Quale sarà la lingua del mondo

Lettera aperta a Sergio Romano

 

Egregio Sergio Romano, qualche giorno fa Ella, sotto il titolo profetico "Perché l'esperanto non sarà la lingua del mondo", ha voluto ribadi­re il Suo convincimento che la lingua del futuro sia quella inglese, per la sua bellezza (curioso concetto questo della bellezza riferito a una lin­gua), importanza della letteratura, numero di par­lanti e dinamismo sociale, economico e culturale, che sono per Lei i fattori perché una lingua si diffonda universalmente. D'accordo per la previ­sione del tutto pacifica per l'inglese, ma solo in quanto lingua della potenza egemone dal punto di vista politico-economico e quindi come tale destinata a prevalere, a prescindere del tutto da altre qualità. E purtroppo, cosa che Ella non dice

pur essendone cosciente, destinata a distruggere lentamente ma inesorabilmente le altre lingue e culture.

Nel capitolo dal titolo "E con Babele che ini­zia la libertà" del suo libro La Lingua e il tempo, opera poco nota del 1983, Ella esprime inquietu­dine per la riforma dell'allora segretario di Stato francese all'Educazione J. Pelletier che propone­va ai francesi la conoscenza perfetta di una lin­gua straniera perché utile, e afferma: «Ma se il criterio di utilità deve essere all'origine delle no­stre scelte, perché noi ci ostiniamo a parlare una lingua materna che per noi è sempre meno "uti­le"? Le comunicazioni commerciali e scientifi­che, le prenotazioni, i messaggi fra le torri di controllo e gli aerei, i codici di telescrittura e dei calcolatori elettronici, la giungla semiotica che attraversiamo tutti i giorni fra home e business, tutto è in inglese. Noi non abbiamo che da impa­rare "perfettamente" questo gergo passe-par­tout: il mondo ci apparterrà». In sostanza quello che oggi Lei sostiene con convinzione, almeno apparente, allora la faceva inorridire, facendoLe dire: «Ma questa considerazione [...] lascia in­travedere un mondo uniforme parlante la stessa lingua e accettante nella vita quotidiana e socia­le i codici comportamentali di cui una lingua è portatrice». E quindi Ella chiariva, caro amba­sciatore, come uomo di cultura e civiltà democra­tica quale doveva essere l'approccio verso una lingua straniera: «Ora io penso die la scelta di una lingua straniera dovrebbe essere dettata non solo dalla sua "utilità ", ma soprattutto dal desi­derio di conoscersi meglio per rapportarsi con gli altri. Bisogna imparare le lingue straniere per differenza di pensiero e non di uniformità. Smettiamo di piangere l'età d'oro che avrebbe preceduto la torre di Babele, perché è a Babele, al momento stesso dove le lingue si sono separa­te, che la libertà culturale inizia. Se Dio - un Dio parlante inglese, senza dubbio - crede di punirci privandoci di uniformità, si è ingannato. La resi­stenza contro tutti i dogmi e tutte le egemonie co­mincia quando un uomo può dire al suo interlo­cutore: io non ti capisco, tu non parli la mia lin­gua».

Ma col tempo, nonostante la Sua adesione al manifesto in difesa della "bella lingua", il crite­rio dell'utilità non viene più da Lei trattato con

ironia, e la Sua scelta è netta. Rispondendo ad una lettera di un lettore che pretendeva di con-vincerLa sull'esperanto in due righe (Panorama del 14 aprile 2001), Ella affermava: "Una lingua comune non serve", dato che c'è già ed è l'ingle­se, perché «il linguaggio moderno delle comuni­cazioni, della gestione aziendale, della finanza, dei trasporti internazionali, dell'informatica e della tecnologia è l'inglese, gli altri finiranno per assorbire un numero crescente di parole in­glesi nel loro linguaggio quotidiano. Creare pa­role nuove in laboratorio allo scopo di esprimere un concetto per il quale esiste già una parola originale, che molti conoscono, diverrebbe un esercizio astratto». In sostanza, esperanto a par­te, non serve tradurre nelle lingue nazionali i ter­mini sfornati di continuo dal mondo anglosasso­ne e la legge sulla privacy deve essere conside­rata un fiorellino della nostra civiltà giuridica, come question time di quella politica, e il cartel­lo "Realizzazione nuovi layout" posto davanti ad un edificio pubblico in ristrutturazione sta ad in­dicare uno Stato illuminista. Chi rifiuta termini come desktop, download, upload (anche se ci sono schermo, scarico e carico e dal contesto si capisce che si tratta di informatica) e tanti altri? Ma la pausa è diventata un break, il sacco a pelo sleepingbag, e di questo passo il pane sarà bread e il vino wine, inesorabilmente. Il Suo collega Alberoni titolava "Chi rinuncia alla sua lingua perde anche l'anima" un suo articolo sul Corriere cogliendo la drammaticità del proble­ma. Per quanto riguarda l'esperanto, non vi sa­rebbe alcuna difficoltà ad aggiornarne la termi­nologia senza bisogno di inventare nuove radici, se fosse questo il problema.

Lo stesso convincimento prò lingua inglese Ella ribadiva sulla stessa testata il 15 luglio 2004 a pagina 21, aggiungendo che l'uso dell'inglese nel mondo «non è dovuto soltanto alla fortuna dell'Impero britannico nell'Ottocento e all'emer­gere della potenza americana nel Novecento. E il risultato della scelta spontanea e ragionevole di parecchie centinaia di milioni di uomini, forte­mente attratti dalla prospettiva di allargare, gra­zie alla conoscenza di una lingua veicolare, la gamma dei loro contatti e delle loro esperienze». A me non sembra tanto spontanea la scelta dell'inglese se non esistono scuole in cui non lo si insegna e, dato che le ore riservate a tale lin­gua non sembrano sufficienti, ci si sta attrezzando per insegnare in inglese full immersion altre materie, cosa sempre più frequente nell'univer­sità. Se tale lingua viene richiesta in ogni tipo di concorso pubblico, se presso le istituzioni euro­pee vige addirittura la preferenza per i candidati "english mother tongue", se per i trattati SA-PARD le relazioni tra i paesi dell'est neomembri dell'Unione Europea è obbligatoria la lingua in­glese, e cosi' per tante altre situazioni in cui si privilegia tale lingua, spinta, inoltre, da un eser­cito infinito di operatori del British Couiicil, USIS e simili che ne fanno il maggior business del mondo angloamericano. Per fortuna che Ella aggiunge: «Sappiamo che il dominio dell'inglese nella comunicazione internazionale ha effetti ne­gativi sulla vitalità e sulla diffusione delle grandi lingue nazionali» (senza però parlare dell'effetto distruttivo di culture), il che dimostra ancora una volta che il problema della comunicazione internazionale non La lascia indifferente. Attualmente che l'esperanto non sarà la lingua del mondo non ci vogliono, rebus sic stantibus, grandi doti divi­natorie a predirlo, ma perché non prova ad ap­profondire l'argomento senza preclusioni, non dando nulla per scontato, e credendo alla forza delle idee e alla potenza degli attuali mezzi di co­municazione di massa con i quali sono possibili vaste operazioni di informazione e sensibilizza­zione sul problema, per diffondere un maggiore rispetto verso la propria lingua e arginare l'inva­denza dell'inglese. Non escludendo, naturalmen­te, l'opzione esperanto, lingua ormai ben collau­data, che ha dalla sua oltre alla non pericolosità per le culture anche un'estrema semplicità. La saluto cordialmente.

 

Giorgio Bronzetti

Coordinatore dell'associazione

"Allarme Lingua" (www.allarmelingua.it )