Pur essendo stati versati in ‘esperanto’, vera lingua artificiale internazionale, molti capolavori della letteratura e del pensiero mondiali – valga come esempio la ‘Divina Commedia’ di Dante – l’idioma inventato dal medico polacco L. L. Zamenhof (1859-1917) non è ancora riuscito ad imporsi come genuina ‘koiné’ in grado di unire i popoli della terra mercé, appunto, un linguaggio parlabile e comprensibile da tutti. Operazione riuscita – ad alto livello – alla cultura e alla lingua romane tanto da far esclamare ad una delle ultime e piú significative voci della letteratura latina, il poeta Claudio Claudiano (V sec.): “Cuncti gens una sumus”. Cemento di tale unità non poteva essere, quindi, che la parlata di Roma.

E ‘l’esperanto’ non è ancora riuscito ad affermarsi, come meriterebbe, quale ‘sermo universalis’, a causa della forza – dovuta, diciamolo, senza ambagi, ad un vasto ed acritico conformismo generale – della lingua inglese piú povera, se vogliamo, dal punto di vista grammaticale e sintattico, dell’‘esperanto’, a sua volta cosí semplice – semplice non significa facile – dal punto di vista fonetico e morfosintattico. Ma l’idioma di Locke e di Shakespeare continua ad affermarsi sullo scenario internazionale sia per ragioni di conformismo, sia, ancora, per motivi politici, tutti dimentichi dell’ammonizione del filosofo pragmatista americano, Charles Sanders Peirce (1839-1914), secondo la quale l’inglese è “un gergo di pirati, (…) povero di certe parole”.

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