19.09.2004 Il Sole 24Ore

Esperanto, quanto mi costeresti



Nell'articolo «Città ideale, fi­glia dell'ignoranza» del 15 agosto, mi sembra che Ro­berto Casati cada in un pregiudizio difficile da sradicare, quando parla dell'utopia di una lingua universale. Anzi, più che un pregiudizio il suo è una contraddizione in termini. Come può infatti affermare che avremo una lingua universale la quale non sarà l'esperanto, ma un'altra? Casati esclude l'esperanto perché, afferma, dopo un paio di generazioni la lingua si differenzierà e, quindi, sottintende che avremo quanto meno diversi dia­letti. Ma perché non sostiene la stes­sa ipotesi per inglese, cinese o spa­gnolo (le lingue da lui candidate co­me universali)? Ritengo che si possa sostenere il contrario: qualsiasi lin­gua "naturale" parte infatti svantag­giata dal punto di vista della differen­ziazione, in quanto già oggi si parla­no tanti inglesi, alcuni spagnoli, per non dire del cinese che non è affatto una lingua unica. L'esperanto, al con­trario, partirebbe da una lingua unica e "controllata". Casati cita l'esempio dell'esperanto tra le due guerre, in cui vi furono figli di esperantisti che avendo appreso la lingua dai genitori (sono i co­siddetti denaska) non si compren­dono tra lo­ro. Ma do­ve ha sentito questa bufala? Ancora oggi vivo­no diversi denaska di terza e anche quarta generazione, i quali si incon­trano regolarmente e, soprattutto, si comprendono perfettamente tra loro.

Le ragioni per cui l'esperanto non si è mai affermato (e probabilmente mai si affermerà) come seconda lin­gua di tutti sono di due tipi: una banale, l'altra economica. Quella ba­nale è che essendo una soluzione troppo semplice, pochi ci credono. Quella eco-nomica è che non fa comodo a nessuna po­tenza mon­diale: tra le due guerre furono i governi francesi a non voler­la perché erano certi che il francese sarebbe diventato la lingua universa­le. Nel secondo dopoguerra, gli ame­ricani, che imponendo la propria lin­gua hanno imposto anche la propria economia: si ha un'idea del vantag­gio economico che ha un popolo a non dover studiare altre lingue?

Il grave problema linguistico nel mondo interessa a pochi. Ma si pen­si ai costi delle traduzioni nell'Unio­ne europea che succhiano una bella percentuale delle nostre tasse; o ai soldi spesi in traduzioni da organiz­zazioni come la Fao, che potrebbe­ro essere impiegati per realizzare ciò per cui queste esistono.

Marco F. Picasso



Secondo la Commissione euro­pea (risposta del commissario Schreyer all'interrogazione di Christophe Huhne, E-2239/99), i co­sti totali relativi a traduzione e inter­pretariato nelle istituzioni dell'Unio­ne europea (tutte quante: vale a dire Parlamento, Consiglio, Commissio­ne, Corte di giustìzia, Corte dei con­ti, Comitato economico e sociale, Co­mitato delle regioni e Struttura orga­nizzativa comune) per il 1999 sono stati di 685,9 milioni di euro. Il bud­get complessivo dell'Unione per lo stesso anno era stato di 85.557,7 milioni di euro. Questo situa il costo di traduzione a circa lo 0,8% del totale. Jacques Ziller, ne La nuova costituzione europea (il Mulino 2003, pag. 79), scrive che «malgra­do le critiche di stampo populista contro un sistema che obbliga a tra­durre ogni atto in undici lingue —ma tra po­co saranno ventuno — non biso­gna avere timore di ri­petere che dal punto di vista dell'Unione affrontare la que­stione delle lingue in termini finanzia­ri è ridìcolo, dal momento che queste rappresentano una piccola parte di un bilancio già di per sé insignifican­te se paragonato ai bilanci naziona­li». In effetti, se si divide il costo totale per il numero degli abitanti dell'Unione nel 1999, si scopre che si son pagati due euro a testa. I costi della diffusione dell'esperanto su sca­la europea sono certamente maggio­ri di alcuni ordini di grandezza; non ci sarebbe alcun risparmio dall'uso dell'esperanto, solo costi aggiuntivi, e pesanti per di più.

Quanto all'esperan­to stesso (su cui: C. Nyiri, «On Esperanto:Usage and Contrivance in Language», in: Rudolf Haller, Wittgenstein - Towards a Re-Evaluation, Holder-Pichler-Tempsky, Vienna 1990, voi. II, pagg. 303-310), tecnicamente non è una lingua, ma un "pìdgin" artifi­ciale, ovvero un coacervo di elemen­ti linguistici presi da lìngue differenti (un tipico "pidgin" si forma quando due comunità devono superare la barriera linguistica partendo da ze­ro; si veda S. Pinker, L'istinto del linguaggio, Mondadorì 1997). Per di­ventare una lìngua a tutti gli effetti (e quindi aiutare il progetto della com­prensione universale) bisogna che avvenga qualcosa come il passaggio (noto ai linguisti) dallo stato dì "pìd­gin" a quello di lingua creola. È più o meno quanto è successo a chi ha appreso l'esperanto in tenera età come prima lingua, in virtù di genito­ri entusiasti. Gli esperantisti de-naska ("dalla nascita") sono i custo­di di questo idioma, declinato foneti­camente in modo diverso a seconda dell'accento con cui veniva loro par­lato l'esperanto dai loro genitori; sono le uniche persone che di fatto possono servire da controllo per tut­ti gli altri usi dell'esperanto. In real­tà, sono l'unico gruppo di veri e propri parlanti della lingua. In virtù di questo fatto, si potrebbe natural­mente pensare di aggiungere l'espe­ranto alle lingue ufficiali dell'Unio­ne per permettere di tradurre i tratta-

ti in un modo comprensibile ai de-naska, ma ci sono comunità linguisti­che più numerose (i parlanti del "corso", per esempio) le cui lingue non godono di un simile privilegio. In ogni caso, gli esperantisti nativi sarebbero comunque avvantaggiati su tutti coloro che apprendono l'esperanto come seconda lingua, quindi mi sa che siamo da capo.

Infine, non mi sono affatto contrad­detto (nientemeno!), dato che nell'ar­ticolo non auspicavo che l'inglese o altra lingua divenissero la lingua franca dell'umanità. Constatavo che qualcosa del genere sembra stia av­venendo e porti per vie traverse a soddisfare uno dei desideri utopia degli esperantisti. Ma se il desiderio viene soddisfatto, è importante quale sia l'idioma che lo soddisfa?

Roberto Casati



Il Sole 24 Ore 19/09/04 pag.28