appartenenza al gruppo fondatore, l’italiano non può non far parte della rosa delle lingue prescelte. Ma Bruxelles tace, le decisioni che si prendono nel settore linguistico sono tra le meno trasparenti.
C’è da chiedersi se Ie autorità di Bruxelles non considerino gli Italiani cittadini di minor peso dei Francesi, dei Tedeschi e dei Britannici. C’è anche da chiedersi se questi fatti, accompagnati dalle politiche nazionali relative alla pubblica istruzione, non segnino l’inizio ufficiale della colonizzazione linguistica e culturale dell’Europa con il beneplacito dei nostri politici, di ogni bordo, e dei nostri Ministri.
A questo appello Anna Maria Campogrande ha unito la lettera che Giorgio Bronzetti ha inviato, come coordinatore del Comitato Allarme Lingua, a gennaio, al responsabile dell'Amministrazione dei Servizi Linguistici Neil Kinnock, allora anche vice presidente della Commissione europea, per protestare della decisione di ridurre a 3 le lingue di procedura (francese, tedesco e inglese) in discordanza con la lettera e lo spirito dei Trattati. Si chiedeva che la Commissione prendesse atto di questa situazione discriminatoria nei confronti dell'Italia e vi ponesse rimedio inserendo l'italiano tra le lingue di procedura e di lavoro effettive della Commissione.
Nella risposta del capo gabinetto della Commissione si affermava:
“Come Lei sa, la Commissione decide all'inizio di ogni mandato quali sono le lingue di lavoro che saranno poi utilizzate per il periodo del mandato stesso. Questa decisione viene generalmente presa in seguito a proposta formulata dal Segretariato Generale della Commissione, che dipende dal Presidente della Commissione Europea” e si trasmetteva quindi la lettera di Allarme Lingua ai servizi competenti.
Nella successiva lettera inviata in aprile a Bronzetti il Capo unità Lars Mitek, del Segretariato Generale della Commissione europea, sosteneva che tutte le lingue citate nel regolamento n. 1 del 1958 sono lingue ufficiali e di lavoro che hanno pari diritto a essere utilizzate e che nessuna decisione limitativa a tre delle lingue di lavoro fosse stata presa tranne per i documenti presentati al collegio dei commissari che non sono tradotti d’ufficio nelle undici lingue ufficiali attuali, ma redatti in inglese, francese e tedesco.
Lars Mitek - si badi bene - terminava la lettera con una frase per niente sibillina: “Data la limitatezza delle risorse e per ragioni di rapidità, l’impiego di talune lingue di lavoro resterà limitato.”
Quindi anche se si riuscisse, non si sa come, a piazzare l’italiano in prima fila, a conti fatti, rebus sic stantibus, la musica (cioè “music”) sarebbe in sostanza la stessa .