Cento piccole patrie nella casa Europa
l popoli senza Stato a convegno in Valle d'Aosta
Se ventisette Stati e venticinque lingue ufficiali vi sembrano troppi, ascoltate attentamente quello che dice Aureli Argemì, fondatore della Conferenza della Nazioni senza Stato in Europa: «Le minoranze non esistono. Siamo un continente di cento popoli e cento lingue diverse, tutti con la stessa dignità». Suona un po' strano negare l´esistenza delle minoranze in mezzo a quaranta persone che sono venute a Saint Vincent per la settima assemblea della Conseu a rappresentare tutti i piccoli popoli dimenticati dell´Europa, gallesi, scozzesi, catalani, baschi, lettoni russofoni, bretoni e via dicendo. Accolti naturalmente dagli ospiti valdostani, che fin da piccoli ci hanno insegnato sono una minoranza francese, anzi francoprovenzale, in Italia. «Le minoranze sono una convenzione, il frutto di un equilibrio storico che può sempre cambiare. Basta spostare di poco i confini ed ecco che una minoranza può diventare maggioranza».
Dopo il muro
Argemì, un ex monaco benedettino del monastero di Monserratt, ora felicemente sposato con una professoressa francese, ha pagato personalmente le sue convinzioni controcorrente. La dittatura franchista lo condannò a 25 anni di galera in quanto nazionalista catalano e in quanto religioso lo spedì in esilio in Italia, in base a un accordo del tempo con il Vaticano. Finita la dittatura Argemì ha fondato nel 1985 il Conseu, assieme a regionalisti italiani, specie valdostani, francesi e della Gran Bretagna, proprio con lo scopo di difendere le minoranze, soprattutto linguistiche. Ma il crollo del Muro, il rapido allargamento dell´Europa hanno cambiato le carte in tavola e offerto opportunità più ambiziose.
«Gli stati nazionali di stampo ottocentesco sono costruzioni artificiali - continua accarezzando la cravatta con i colori catalani -. Basta vedere quello che sta accadendo in Belgio, il più artificiale di tutti. Unire forzatamente due culture diverse porta a sopraffazioni e, alla fine a strade violente». Strade violente che
Rivincita celtica
Si gira e guarda con po' di invidia i colleghi Ned Thomas e Roseanne Cunningham, dei partiti nazionalisti gallesi e scozzesi che le ultime lezioni invece le hanno vinte e marciano felici verso la devolution. «Solo che noi gallesi la devolution la presentiamo come evolution, gli scozzesi come revolution», aggiunge il gallese. Thomas ha i capelli bianchi e non una grande simpatia per la monarchia dei Windsor. «E' interessante vedere gomito a gomito un radicale gallese e un radicale basco, che per di più parlano in inglese», ride soddisfatto.
Già, la babele delle lingue. Con venticinque in Europa si spendono 370 milioni all´anno in traduzioni. Se si passa a cento il costo lieviterà in maniera geometrica come i chicchi di riso sulla scacchiera del re persiano. «Basterà usare una sola lingua di lavoro e tutelare a livello locale tutte le altre, tutte egualmente lingue ufficiali dell´Europa», interviene il bretone Yann Chouq, in inglese. La lingua franca sarà per forza la quella della perfida Albione, e il francese? «Quello va bene parlarlo qui in Val d'Aosta, per un regionalista». Thomas e Chouq provano a comunicare nello loro lingue celtiche, ma secoli di separazione le hanno rese un po' troppo diverse. Vada per l´inglese, per ora, anche perché
Vedremo presto una Scozia e un Galles indipendenti? . E' questa la chiave. Le minoranze hanno capito che i piccoli nazionalismi non sono risolutivi se non dentro un più grande contenitore europeo, garante di tutti. «Per questo
Giordano Stabile
LOMBRELLO di BRUXELLES
Celti, catalani, baschi, difendono
le loro tradizioni ma si sentono
europei: