Mondo intero - Amsterdam - 01.3.2008

Il nuovo colonialismo delle lingue

Diciotto Stati nordamericani hanno leggi che vietano l'uso dello spagnolo negli uffici pubblici. Una notizia simbolo di una politica che colpisce un gruppo sociale, attraverso uno dei suoi elementi costitutivi. La lingua.

Il nome del politologo Samuel Huntington è inscindibilmente legato al concetto di 'guerra di civiltà' che lanciò nel 1993 – con successo a quanto pare – che vorrebbe due schieramenti opposti a fronteggiarsi: la civiltà occidentale e quella islamica. . Undici anni dopo, il politologo e professore di Harvard scriveva Who Are We? The Challenges to America's National Identit (2004) sull'impatto della crescente immigrazione ispanica in Usa. «L'incapacità dei latini di integrarsi con la cultura e le abitudini anglosassoni – scrive il politologo - costituisce una sfida all’ideale americano di melting pot, sfida che rischia di spaccare in due il Paese». Sono gli ispanici a entrare nel mirino: una comunità cresciuta in maniera esponenziale, tanto da divenire un referente prezioso per chi vuole salire alla Casa Bianca. Ciò che preoccupa lo studioso è il fatto che, a differenza di tutti gli altri gruppi di migranti che hanno rinunciato alla loro lingua e cultura, gli ispanici si ostinino a vivere in una società parallela.

 

La lingua. E’ l’elemento discriminante: sono ormai molte le realtà metropolitane dove lo spagnolo è divenuta prima lingua o dove contende il primato all’inglese. Alfonso Alvarez, giornalista colombiano, racconta con un sorriso del canale satellitare Ispasat, tutto in spagnolo, che trasmette dritto dritto su territorio Usa. E’ divertito quando dice: “Siamo stati colonizzati in passato, spesso umiliati, ma è arrivato il momento in cui useremo un’arma potentissima: la nostra lingua”. Chi cambierà chi? Davvero la lingua può essere uno strumento di dominazione e imposizione culturale ancora oggi?

 

Una nuova scienza universitaria. Margriet Poppema è professoressa all’Università di Amsterdam. Docente e ricercatrice di un corso di studio del tutto nuovo. Si chiama “Educazione e sviluppo in società multiculturali”.

 

Professoressa, c’è un’argomentazione che viene spesso citato da Hungtington, quando parla della società statunitense come di un melting pot, dove gli ispanici cercano di resistere al potere di fusione che la società statunitense avrebbe in sé, quasi in maniera intrinseca. Che vuol dire, secondo lei?

“Hanno paura di perdere potere. Quando parlano della cultura americana, si riferiscono alla superiorità bianca, alla cultura protestante dei padri pellegrini che hanno creato l’American Dream. Conservatrice. Mirano a un ritorno al romanticismo anni ’50, a una cultura nazionale che in realtà non è mai esistita: fino al 1790, il 25 percento delle persone parlava lingue diverse. Imparare e parlare una lingua principale non significa, o almeno non dovrebbe significare, precludere agli individui di continuare a parlare altre lingue. Nelle scuole elitarie si insegnano quattro o cinque lingue: lo si considera forse un problema? Ma né Hungtington, né Bush lasciano la possibilità di una molteplicità di lingue. Il discorso è sempre in contrapposizione: si dice we e they, noi e loro. Noi siamo i bianchi. E loro sono loro. Distinzione non chiara; gli ispanici parlano inglese e imparano entrambe le lingue e la loro capacità di usare l’inglese è uguale a quella dei monolingue. Gli ispanici sono integrati, ma non si può chiedere a una minoranza di dimenticare la propria la lingua”.

 

A cosa porta il discorso di Huntington?

“A creare nuovi nemici. Molte più persone di diversa origine parlano inglese di quanto i cittadini di madre lingua inglesi parlino altre lingue. Questo rende difficile capire il movimento “English Only” e i movimenti anti bilinguismo nati negli Usa negli anni ’80 e che negli anni ’90 hanno avuto molto successo e rafforzano il pensiero di Huntington. L’esempio più estremo sono gli indigeni d’Amercia: usando l’inglese come mezzo di civilizzazione, e lingua di sradicamento (istituzionalizzando così scuole di “English only”), i nativi americani sono stati strappati dalle loro famiglie a una giovane età e indotti così a distruggere le loro usanze e lingue native, e questo è successo anche in Canada e in Australia (Wiley and Wright 2004 in “Educational Policy”).

Come si fa a misurare il ‘potere’ di una lingua?

“Non è certo il fatto che sia più parlata a renderla più potente di un’altra. Possiamo descrivere due grandi gruppi; quello delle lingue maggiori e quello delle minori. Le lingue che sono considerate maggiori hanno spesso più potere, perché sono intrecciate con le istituzioni, sono usate dal sistema educativo e politico e vengono quindi legittimate rispetto ad altre. In Turchia, per esempio, il turco è la lingua maggiore, anche se ci sono tantissime persone che parlano una lingua minore, il curdo. In altri paesi le lingue possono avere lo stesso status: in Canada l’inglese e il francese, in Finlandia il finlandese e lo svedese o, in Belgio, il francese e il fiammingo”.

 Quanto è importante avere una identità linguistica?

“Il senso di appartenenza a un gruppo che condivide cultura e lingua è importante, ma ogni individuo può identificarsi con molti gruppi differenti. Io, per esempio, parlo cinque lingue e non ho difficoltà a vivere la mia identità. Non è necessario avere una cultura nazionale, quanto credere in valori condivisi. Ci sono comunità etniche linguistiche che possono avere prospettive differenti, ma che condividono valori di una stessa cultura. L’unica soluzione è sposare una prospettiva multiculturale dell’identità; si deve garantire la possibilità di espressione a tutte le culture, perché manifestino la propria identità. E spesso condividi la cultura se conosci anche la lingua”.

 

Come descriverebbe la materia che insegna: Educazione e sviluppo in società multiculturali?

“È una materia che fino a quattro o cinque anni fa non era considerata. Riguarda l’educazione e lo sviluppo che vivono le società in espansione. L’opportunità che viene offerta ai bambini che parlano una lingua minore di avere un’educazione rilevante, soprattutto in società multiculturali e multilinguistiche, come in Guatemala. Un paese che in passato era considerato monolingua e monoculturale a causa di una forte politica colonialistica ispanica, mentre qui il 60 percento delle persone hanno una cultura indigena. È stato riconosciuto come un Paese multilinguistico e multiculturale perché i movimenti indigeni sono emersi e hanno avuto successo nelle negoziazioni per la pace. Dopo la decolonizzazione, molti Paesi hanno optato per una cultura nazionale per fortificare attitudini e valori. Ma questo è accaduto anche in Europa, quando sono state selezionate le lingue che hanno un potere politico ed economico; per esempio il francese in Francia o il castigliano, in Spagna imposto durante la dittatura franchista”.

Anche l’Europa è una società multilingue: crea un problema?

“Le lingue sono usate per comunicare, a seconda del contesto. In generale questo è considerato una forza e un tesoro. Le persone vogliono imparare le lingue per il loro valore comunicativo e, se impari una nuova lingua, impari nuovi modi di comprendere il mondo attraverso i proverbi, i miti, i simboli, la memoria collettiva, gli scherzi, i saluti”.


Claudia Barana

 

 Peace report 1/3/08