Più di una volta sono intervenuto in un forum linguistico del Corriere
della Sera online per criticare la mania, che hanno nella Penisola, di
sostituire termini italiani validissimi con termini inglesi. Fenomeno
d’imitazione che in Italia, patria tradizionale di un’esterofilia da
camerieri e da lustrascarpe schiavi delle mode, supera tutto ciò che può
verificarsi in altri paesi. Perché il fenomeno esiste certamente anche
altrove, ma in misura molto ridotta rispetto all’Italia, e soprattutto
senza che i rispettivi governi vi partecipino gongolanti. I governanti
italiani, nelle retrovie per inettitudine, sono invece in prima linea
nell’appecorarsi alla lingua inglese. Un momento... Mi par già di udire,
contro di me, le due classiche obiezioni: 1. Se si eliminassero dalla
lingua italiana tutti i termini di derivazione straniera, si perderebbe
una buona fetta del vocabolario. 2. Anche le altre lingue devono molto
all’italiano: l’influenza è quindi reciproca.
Ragionamenti sballati, perché ciò che io e tanti altri denunciamo non
sono i trapianti, necessari ed encomiabili, ma le “automutilazioni”.
Oltre tutto il ricorso alla parola inglese “usa e getta” - e spesso mal
usata, mal pronunciata e mal capita - non è solo un atto di mutilazione
della lingua nazionale ma è un ostacolo alla comprensione ossia alla
comunicazione. Inoltre se si spinge al limite questa logica di
asservimento ci si dovrebbe chiedere: perché allora non adottare, nella
Penisola, l’inglese al posto dell’italiano?
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