Esperanto, quanto mi costeresti
Nell'articolo «Città ideale, figlia dell'ignoranza» del 15 agosto, mi sembra che Roberto Casati cada in un pregiudizio difficile da sradicare, quando parla dell'utopia di una lingua universale. Anzi, più che un pregiudizio il suo è una contraddizione in termini. Come può infatti affermare che avremo una lingua universale la quale non sarà l'esperanto, ma un'altra? Casati esclude l'esperanto perché, afferma, dopo un paio di generazioni la lingua si differenzierà e, quindi, sottintende che avremo quanto meno diversi dialetti. Ma perché non sostiene la stessa ipotesi per inglese, cinese o spagnolo (le lingue da lui candidate come universali)? Ritengo che si possa sostenere il contrario: qualsiasi lingua "naturale" parte infatti svantaggiata dal punto di vista della differenziazione, in quanto già oggi si parlano tanti inglesi, alcuni spagnoli, per non dire del cinese che non è affatto una lingua unica. L'esperanto, al contrario, partirebbe da una lingua unica e "controllata". Casati cita l'esempio dell'esperanto tra le due guerre, in cui vi furono figli di esperantisti che avendo appreso la lingua dai genitori (sono i cosiddetti denaska) non si comprendono tra loro. Ma dove ha sentito questa bufala? Ancora oggi vivono diversi denaska di terza e anche quarta generazione, i quali si incontrano regolarmente e, soprattutto, si comprendono perfettamente tra loro.
Le ragioni per cui l'esperanto non si è mai affermato (e probabilmente mai si affermerà) come seconda lingua di tutti sono di due tipi: una banale, l'altra economica. Quella banale è che essendo una soluzione troppo semplice, pochi ci credono. Quella eco-nomica è che non fa comodo a nessuna potenza mondiale: tra le due guerre furono i governi francesi a non volerla perché erano certi che il francese sarebbe diventato la lingua universale. Nel secondo dopoguerra, gli americani, che imponendo la propria lingua hanno imposto anche la propria economia: si ha un'idea del vantaggio economico che ha un popolo a non dover studiare altre lingue?
Il grave problema linguistico nel mondo interessa a pochi. Ma si pensi ai costi delle traduzioni nell'Unione europea che succhiano una bella percentuale delle nostre tasse; o ai soldi spesi in traduzioni da organizzazioni come la Fao, che potrebbero essere impiegati per realizzare ciò per cui queste esistono.
Marco F. Picasso
Secondo la Commissione europea (risposta del commissario Schreyer all'interrogazione di Christophe Huhne, E-2239/99), i costi totali relativi a traduzione e interpretariato nelle istituzioni dell'Unione europea (tutte quante: vale a dire Parlamento, Consiglio, Commissione, Corte di giustìzia, Corte dei conti, Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni e Struttura organizzativa comune) per il 1999 sono stati di 685,9 milioni di euro. Il budget complessivo dell'Unione per lo stesso anno era stato di 85.557,7 milioni di euro. Questo situa il costo di traduzione a circa lo 0,8% del totale. Jacques Ziller, ne La nuova costituzione europea (il Mulino 2003, pag. 79), scrive che «malgrado le critiche di stampo populista contro un sistema che obbliga a tradurre ogni atto in undici lingue —ma tra poco saranno ventuno — non bisogna avere timore di ripetere che dal punto di vista dell'Unione affrontare la questione delle lingue in termini finanziari è ridìcolo, dal momento che queste rappresentano una piccola parte di un bilancio già di per sé insignificante se paragonato ai bilanci nazionali». In effetti, se si divide il costo totale per il numero degli abitanti dell'Unione nel 1999, si scopre che si son pagati due euro a testa. I costi della diffusione dell'esperanto su scala europea sono certamente maggiori di alcuni ordini di grandezza; non ci sarebbe alcun risparmio dall'uso dell'esperanto, solo costi aggiuntivi, e pesanti per di più.
Quanto all'esperanto stesso (su cui: C. Nyiri, «On Esperanto:Usage and Contrivance in Language», in: Rudolf Haller, Wittgenstein - Towards a Re-Evaluation, Holder-Pichler-Tempsky, Vienna 1990, voi. II, pagg. 303-310), tecnicamente non è una lingua, ma un "pìdgin" artificiale, ovvero un coacervo di elementi linguistici presi da lìngue differenti (un tipico "pidgin" si forma quando due comunità devono superare la barriera linguistica partendo da zero; si veda S. Pinker, L'istinto del linguaggio, Mondadorì 1997). Per diventare una lìngua a tutti gli effetti (e quindi aiutare il progetto della comprensione universale) bisogna che avvenga qualcosa come il passaggio (noto ai linguisti) dallo stato dì "pìdgin" a quello di lingua creola. È più o meno quanto è successo a chi ha appreso l'esperanto in tenera età come prima lingua, in virtù di genitori entusiasti. Gli esperantisti de-naska ("dalla nascita") sono i custodi di questo idioma, declinato foneticamente in modo diverso a seconda dell'accento con cui veniva loro parlato l'esperanto dai loro genitori; sono le uniche persone che di fatto possono servire da controllo per tutti gli altri usi dell'esperanto. In realtà, sono l'unico gruppo di veri e propri parlanti della lingua. In virtù di questo fatto, si potrebbe naturalmente pensare di aggiungere l'esperanto alle lingue ufficiali dell'Unione per permettere di tradurre i tratta-
ti in un modo comprensibile ai de-naska, ma ci sono comunità linguistiche più numerose (i parlanti del "corso", per esempio) le cui lingue non godono di un simile privilegio. In ogni caso, gli esperantisti nativi sarebbero comunque avvantaggiati su tutti coloro che apprendono l'esperanto come seconda lingua, quindi mi sa che siamo da capo.
Infine, non mi sono affatto contraddetto (nientemeno!), dato che nell'articolo non auspicavo che l'inglese o altra lingua divenissero la lingua franca dell'umanità. Constatavo che qualcosa del genere sembra stia avvenendo e porti per vie traverse a soddisfare uno dei desideri utopia degli esperantisti. Ma se il desiderio viene soddisfatto, è importante quale sia l'idioma che lo soddisfa?
Roberto Casati
Il Sole 24 Ore 19/09/04 pag.28