E’ un falso mito che in Europa tutti parlino l’inglese: più della metà degli europei non lo sa. Tanto più ora che Londra se ne è andata, è indispensabile studiare i due veri idiomi forti dell’Unione: quelli della locomotiva franco-tedesca
Il tema della politica linguistica non sembra ricevere adeguata attenzione nei numerosi dibattiti e iniziative per favorire il rilancio del paese appena uscito dall’emergenza da coronavirus. Sappiamo che non vi può essere una vera e duratura ripresa senza nuovi e cospicui investimenti in istruzione, e quindi in educazione linguistica, ma manca una visione strategica che tenga conto dei profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni e di ciò che la crisi sanitario-economica ha messo in evidenza. E cioè che per diverse ragioni è ora necessario diversificare maggiormente le competenze linguistiche della popolazione investendo più risorse nell’apprendimento di lingue diverse dall’inglese, e in particolare nel tedesco e nel francese.
I tre miti dell’inglese globale
Nella scuola italiana l’insegnamento dell’inglese è egemonico, mentre le altre lingue sono relegate a un ruolo marginale. Tale egemonia si regge su tre miti, tutti infondati. Il primo è che si tratti di una lingua parlata ormai da tutti, mentre invece gran parte della popolazione europea e mondiale o non la conosce o la mastica poco. Secondo i dati ufficiali di Eurostat, l’agenzia europea di statistica, nell’Unione europea senza il Regno Unito, ormai in uscita, la percentuale dei residenti che dichiara di essere madrelingua inglese o di conoscere questa lingua a un livello molto buono non supera il 10%. Più della metà della popolazione europea non parla questo idioma, e la situazione non è destinata a migliorare di molto nel futuro prossimo, visto che nella maggioranza dei casi il livello di competenze effettivamente acquisite dai ragazzi a scuola è mediocre. La prima indagine sulle competenze linguistiche effettuata dalla Commissione europea nel 2012 nelle scuole medie e nei primi anni delle superiori riportava infatti che solo quattro ragazzi su dieci raggiungono la capacità di sostenere una semplice conversazione nella prima lingua straniera studiata (solitamente per l’appunto l’inglese).
Il secondo mito è che si tratti di una lingua assolutamente indispensabile nel mondo del lavoro. Stando ai dati dell’Istituto italiano di statistica, invece, appena un quinto di coloro che dichiarano di conoscere l’inglese in Italia effettivamente lo utilizza al lavoro tutti i giorni o almeno una volta alla settimana. In Germania, secondo i dati dell’Istituto tedesco per la ricerca economica, solo il 18% delle persone occupate che dichiarano di conoscere l’inglese lo utilizza per lavoro spesso o sempre, mentre il restante 82% non lo usa mai, oppure lo usa raramente o solo qualche volta. Esiste insomma una tensione fra la percezione dell’inglese come strumento imprescindibile per lavorare e la nuda realtà dei dati la quale attesta che gli europei continuano a vivere e lavorare in larga misura nelle proprie lingue nazionali. Lingue, per essere chiari, che serve quindi studiare e conoscere se si vuole avere accesso a quei mercati.
E questo ci porta al terzo mito, ovvero quello che l’egemonia dell’inglese sia l’orizzonte ineludibile della globalizzazione e del processo di integrazione europea. Essa invece è l’esito di un processo storico influenzato da scelte pregresse di politica linguistica e da rapporti di forza che mutano nel tempo. Che la globalizzazione e il cammino di integrazione europea abbiano subito battute d’arresto o forti rallentamenti è ormai evidente, così come non si può non notare che ciò sia avvenuto con il contributo decisivo dei maggiori paesi anglofoni. Le tensioni commerciali fra Stati Uniti e Unione europea e l’annunciato progressivo ritiro di una parte dei soldati americani dalla Germania rivelano che il sostegno statunitense all’Europa unita è ben diverso rispetto a quello mostrato dal nostro maggiore alleato ai tempi dell’Unione sovietica. Il Regno Unito dal canto suo ha votato due volte per tagliare gli ormeggi sulla Manica (referendum del giugno 2016 ed elezioni generali del dicembre 2019). Infine, le reazioni all’epidemia da coronavirus hanno svelato che la diffusione dell’inglese in Europa non influisce in alcun modo sulla nascita di un sentimento di solidarietà continentale. Non sono stati proprio i paesi dove la conoscenza dell’inglese come lingua straniera è molto comune, cioè il gruppo dei cosiddetti “frugali” (Olanda, Svezia, Danimarca e Austria), a opporsi strenuamente a ogni tipo di solidarietà finanziaria nei confronti dei paesi maggiormente colpiti dall’epidemia come l’Italia o la Spagna?
Perché investire nell’apprendimento del tedesco e del francese
Dal punto di vista italiano, quindi, è necessario prendere coscienza del nuovo contesto e delle sue implicazioni per la politica linguistica del paese. Non si vuole qui sminuire l’importanza dell’inglese, il cui insegnamento va certamente mantenuto e migliorato, o sottovalutare la rilevanza di altre lingue di grande diffusione come lo spagnolo o il cinese (e neppure, va aggiunto, negare il valore delle lingue minoritarie tutelate dalla legge o di lingue ausiliarie come l’esperanto). Ma è necessario rendersi conto che in Italia si investe troppo poco nell’apprendimento nelle due principali lingue dell’Europa continentale, ovvero il tedesco e il francese. La prima è conosciuta come lingua straniera da appena il 6% della popolazione italiana, ma solitamente a livello elementare. La seconda gode ancora di una certa diffusione, ma negli ultimi due decenni ha subito un drammatico ridimensionamento del suo insegnamento nelle scuole. Dobbiamo ricordare che i paesi francofoni e germanofoni sono le principali destinazioni delle esportazioni italiane, e che le aziende manufatturiere italiane hanno forti legami con l’economia tedesca. Ma va anche aggiunto che il tedesco è una delle maggiori lingue utilizzate in Europa e nel mondo nei brevetti industriali. In virtù della futura attuazione del brevetto unico europeo, i brevetti registrati in tedesco (e francese) avranno valore legale in Italia senza bisogno di traduzioni in italiano. Ignorare queste lingue significa correre il rischio di violare i diritti di proprietà industriale in Italia.