Anche e soprattutto su temi che “storicamente” fanno discutere, il nostro giornale intende essere presente, cercando di stimolare un dibattito il più possibile franco, aperto e costruttivo. In tal senso, riceviamo e ben volentieri pubblichiamo questo contributo da parte di uno dei principali studiosi di sordità del nostro Paese, curatore tra l’altro, a suo tempo, anche del “Dizionario delle disabilità, dell’handicap e della riabilitazione”

In questo Paese sembra che la Lingua dei Segni Italiana sia tabù. Ma che cos’è un “tabù” se non un pregiudizio, un impedimento per l’altro? Non vogliamo, letteralmente, che l’altro “provi” quella gratificazione culturale, linguistica o sessuale che hanno i cosiddetti “normali” o autorizzati dalla maggioranza. Entriamo nel tabù scolastico, quando ad esempio si diceva che apprendere a scrivere era un diritto dei figli di classi benestanti o nel tabù sessuale - assai resistente nel nostro Paese – quando si parla di permettere, come in altri Stati europei, di esprimere pulsioni sessuali ai disabili con donne o uomini volontari, attraverso un’etica accolta o/e ordinata da normative.
Qui siamo nel campo del tabù linguistico, in base al quale si vuole impedire – ormai sono vent’anni che ciascun partito politico propone l’approvazione di una legge sulla Lingua dei Segni – che quest’ultima sia riconosciuta “per legge”.

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