Il suo primo romanzo lo scrisse su rotoli di carta igienica, in un carcere di massima sicurezza a Kariti, in Kenya. Professore all'Università di Yale, intellettuale raffinatissimo, da anni in aria di Nobel, Ngũgĩ wa Thiong'o non ha dubbi: il colonialismo si è solo trasformato, ma oggi come ieri parla inglese, lingua che fiorisce sul cimitero delle altre lingue

«Nella vecchia scuola, gli insegnanti ci parlavano di re africani, come Shaka e Cethswayo. Accennavano alla conquista e all’occupazione bianca in Sudafrica e Kenya. Invece ora l’accento cadeva su esploratori bianchi come Livingstone. Imparavamo che i bianchi avevano scoperto il monte Kenya e molti dei nostri laghi, compreso il lago Victoria. Nella vecchia scuola il Kenya era un paese di neri. In quella nuova, si diceva che il Kenya, così come il Sudafrica, era scarsamente popolato prima dell’arrivo dei bianchi e perciò i bianchi avevano occupato aree disabitate. I bianchi avevano portato la medicina, il progresso, la pace». In Sogni in tempo di guerra, autobiografia sugli anni dell’adolescenza che lo avvieranno, primo della sua famiglia, agli studi superiori e poi all’università, Ngũgĩ wa Thiong’O racconta del passaggio delle logiche imperialiste all’interno di una mente integralmente colonizzata. Non è un caso, allora, che uno dei più importanti lavori di Ngũgĩ porti il titolo Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature.

Ngũgĩ, romanziere e saggista keniota, classe 1938, tra le voci più autorevoli della letteratura africana, lo elaborò a partire da alcune conferenze tenute nel 1984, in occasione del centenario della Conferenza di Berlino, che segnò la spartizione dell’Africa a tutto vantaggio dell’Europa coloniale. La pubblicazione in volume avvenne nel 1986, tre anni prima del crollo del Muro, sempre di Berlino. Da allora, il lavoro di Ngũgĩ non ha perso attualità, né smalto, avendo nel frattempo suscitato non solo reazioni estemporanee, ma una vera riflessione, con tanto di letteratura critica sul tema, anche fuori dai circoli degli africanisti. Nella traduzione di Maria Teresa Carbone, Decolonizzare la mente. la politica della lingua nella letteratura africana (pagine 125, euro 14) è adesso disponibile anche per i tipi delle edizioni Jaca Book.

Abbiamo incontrato Ngũgĩ nel corso di una presentazione milanese di questo suo importante lavoro.

La lingua - leggiamo nelle prime pagine di Decolonizzare la mente - è da sempre al centro di una contesa che attraversa tutta la questione africana nel XX secolo. Imperialismo e asservimento, da un lato. Tentativi di autoscienza dall’altro. In un certo senso, dal paraocchi imposti ai lavoratori africani, per piegarli sull’aratro e farli lavorare senza che potessero vedere alcun orizzonte, siamo passati a paraocchi molto più raffinati, che ognuno si mette da sé...
Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente

Leggi l'articolo completo di Marco Dotti - vita.it