LA LINGUA COMUNE EUROPEA
di PINA CUSANO
La Commissione Europea si guarda bene, per il momento, dall'affrontare la questione spinosa dell'adozione di una lingua ufficiale per la UE e possiamo immaginare il perché. Eppure la babele linguistica, tanto più nell'imminenza dell'allargamento dell'Unione Europea ai Paesi dell'Est, rischia di essere un forte handicap per la integrazione reale delle popolazioni, almeno quanto lo è già anche per l'intesa (troppo spesso condizionata dalla qualità degli interpreti) tra i leader e i rappresentanti politici e i funzionari e i burocrati, i cosiddetti tecnocrati insomma, impegnati materialmente nella costruzione della nuova Europa.
Di recente il tema è stato riproposto da Repubblica con un articolo di prima pagina a firma di Timothy Garton Ash, un Inglese che, sulla base di argomentazioni interessanti quanto divertenti, concludeva che "l'unico serio candidato è l'inglese, la nuova lingua franca". Specificava, infatti, che poteva trattarsi soltanto di quel particolare inglese che né gli americani né gli inglesi parlano, bensì di quella lingua che tutti gli altri popoli usano ormai nei rapporti internazionali e che si può chiamare, semplificando, con la sigla ELF, che sta per "inglese come lingua franca".
Tuttavia, lo stesso Ash riconosceva che mai e poi mai
Al di là del paradosso, seppure brillante, il problema è serio e ci è dispiaciuto vedere che l'autore scartava con molta superficialità le altre proposte in campo: il latino e l'esperanto. Il primo perché lingua morta e di pochi (e possiamo essere d'accordo), il secondo semplicemente perché "ridicolo". Cioè lo liquidava senza argomentazioni. Il che - ce lo lasci dire, Mister Ash- sa di bruciato.
Una lingua può apparire "ridicola" solo a chi, non comprendendola e non dovendosi preoccupare di impararla, ne ascolta i suoni con un certo più o meno consapevole o malcelato spirito di superiorità nei confronti di chi la parla. Quante volte, del resto, le peculiarità di una lingua straniera sono state e sono usate a bella posta per fare satira: tutti ci siamo divertiti alle macchiette in "gramelot" giapponese, tedesco, americano, francese, inglese; per non parlare dei dialetti.
Ora da decenni la polemica pro e contro l'Esperanto si ripropone puntualmente e appare fortemente inficiata da pregiudizi e interessi che rischiano di oscurare quella che, forse, è proprio la soluzione, solo che la si voglia vedere, sgombrando il campo dai giochi di potere e di danaro.
Chi si fosse avventurato alla Fortezza da Basso durante i giorni del Social Forum Europeo, avrebbe potuto vedere come non sia affatto sfuggito al Movimento globale il valore di questo strumento di comunicazione diretta: le indicazioni dei corsi di esperanto e le pubblicazioni relative, erano di casa, anche se, nei dibattiti, i relatori stranieri usavano spesso l'inglese e le altre lingue e i giovani presenti dovevano cavarsela con l'aiuto dei circa 500 traduttori volontari. La varietà delle lingue era senz'altro significativa ed esaltante, ma certo sarebbe stato eccezionale anche avere un codice passepartout per poter dialogare direttamente con uno qualsiasi dei presenti. E' solo uno scenario fantascientifico (o, meglio, fantapolitico)? L'attenzione dei new-global non è argomento da poco in favore dell'esperanto. Del resto questa lingua ha le carte in regola per essere presa in considerazione: esiste da più dí un secolo, è parlata da varie comunità e associazioni di semplici cittadini in Europa e nel mondo, ha una sua tradizione letteraria e culturale di rilievo (si pensi che è stata tradotta in esperanto la nostra "Divina Commedia"), è semplice e facile da usare.
E' una lingua artificiale solo nel senso che è stata concepita e strutturata a tavolino da una mente eccelsa di grande utopista, il polacco Lazarus Ludwig Zamenhof, ma non è fuori della storia, anzi raccoglie le voci e le strutture storiche delle lingue indoeuropee e si propone come un codice comune che tutti, solo che lo vogliano, potrebbero facilmente acquisire senza sentirsi "colonizzati" dall'inglese che, essendo oltretutto una lingua la cui pronuncia è difficile quanto necessaria per la comprensione, mal si adatta ad essere esportata (infatti, finisce per cambiare natura quando la parlano gli altri).
A torto si pensa che essendo artificiale non possa "crescere" e acquisire spessore e flessibilità ulteriori: credo che questo potrebbe avvenire proprio in concomitanza con l'allargamento delle funzioni e del numero dei parlanti.
Spero che la Convenzione europea, quando si porrà ufficialmente il problema, raccolga il suggerimento che arriva dai movimenti giovanili. Anche perché basterebbe davvero poco per diffonderla attraverso le scuole della UE. Se oggi il 55% degli europei conosce l'inglese (ma quanti, poi, lo conoscono e lo parlano in modo decente?), nel giro di pochi anni l'esperanto potrebbe essere la lingua parlata dalle giovani generazioni e, come tutte le altre lingue parlate, maturare assieme all'Europa stessa. Anzi, fare una tale scelta sarebbe già un buon segno di maturità.
LIBERTA’ quotidiano di Piacenza del 3.12.02