CULTURA
Un uomo salvato dall'esperanto
Stimatissimo direttore, mi associo volentieri al plauso e ai «sensi di gratitudine» espressi dal cortese lettore Renzo Segalla, per la pubblicazione dell'eccellente lettera-articolo (dalla parte del cittadino) sul Corriere dell'Alto Adige dell'8 dicembre, sotto il significativo titolo «Riflettiamo su diritti e doveri nel solco tracciato da Mazzini».-
Sono pienamente d'accordo con le considerazioni relative al concetto mazziniano di Stato-Nazione, ma qui vorrei soltanto soffer-
marmi sull'accenno del Segalla all'«idioma neutrale, che potrebbe servire come idioma di pacificazione».
Dunque: esperanto, «lingua della pace». Definizione che potrebbe suonare retorica e propagandistica, se non fosse suffragata da tanti fatti reali, vissuti dai protagonisti in tempo di guerra ed in situazioni drammatiche. Di uno in particolare sono stato testimone diretto e volentieri lo riferisco, lasciando ai lettori di trame le opportune valutazioni.
Riferirò questa vicenda così come l'ho sentita narrare, con profonda emozione, dal protagonista, Attilio Giovannini, soldato italiano in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, autista del 54° Gruppo di artiglieria di Corpo d'armata:
Arrivati presso la stazione di Plavno, dovemmo aspettare un treno dalla parte di Zemagna (...). Approfittai della sosta forzata (...) Conoscevo la zona per averla attraversata varie volte e sapevo che la gente era ospitale. Quel giorno però mi imbattei in un gruppo di partigiani ben decisi ad uccidermi.
La situazione critica richiedeva tutta la mia presenza di spirito; così, facendomi coraggio, presi a parlar loro e in quel tragico frangente mi ritornarono alla mente le parole di San Paolo ai Corinti e le gridai loro in esperanto, aggiungendo che ero solo un soldato disarmato e ammalato, e che se mi avessero conosciuto un po' a fondo non avrebbero trovato in me un nemico,, ma un essere umano come loro, costretto alla guerra dagli avvenimenti. A questo punto una voce tra loro esclamò: «Fermi! Se questo è un esperantista non può essere un nemico! Non dobbiamo ucciderlo».
«Da persone semplici avevano capito il mio spirito: solo la forza delle circostanze mi aveva portato sulla loro terra come soldato, ma in me c'era solo voglia di dare e ricevere comprensione e, quindi, mi dimostrarono amicizia. Mi accolsero nelle loro case, mi diedero del formaggio ed un bambino mi offrì una mela cotta, dicendo in esperanto: "Jen io por mangi", ecco qualcosa da mangiare. Poi mi lasciarono libero. Così devo all'Esperanto il dono della vita e la conoscenza dei grandi valori umani che sono spontanei nella coscienza infantile e pura dell'uomo ».
Credo davvero superflua qualsiasi parola di commento.
dott. Luigi Tadolini
Corriere dell’Alto Adige 2/12/05