Cinque secoli fa, re Cristiano di Danimarca chiamò ebrei da tutta l'Europa a Copenaghen, per far rivivere la città. Non chiese loro di imparare il danese, garantì le libertà religiose. Nel 1957, travolta la rivolta d'Ungheria,1500 ungheresi fuggirono in Danimarca, ottenendo la cittadinanza. Oggi, a Copenaghen, ogni immigrato deve imparare per 18 mesi danese e storia nazionale, prima di avere le carte a posto. Nel frattempo, è però accaduto qualcosa: gli asiatici e africani che erano l'1% della popolazione danese nel 1980, sono il 6%. Così come, in Svezia, gli stranieri sono passati dal 4% al 12,2% in 40 anni... il partito dei map Democratici Svedesi, destra, fondato nel 1988, è arrivato in Parlamento solo nel 2010; i «Veri finlandesi» esistono da anni ma solo ora crescono nei sondaggi; il populista Geert Wilders, dopo lunga anticamera, fa da stampella al governo olandese. Dopo l'uccisione del suo precedessore Pym Fortuyn, Wilders chiedeva la chiusura delle moschee: non ha cambiato idea, ma le misure che invoca restano tuttora sulla carta. Nel Nord, al ripiegamento sulle identità nazionali, è infatti seguita una seconda reazione: la ricerca di un compromesso fra le esigenze di sicurezza e il rispetto delle tradizioni liberali. E così: test di lingua e di cultura generale, richieste di qualifiche professionali (è la via norvegese: «Non quantità, ma qualità»), frenata nelle concessioni dell'asilo politico; ma poi moschee aperte e veli ancora permessi (in Scandinavia). Con un occhio ai sondaggi, però, e alla marea populista che continua a montare.
(Luigi Offeddu, Corriere della Sera, 18/10/2010).
La tentazione identitaria delle democrazie nordiche
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