01.05.05 Il Sole 24 Ore

La lingua materna non ammette esilio.

Essere esiliati [e dunque /sognare del ritor­no/: nostalgia], è anche essere minacciati di perdere la propria lingua, il proprio potere di parlare.

Ovidio dichiara che ha dimenti­cato il latino, e la sua bocca è sigillata: «Spesso, quando tento di dire qualcosa - è triste confessar­lo -le parole vengon meno, ho dimenticato la mia lingua» (Tristia, 1II, XlV).

Nel Riccardo II di Shakespeare, Mowbray, non appena la sentenza d'esilio è pronunciata contro di lui, sente che sarà votato al silenzio: «La mia lingua ormai non mi sarà più che una viola o un 'arpa senza corde».

E il simmetrico ancora si produce: il poeta esiliato persiste nel parlare la propria lingua, ma nessuno l'intende. Ovidio ancora lo ricorda nei Tristia (IV, l, 89-92): «Non c'è nessuno al quale possa leggere [miei versi, nessuno che compren­da la lingua latina. Per me solo [ipse mihi] ­che altro potrei fare? - scrivo, per me solo leggo i miei versi». Sibi scribere: anche Rousseau nella prima delle sue Reveries adotta il ruolo dell' esilia­to e dichiara di non aver più destinatario. Non scriverà che per se stesso. E da Ovidio trarrà l'epigrafe del suo Discorso sulle scienze e sulle arti e dei suoi Dialoghi: «Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis» (<

Ovidio dichiara tuttavia ch'egli attende dal­l'esercizio di poesia non il sollievo temporaneo dall'esilio, ma il rimedio. Certo è il troppo libero esercizio dei versi che gli ha procurato i suoi mali. Ma il male può rovesciarsi nel suo contra­rio. Allora, il comporre versi sarà come la lancia d'Achille nel mito di Telefo. A quell'eroe ferito l'oracolo aveva annunciato ch'egli non sarebbe guarito se non tramite l'arma che l'aveva colpi­to: la piaga si chiuderà al contatto della lancia che l'ha aperta. [...]. È forse necessario richiama­re che tutte queste immagini d'esilio saranno destinate a usi allegorici, sul fondale della meta­ fisica e dei miti platonici? Esse saranno dispo­ste, soprattutto, a figurare la condizione dell'ani­ma separata, e la sua aspirazione a tornare all'Uno primordiale da cui essa emana. Così compendierà Platino: «La nostra patria è il luogo dal quale veniamo, e il nostro padre è laggiù» (Ermeadi, l, 6).

(Traduzioni di Carlo Ossola)

Il Sole 24 Ore 01/05/05