Avvenire 20/09/02

 

Strasburgo ma che Babele

Aumentano i costi delle traduzioni nell'Unione; che fare? De Mauro:
«Affidiamoci all'inglese, oppure all'esperanto» Balboni: «Facciamo
un'Europa a 3 o 6 lingue»; Cattabiani: «Sì a francese e spagnolo»

Di Anna Maria Brogi

Poliglotti o ipertradotti? È questo il dilemma che agita, o dovrebbe
agitare, le coscienze degli europei in vista dell'allargamento dell'Unione
previsto per il 2004. Primo round - per i francesi manche - verso un'Europa
dall'Atlantico agli Urali. Ed ecco l'inghippo: sciovinismi a parte, gli
eurocittadini dovranno fare i conti (fuor di metafora) con i costi
crescenti delle traduzioni. Il primo regolamento del Consiglio europeo
parla chiaro e proclama ufficiali tutte le lingue degli Stati membri.
Adottato il 15 aprile 1958, con l'Europa a sei Stati e quattro lingue,
attua un principio di democrazia. Nel 2004, mezzo secolo dopo, con gli
Stati saliti a 25 e le lingue a 21, l'Europa allargata rischierà di
schiacciarsi sotto il peso delle traduzioni. Qualche dato: producendo, come
avviene per i Quindici, ogni foglio di carta in ogni lingua, si hanno 110
traduzioni (11 lingue volte ciascuna nelle altre 10); applicando lo stesso
criterio, nel 2004 gli incroci saranno 420 (21 lingue per 20). Di fronte a
uno scenario tragicomico, tra Babele e il trionfo della burocrazia, si è
acceso il dibattito su possibili alternative. L'accordo tra politici e
linguisti, diritti nazionali e diritto a capirsi, è di là da venire. La
parola a Tullio De Mauro: «In breve, si prospettano quattro ipotesi -
sintetizza il più noto linguista italiano -. La prima: privilegiare un
idioma. Ma quale: inglese, francese, tedesco? Si scatenano i patriottismi.
Con l'allargamento aumentano a dismisura le chances del tedesco, per i
tradizionali legami dei Paesi dell'Est con il mondo germanico. Seconda
ipotesi: non una, ma due lingue. Così da mettere d'accordo il patriottismo
francese con le ragioni d'uso dell'inglese, ma scatenando le reazioni degli
esclusi. Terza ipotesi, non irragionevole: stilare un testo di riferimento
in lingua neutra. Personalmente, non mi scandalizzerebbe l'esperanto.
C'&egrav e; chi ha proposto il latino, ma andrebbe reinventato per
adattarlo alle esigenze moderne. Quarta ipotesi, infine, ed è quella che mi
trova più d'accordo: ci si affidi al libero mercato. Ossia, senza toccare
la normativa, si guardi alle tendenze del momento: mi pare che la posizione
dell'inglese sia indubbiamente la più forte. Anche per caratteristiche
intrinseche alla lingua: tre quarti del suo vocabolario ha origini
franco-latine e una pagina scritta, specialmente in linguaggio tecnico, è
largamente comprensibile. Non si dimentichi che l'inglese è prima lingua in
sei Stati del mondo ed è lingua secondaria - usata in Parlamento e nelle
scuole - in oltre 60 Paesi. Nella stessa Europa esistono ormai un
anglo-tedesco e un anglo-svedese. Sono convinto che le lingue conoscano
un'evoluzione naturale, anche in termini di diffusione. E non penso si
debbano vietare per legge. Se l'inglese diventasse di fatto la lingua
dell'Europa, non credo che sarebbero a rischio la lettura di Dante o di
Goethe. Altro conto sarebbe proclamarlo ufficialmente: avremmo sollevazioni
popolari, magari con slogan scanditi in inglese». Ed è proprio questo a
spaventare molti: non si metterebbe a repentaglio la specificità europea,
il patrimonio delle lingue nazionali? «Non perdiamoci in inutili
allarmismi: proprio mentre il latino si imponeva come lingua ufficiale da
un estremo all'altro d'Europa, si formavano le lingue romanze. E non si
dimentichi che il 60% dei nostri connazionali conosce un dialetto. Senza
per questo ignorare l'italiano». Bruxelles diverrà un'enclave anglofona?
Strasburgo sarà la patria del nuovo Euro-English? A scartare l'ipotesi di
un predominio inglese, come di ogni altra singola lingua («sarebbe poco
funzionale alla comunicazione tra culture diverse»), è Paolo Balboni,
direttore del Dipartimento di Scienze del linguaggio dell 'Università Ca'
Foscari di Venezia e consulente Ue. «Sono in gioco due interessi uguali e
contrari - spiega -. Da un lato l'Ue tenta di realizzare quello che
tecnicamente è un impero plurilingue, dall'altro deve affrontare la
questione della funzionalità e dei costi. Privilegerei due ipotesi. La
prima: un'Europa trilingue, che elevi al rango di ufficiali di sei mesi in
sei mesi le lingue delle presidenze uscenti, in corso e futura. La seconda:
un'Europa a sei lingue ufficiali, ossia le tradizionali inglese e francese,
il polacco d'obbligo con l'allargamento ad Est e le altre tre più parlate
che sono il tedesco e l'italiano con l'aggiunta dello spagnolo per
lasciarsi la porta aperta sul mondo. Può sembrare un meccanismo complesso,
ma non lo è: già esistono progetti Ue di "intercomprensione linguistica"
orientati a facilitare gli scambi all'interno dei grandi gruppi neolatino,
germanico e, in previsione, slavo. Con una rotazione della presidenza in
cui si correggesse il criterio alfabetico non solo, come avviene adesso, in
base al peso politico, ma anche tenendo conto del dato linguistico, sarebbe
sempre rappresentata una lingua per ciascun grande gruppo e la comprensione
sarebbe salva. Gli atti ufficiali, e solo quelli, andrebbero tradotti. Per
il resto ci si potrebbe limitare ad abstract oppure a bozze ottenute con
traduttori automatici: a ciascun governo la cura e l'onere
(incomparabilmente minore) di far tradurre quanto di interesse specifico».
E l'italiano? Anche da noi c'è chi ne fa una questione di orgoglio
nazionale: brandendo tricolore e statistiche sugli italiani nel mondo,
lanciano appelli ai politici affinché si mobilitino per salvare la nostra
lingua dal declassamento. Invocano un posto tra le lingue ufficiali: una
cinquina, che ci includa accanto agli spagnoli. «Sarò poco nazionalista e
anche un po' clericale - ironizza Alfredo Cattabiani, saggista -, ma penso
che l'italiano non abbia i numeri per candidarsi a lingua dell'Unione. È
minoritario, parlato solo in patria. Si pensi allo spagnolo e alla sua
diffusione: fra 50 anni gli stessi Stati Uniti si spaccheranno
linguisticamente. Dovendo privilegiare un idioma, scartato l'inglese per
non arrenderci a quell'egemonia culturale, resterebbe il francese come
lingua tradizionale della diplomazia. Ma accanto gli metterei lo spagnolo.
E a chi vuole difendere l'italiano per legge, rispondo che esistono altri
mezzi per sostenere le lingue e le culture: si promuovano gli Istituti
italiani all'estero e si guardi a quanto ha fatto, e fa tuttora, la Chiesa
diffondendo l'italiano nel mondo».