02/12/05 Corriere dell’Alto Adige

CULTURA

Un uomo salvato dall'esperanto

Stimatissimo direttore, mi associo volentieri al plauso e ai «sensi di gratitu­dine» espressi dal cortese let­tore Renzo Segalla, per la pubblicazione dell'eccellen­te lettera-articolo (dalla par­te del cittadino) sul Corrie­re dell'Alto Adige dell'8 di­cembre, sotto il significati­vo titolo «Riflettiamo su di­ritti e doveri nel solco trac­ciato da Mazzini».-

Sono pienamente d'accor­do con le considerazioni re­lative al concetto mazzinia­no di Stato-Nazione, ma qui vorrei soltanto soffer-

marmi sull'accenno del Segalla all'«idioma neutrale, che potrebbe servire come idioma di pacificazione».

Dunque: esperanto, «lin­gua della pace». Definizio­ne che potrebbe suonare re­torica e propagandistica, se non fosse suffragata da tan­ti fatti reali, vissuti dai pro­tagonisti in tempo di guerra ed in situazioni drammati­che. Di uno in particolare sono stato testimone diretto e volentieri lo riferisco, la­sciando ai lettori di trame le opportune valutazioni.

Riferirò questa vicenda così come l'ho sentita narra­re, con profonda emozione, dal protagonista, Attilio Giovannini, soldato italiano in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, autista del 54° Gruppo di ar­tiglieria di Corpo d'armata:

Arrivati presso la stazio­ne di Plavno, dovemmo aspettare un treno dalla par­te di Zemagna (...). Appro­fittai della sosta forzata (...) Conoscevo la zona per aver­la attraversata varie volte e sapevo che la gente era ospi­tale. Quel giorno però mi imbattei in un gruppo di partigiani ben decisi ad ucci­dermi.

La situazione critica ri­chiedeva tutta la mia presen­za di spirito; così, facendo­mi coraggio, presi a parlar loro e in quel tragico frangente mi ritornarono alla mente le parole di San Pao­lo ai Corinti e le gridai loro in esperanto, aggiungendo che ero solo un soldato di­sarmato e ammalato, e che se mi avessero conosciuto un po' a fondo non avrebbe­ro trovato in me un nemico,, ma un essere umano come loro, costretto alla guerra dagli avvenimenti. A questo punto una voce tra loro esclamò: «Fermi! Se questo è un esperantista non può es­sere un nemico! Non dob­biamo ucciderlo».

«Da persone semplici ave­vano capito il mio spirito: solo la forza delle circostan­ze mi aveva portato sulla lo­ro terra come soldato, ma in me c'era solo voglia di da­re e ricevere comprensione e, quindi, mi dimostrarono amicizia. Mi accolsero nelle loro case, mi diedero del formaggio ed un bambino mi offrì una mela cotta, dicendo in esperanto: "Jen io por mangi", ecco qualcosa da mangiare. Poi mi lasciarono libe­ro. Così devo all'Esperanto il dono della vita e la cono­scenza dei grandi valori umani che sono spontanei nella coscienza infantile e pura dell'uomo ».

Credo davvero superflua qualsiasi parola di commen­to.

dott. Luigi Tadolini

Corriere dell’Alto Adige 2/12/05