Tullio De Mauro, ordinario di Linguistica generale presso l’Università “La Sapienza” di Roma e studioso di fama internazionale, è attento al problema degli anglicismi nella lingua italiana fin dal 1963, data di pubblicazione della Storia linguistica dell’Italia unita (Bari, Laterza). Nel 1999 ha diretto il Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT, Torino, Utet); nel 2001 ha curato, insieme a Marco Mancini, il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (Milano, Garzanti). A De Mauro abbiamo rivolto alcune domande sull’ingresso degli anglicismi nella lingua italiana contemporanea.

Nella Storia linguistica dell'Italia unita, Lei quantificava nell'1,4% la quota dei forestierismi non adattati presenti in italiano; anche nel 1993, nel Lessico di frequenza dell'italiano parlato, osservava come gli anglicismi fossero a un livello di minima significatività statistica. Giuseppe Antonelli ha recentemente calcolato, sulla base del GRADIT, che gli anglicismi introdotti nella nostra lingua dal 1990 al 2003 sono più di 1.400, cioè quasi un terzo di quelli entrati nel corso della storia dell'italiano. Questo significa che la situazione è cambiata in modo radicale?
Dobbiamo sempre ben distinguere tra presenza di un qualsiasi fenomeno nell'inventario potenziale di una lingua e presenza nei testi e discorsi. Nel GRADIT, che Lei gentilmente cita, gli esotismi non adattati sono circa 10.000: dunque circa il 4% dei 250.000 lemmi registrati. Ma la loro effettiva presenza nei testi, fastidiosa ed eccessiva o no che sia, è enormemente più bassa, come si vede ad esempio dai dati del Lessico dell'italiano parlato, dove, tra l'altro, l'esotismo statisticamente principe è okay, e come del resto si vede dalle liste del vocabolario di base (il vocabolario fondamentale e di più alta frequenza) in cui, a parte sport e bar, gli esotismi non adattati si contano sulle punte delle dita.Certamente i dati GRADIT ci consentono di dire in modo non impressionistico che tra le fonti di nuovi esotismi l'inglese ha da oltre trent’anni il primato su ogni altra lingua.

Dunque l'allarme per l'invasione degli anglicismi resta ingiustificato?Ma vede, credo che la libertà di allarme sia un diritto umano primario. Non la negherei a nessuno. In fatto di lingua, personalmente, più che dagli anglismi o altri xenismi, sono allarmato da varie cose: dall'assai basso livello di conoscenza di lingue straniere nel confronto internazionale (sulla importanza di una buona conoscenza per usare in modo fine le parole della lingua nativa insisteva già Leopardi); oppure da un dato che forse dovrebbe preoccupare anche più largamente: alle indagini osservative di cui disponiamo risulta che più del 90% delle persone sa ormai usare l'italiano nel parlato, ma due terzi hanno difficoltà nella lettura e scrittura e metà di questi è a rischio di ripiombare nell'analfabetismo totale. Che italiano parleranno e parlano i due terzi o il terzo? Ogni lingua di società complesse esige certamente un retroterra di cultura intellettuale più ricco di quello nostro attuale e questo vale ancor più per lingue di antica e dominante tradizione scritta e di morfologia complicata, resa anomala dalle rilatinizzazioni, come è l'italiano. Questi mi paiono fenomeni più minacciosi e profondi rispetto all'esibizione di qualche anglismo di troppo.

Nel 1987, nella Presentazione al Dizionario degli anglicismi nell'italiano postunitario di Gaetano Rando, Luca Serianni affermava che alla consistente penetrazione dell'inglese nei settori tecnico-scientifici non corrispondesse un analogo primato nella lingua della conversazione tra persone colte e in quella familiare. Cosa è cambiato nel frattempo?
Direi che Serianni vedeva bene allora e che le cose non sono molto cambiate, come ho accennato già nella prima risposta. Solo un esempio tra mille: giorni fa ho partecipato per un'intera mattina a un interessante convegno sull'educazione degli adulti, hanno parlato decine di persone, si è parlato molto di istruzione e educazione lungo tutta la vita. Bene, nessuno ha mai detto long-life learnig, e sarebbe stato un anglismo giustificato dal largo uso tecnico internazionale.

Se negli anni Cinquanta la televisione ha insegnato l'italiano agli italiani, oggi sembra voler insegnare loro l'inglese. Quali effetti provoca nella lingua comune l'atteggiamento anglofilo dei grandi mezzi di comunicazione?
Magari insegnasse l'inglese davvero. Insegna, in titoli di trasmissioni e di sue articolazioni, l'esibizione sciocca e inutile di qualche anglismo, come educational per educativo. Del resto, anche come ministro, ho protestato in Parlamento contro queste ridicolaggini, il question time, per le interrogazioni urgenti, o il Welfare del ministro Maroni. Ha da passà a nuttata.

Intervista a cura di Emiliano Picchiorri - treccani.it