David Mazzerelli

La comunicazione della comunità europea e le sue euro-vittime

Negli anni in cui stiamo vivendo ogni nostra azione sociale ed economica si svolge sempre all'interno di un contesto non più solo nazionale, ma il più delle volte euro-comunitario.

I testi prodotti dalla Commissione europea e dal Parlamento di bruxelles dovrebbero essere, quindi, patrimonio di tutti, invece sono riservati agli addetti ai lavori, quasi fossero antichi papiri incomprensibili. In effetti, incomprensibili lo sono davvero. Ma perché?

Cercheremo di rispondere a questo perché, e cercheremo di trovare le ragioni profonde di una politica multilingue tanto bella a parole, quanto estremamente difficile da applicarsi nella pratica.

Vedremo, cosa succede in Italia, ascolteremo le autodifese di funzionari e traduttori.

In una parola, proveremo a scoprire perché i cittadini europei si sentono euro-vittime e si considerano euro-scettici.

INTRODUZIONE: “CITTADINI DI UN SOGNO COMUNE”?

L’Europa: uniti nella diversità linguistica_

I grandi paesi usciti dalla seconda guerra mondiale si unirono nel trattato di Roma del 1957 per la costituzione dell’Unione europea. Da subito si pensò che, per scongiurare l’ipotesi di nuove guerre, si dovesse salvaguardare, all’interno di questa neo-nata unione, l’identità linguistica e culturale di ciascuna nazione.

Nessuna comunità avrebbe dovuto prevalere sull’altra. Ciascun paese aveva il diritto di mantenere la propria lingua e ciascun cittadino di parlarla e di usarla liberamente in ogni situazione.

Nel 1958 fu redatta la “Carta delle lingue d’Europa” che stabiliva i principi fondamentali della politica multilingue. Ad ogni cittadino, quindi, era consentito come diritto, di comunicare nella propria lingua madre e gli organi europei, a loro volta, avevano il dovere di comunicare al cittadino in quella stessa lingua. Così come ogni membro del parlamento aveva il diritto di parlare nel proprio idioma in quanto rappresentante della sua comunità nazionale.

Negli ultimi anni, la politica linguistica dell’Unione non è cambiata, nonostante i numerosi allargamenti; anzi, le lingue parlate a Bruxelles stanno aumentando sempre di più, e la traduzione multilingue dovrà portare su di sé il carico di numerose nuove comunità provenienti dall’est dell’Europa, che, soprattutto culturalmente, sono distanti dal gruppo dei paesi fondatori.

Iniziamo a comprendere come la voce dell’Europa si esprima, in grandissima parte, tramite la traduzione. Se è così, in che modo si è introdotta la traduzione nel colosso burocratico che è l’Unione europea?

In realtà, secondo molti, non esiterebbe la traduzione ma la “redazione”.

Nel biennio 1957-58 si parlò di “redazione simultanea” nelle lingue dei paesi fondatori.

Con il graduale allargamento, per ragioni pratiche, si scelse di operare una redazione simultanea e si distingueva tra professionisti che lavoravo sul contenuto da professionisti che lavoravano sulla lingua. Ai traduttori veniva affidato un testo e loro avevano il compito di redarlo.

La traduzione non ci porta problemi nuovi: già i traduttori latini si accorsero che tradurre doveva essere una vera e propria operazione di decisione e di scelta; non si trattava solo di sostituire alcune parole ad altre, ma era necessario interpretare, ripensare e ricreare il testo.

Tanto più il testo era tecnico tanto più facile avrebbe dovuto essere la traduzione.

Inoltre, fin da allora si era compreso il rischio che le parole avessero significati diversi in diverse culture.

Una comunicazione difficile_

Oggi la traduzione dell’Unione ha la necessità di essere compresa da tutti i cittadini di ogni paese. Ma la comprensibilità dei testi rimane un grosso scoglio che non aiuta ad avvicinare le istituzioni di Bruxelles alla gente, anzi forse ne accentua la distanza, già percepita da molti.

Benedetto Croce disse che “La traduzione se è fedele è incomprensibile e brutta, se è bella non è fedele”.

Goethe diceva: “La traduzione è un’operazione necessaria ma impossibile.”

Entrambi avevano ragione: la traduzione è uno scoglio duro perché non è un atto teorico, e quindi non esiste un metodo.

Negli ultimi anni, il problema della distanza tra i cittadini e i palazzi dell’Unione si è fatta sempre più tangibile. La gente è sempre più euro-scettica e mancante di fiducia nei riguardi dei palazzi dell’Unione, palazzi che vede solo come un surplus di burocrazia (come se non bastasse quella già esistente nel proprio paese!)

Iniziamo a percepire il problema della comunicazione tra Europa e cittadino europeo come un vero e proprio problema politico.

2 _ LA POLITICA DEL MULTILINGUISMO_

“La diversità linguistica dovrà essere preservata e il multilinguismo dovrà essere promosso nell’Unione, con rispetto per l’Uguaglianza delle lingue dell’Unione.”

Consiglio europeo, 12 Giugno 1995

Pari dignità_

Oggi vale il principio per cui tutte le lingue dell’Unione hanno pari dignità; capiamo bene quindi che tante saranno le lingue in cui dovrà esser tradotta la mole di documenti comunitari, ben undici.

Redarre tutto simultaneamente, come si faceva una volta quando le lingue erano solo quattro, oggi appare impossibile.

Si traduce in un secondo momento, spesso nel lasso di tempo di poco più di un’ora, per rendere disponibili i testi in ogni versione linguistica a ciascun membro del parlamento. E’ diritto, infatti, di ogni membro di poter adoperare la propria lingua in tutti i lavori giornalieri. E’ importante capire infatti, che l’euro-deputato, nel momento in cui siede a Bruxelles, non rappresenta se stesso ma la sua intera comunità nazionale. Una comunità nazionale che ha, a sua volta il diritto di leggere e comprendere nella propria lingua le direttive che vengono impartite dai palazzi dell’Unione.

Un tempo i lettori di quei documenti erano pochi, e quei documenti di solito riguardavano proprio quei pochi. Adesso che l’Europa è entrata prepotentemente nella vita di tutti e di tutti i giorni, sarebbe auspicabile che una maggior crescita dei lettori corrispondesse anche ad una maggior chiarezza nella lingua di chi traduce testi spesso, appunto, fondamentali per regolare la vita sociale ed economica.

La lingua scritta come modello_

Nel caso di una lingua scritta, traduciamo, nel caso di una lingua parlata, interpretiamo.

I cambiamenti, di solito, si avvertono sempre prima al livello del parlato, e solo in seguito anche nella lingua scritta. E’ questo il caso dell’Unione Europea? No.

Nella UE avviene il contrario: ciò che rimane nel tempo è la lingua scritta. Quest’ultima finisce poi per diventare un vero e proprio modello.

Solitamente, la lingua parlata è sempre quella più innovativa, la lingua scritta introduce innovazioni già diffuse nel parlato. Nell’Unione, invece, le innovazioni diventano modelli solo dopo essere stati messi nero su bianco su di un testo.

Le istituzioni più importanti dell’Europa unita sono il Parlamento e la Commissione; entrambe usano una diversa politica linguistica. Per la comunicazione ufficiale la scelta è caduta sul francese e sull’inglese, che spesso sono anche le lingue degli “originali” dei documenti prodotti dai lavori dell’Unione che poi vengono tradotti in ciascuna lingua.

Le sedute del Parlamento richiedono una massiccia presenza dei traduttori, questo non avviene all’interno della Commissione, dove esiste però un altro problema: i testi “originali” sono scritti da “non-nativi”. Perché questa situazione?

Perché i paesi che fanno parte dell’Unione sono tanti (con l’allargamento saranno sempre di più) e ciascuno manda a Bruxelles i propri funzionari a redarre i documenti in una lingua che non è quella madre del paese d’origine. Si pensi, ad esempio, ad un funzionario Estone che scrive un “originale” della commissione in Inglese: esso risulterà già impreciso di per sé (per quanto possa essere abile il funzionario), figurarsi cosa ne risulterà quando, quello stesso documento verrò tradotto nelle varie lingue dell’Unione…

Lingua e burocrazia europea: che ne pensano i vari paesi?_

Ma come è vissuto, all’interno dei paesi della comunità il fatto nuovo che la propria lingua nazionale venga contaminata, in seguito alla politica del multilinguismo, (spesso) anglicismi?

Vi sono differenti reazioni da paese a paese: in Germania c’è chi vede in questo una positiva adattabilità della propria lingua nazionale e chi invece vi scorge un eccessiva permeabilità alle contaminazioni straniere.

La critica maggiore proviene dalla Francia, negli ambienti (e non sono pochi) che manifestano palese ostilità verso la lingua inglese.

Nei paesi dell’area mediterranea (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia) c’è maggior fiducia nel progetto europeo, e il ruolo dell’inglese come lingua che metta d’accordo un po’ tutti, è addirittura incoraggiato.

Concludiamo questa breve carrellata con l’Inghilterra, dove paradossalmente si registrano i malumori più forti all’interno di un’opinione pubblica che (come in Francia) è insofferente verso l’Unione Europea.

Nei paesi dove i testi comunitari arrivano sempre in traduzione e quasi mai in “originale”, l’opinione pubblica si sforza maggiormente di comprendere quello che gli viene detto da Bruxelles e più forte è la passione per la causa europea, negli altri, dove il proprio idioma è lingua di lavoro (inglese e francese), come abbiam visto, le opinioni pubbliche sono sconcertate dall’uso che i funzionari della Comunità fanno del loro lessico, impoverendolo e rendendolo arido e incomprensibile.

In generale, se non guardassimo alle motivazioni più o meno elevate per la causa europea, dovunque (dalla Scandinavia alla Grecia) si registrano problemi di comprensione della lingua dei palazzi di vetro dell’Unione.

Considerando infine che l’Unione produce un numero elevatissimo di documenti tradotti ogni anno, che si vanno a riversare ciascuno nel paese d’origine, capiamo bene come si arrechino seri danni alle varie comunità nazionali.

I danni più rilevanti li stanno accusando quei paesi che avevano fatto della estrema semplicità e comunicabilità dei rapporti tra istituzioni e cittadino la loro bandiera: i paesi scandinavi. Questi ultimi vedono, più di altri, i documenti “saliti” da Bruxelles come una fastidiosa invasione e stupro della propria lingua madre.

3_ LA TRADUZIONE, I TRADUTTORI E I TANTI PROBLEMI.

Il paradosso della traduzione_

Secondo l’ipotesi Saphir-Whorf, sarebbe la lingua che parliamo a determinare il nostro modo di capire la realtà.

Comunichiamo in un idioma ed esso finisce per far da filtro ad ogni nostro approccio col mondo.

Parlare una lingua significa, in definitiva, pensare con quella lingua; e se quella lingua è figlia di una determinata cultura, finiremo per pensare e vedere la realtà nell’ottica di quella cultura.

Poiché parliamo lingue diverse, diverse saranno anche le visioni del mondo nelle varie comunità nazionali (europee nel nostro caso), benché affine sia la storia e la cultura dei due popoli (in Europa apparteniamo tutti alla cultura Occidentale).

Capiamo quindi come la traduzione sia fondata su di un paradosso: come è possibile tradurre una lingua in un’altra se dietro vi sono due visioni diverse del mondo?

A livello grammaticale categorie simili si potranno individuare nelle lingua indoeuropee, ma se prendessimo sistemi come, ad esempio, quello cinese, il divario sarebbe immenso sia a livello culturale sia di categorie grammaticali.

Comunque sia, la traduzione è necessaria e ogni problema va affrontato, ed in qualche maniera risolto. Prendiamo ad esempio il caso dei nomi propri e di città: come tradurli?

Nel passato di adattavano in italiano con risultati talvolta goffi, talvolta anche buoni.

Diciamo ancora oggi “Londra”, “Parigi”, ma “Manchester” e non “Mancunio”!

Diciamo “Bacon” ma anche “Bacone”, “Cartesio” e “Descartes”.

Questo per quanto riguarda i nomi propri, ma un altro problema tipico del trasferimento linguistico tra due culture diverse è la punteggiatura: ad esempio, la virgola dopo la “e” è usata in inglese, e da molti invece è considerata errore in italiano.

Ogni divieto ed ogni regola, come possiamo dedurre dai casi appena citati, non può essere riprodotta tout court in un altro sistema linguistico e poi presumere che la comprensione generale non ne risenta.

Il compito ingrato del traduttore_

Il Traduttore esegue un doppio lavoro: si misura con due testi, di entrata e di uscita, che deve far suoi in egual misura.

Chi produce un testo, ossia l’autore, pensa principalmente a comunicare in maniera personale affidandosi alla lingua che conosce, che ha studiato, ma che molto spesso non è la sua.

Nonostante tutto, questo risulta alla fine un compito più semplice di quello che aspetta il traduttore.

Quest’ultimo infatti dovrà mettere in atto risorse maggiori, per penetrare nel testo di partenza (nell”originale”) e svelarne le trame comunicative personali dell’autore che lo ha redatto in precedenza.

Riguardo al testo di arrivo, egli dovrà assicurarsi che vi sia lo stesso rapporto tra testualità e grammatica sottostante, secondo le proprietà della lingua che deve usare e dell’ambiente in cui, di solito, viene usata.

Anche quando si troverà ad operare con due lingue e due culture apparentemente affini e vicine, il trasferimento testuale dall’una all’altra non sarà mai cosa da poco, e non sarà mai completamente affidabile.

Il diverso “stile della lingua” può indurre ad errori comunicativi che accrescono ancora di più la vaghezza del documento.

La politica multilingue diceva che tutto doveva essere tradotto.

La situazione reale è più complessa e meno ottimistica delle intenzioni della legge.

All’inizio i paesi nella UE erano appena quattro. Oggi le lingue ufficiali sono ben undici. La traduzione non può più essere simultanea.

Il proposito di condurre i lavori con una lingua, per poi tradurre i documenti nelle altre dieci ha creato un paradosso: oggi un deputato monolingue confonde l’equivalenza legale con quella testuale. Questi politici concepiscono ancora la traduzione come processo automatico. Esiste anche un ingenuità per quanto riguarda la differenza tra il ruolo dei vari funzionari che redigono i testi e i traduttori a cui spetta il compito di tradurli. I primi, infatti, benché abbiano il dovere di conoscere due lingue, non hanno la competenza che può avere un traduttore professionista.

Il servizio traduzione della UE è il più grande del mondo, e l’esperienza degli strapagati funzionari e traduttori è essenziale perché la macchina burocratica giri. Ci si aspetterebbe un servizio di eccellenza, ma purtroppo non è così.

Equivalenze legali ed equivalenze linguistico-testuali_

Esiste una forte differenza tra equivalenza legale ed equivalenza testuale.

L’equivalenza legale è un concetto giuridico che può non aver bisogno di dimostrazioni, è un principio troppo spesso dato per scontato, ad esempio, un assioma può essere il dire che le varie versioni dei testi dell’Unione hanno valore legale in qualsiasi paese e in qualsiasi lingua.

Il principio dell’”equivalenza legale” è postulato dalla stessa Commissione europea. Quest’ultima afferma, non senza una certa dose di presunzione, che le diverse versioni dei documenti, nelle diverse lingue, non debbano essere messe in discussione in quanto dicono sempre le medesime cose.

Appellandosi all’equivalenza legale si può affermare che, ad esempio, uno stesso testo, nelle varie versioni, ha il medesimo valore giuridico, e ciascun cittadino, indipendentemente dalla sua nazionalità, vi ci si può appellare.

Sembrerebbe non ci sia niente di sbagliato in tutto ciò, se non fosse che il funzionamento della traduzione multilingue sia andato peggiorando nel tempo e la ragione sta nel fatto che i criteri linguistici della traduzione sono spesso superficiali e erronei; questo fa sì che il valore dell’equivalenza legale, tanto decantato, venga meno al momento della stesura del testo nella sua versione multilingue.

L’Equivalenza testuale, invece, è un concetto che appartiene maggiormente alla realtà e sta ad indicare l’effettivo grado di corrispondenza semantica fra due o più versioni tradotte di uno stesso testo.

In realtà non tutto è così semplice: la resa qualitativa di comprensione di un testo dipenderà infatti molto dal lavoro del traduttore, le cui decisioni possono essere più o meno adeguate. Ci si avvicinerà all’equivalenza linguistica se ai traduttori sarà riconosciuto il ruolo essenziale di mediatori interculturali.

Purtroppo, decenni di fede totale nell’equivalenza legale sono andati a scapito di una buona equivalenza linguistica.

Ai burocrati e ai politici di Bruxelles basta che vi sia corrispondenza visiva per affermare l’eguaglianza legale e testuale di due documenti. Ma questa rilevazione superficiale non è sufficiente.

E’ l’ora che anche questi personaggi capiscano che il vero problema risiede nella “nebbiosità” degli “originali” e che scoraggiare gli interventi personali dei traduttori non è la via giusta, anzi, un traduttore che parte da un’originale inglese vago e di scarsa qualità, seguendo il metodo della traduzione letterale, non potrà che dar vita a copie multilingue anch’esse vaghe e di scarsa qualità.

I problemi della traduzione_

Il traduttore però, come abbiam visto, ha le mani legate dal sistema.

Ad incidere sulla incomprensibilità del testo finale si aggiunge il fatto che a redigere il testo spesso sono due o più traduttori in staffetta (con le prevedibili conseguenze di incongruenza, e di esempi frequenti di uno stesso termine tradotto in più modi diversi).

Non solo: il documento è, a volte, anche scritto in due lingue diverse (parti in francese e parti in inglese, ad esempio. Inoltre si utilizzano frequentemente, per una stessa traduzione, originali diversi.

Ad incidere sulla cattiva qualità dei testi comunitari ci sono anche i forti ritmi di lavoro che costringono i traduttori a dover approntare un documento nel giro di pochissimo tempo.

Viene meno quindi il momento importante del confronto e della riflessione.

Un altro problema essenziale, forse quello centrale, è l’inadeguatezza dei testi d’origine.

Gli “originali”, difatti, sono redatti da funzionari di scarsa competenza e di lingua madre diversa da quella in cui redigono il testo.

In conclusione, la “colpa” più che ricadere in toto sui traduttori, andrebbe più opportunamente distribuita nel sistema nel suo insieme, sistema i cui ingranaggi, troppo spesso, sono lenti e complessi, pesanti, lontani l’uno dall’altro e lontani dalla realtà di ogni giorno nella quale vivono i cittadini dell’unione.

I problemi della traduzione: la traduzione letterale_

Nelle traduzioni letterarie il buon traduttore cercherà di non intervenire sul contenuto, ma di far sentire nel discorso le caratteristiche linguistiche del testo originale.

Invece, in un testo più argomentativo, il traduttore cercherà di raggiungere l’equivalenza, anche se il lettore perderà di vista l’originale.

E’ assai improbabile che il risultato di una traduzione letterale sia una corrispondenza semantica fra i due testi.

Eppure la traduzione letterale, che non è adatta a nessun tipo di documento, sembra essere quasi incoraggiata dalle istituzioni comunitarie, e sicuramente rappresenta l’unica via tracciata da quest’ultime. Eppure dovrebbero essersene resi conto, i funzionari Ue, che gli argomenti tradotti letteralmente perdono di credibilità, di comunicabilità, per non parlare della perdita, ancor più

grave, delle sfumature tipiche di una cultura, che spesso esemplificano un concetto meglio di mille giri di parole, sfumature che, con questo genere di traduzione, vengono inevitabilmente perdute.

Sono stati commessi svariati errori nei testi frutto del lavoro delle istituzioni europee, spesso a causa di una traduzione letterale che, come abbiamo appena avuto modo di vedere, è un approccio sbagliato.

In Italia, purtroppo, non ci si stupisce più di tanto se i documenti dell’Unione sono incomprensibili, in quanto i cittadini italiani sono già abituati all’incomprensibilità della burocrazia del loro paese.

In Gran Bretagna si da la colpa ai burocrati di Bruxelles. Qua l’idea antieuropea è largamente diffusa.

In Francia si pensa che l’Unione Europea sia vittima dell’imperialismo americano, sotto ogni punto di vista.

I paesi scandinavi rimangono perplessi e preoccupati dalla complessità dei meccanismi burocratici Ue e dalla pessima comunicazione che danneggia i cittadini, cittadini con i quali, le istituzioni di questi paesi, hanno storicamente un ottimo rapporto.

Esiste poco dibattito e poca considerazione riguardo a questi temi.

Il problema è un problema di quantità: esistono tante lingue in seno alla Comunità e prima che un paese possa entrare deve tradurre tutti i documenti nella propria lingua madre. Tutto ciò crea spesso degli imbarazzi linguistici e culturali, come nell’esempio della Polonia, paese che per decenni ha vissuto sotto il regime comunista, nel quale i termini che parlano di “gestione democratica” hanno difficile traduzione.

La parola agli imputati_

La presidenza della Commissione di Romano Prodi ha recentemente introdotto “Citizien First”, un’iniziativa che si preoccupa di migliorare la qualità della comunicazione: “le istituzioni comunitarie”, recita il testo, “devono operare in modo più aperto e con gli Stati membri devono adoperarsi al meglio con linguaggi comprensibili ai cittadini, al fine di far capire a tutti cosa fa l’EU” La volontà politica di una comunicazione di qualità quindi, sembra esserci.

Il timore che la gente abbia sfiducia crescente nelle istituzioni comunitarie è un timore fondato.

Questa sfiducia sta provocando un allontanamento della popolazione dalla causa comune, da quel “sogno comune” che i padri fondatori avevano visto nell’Europa unita.

Perché si hanno risultati tanto modesti nonostante la mole dello staff di traduttori?

Secondo un’indagine, vi sarebbero tre parti in causa: il grande pubblico, i traduttori e gli autori dei testi “originali” che poi vengono tradotti. Si è visto come queste tre parti erano in totale disaccordo tra di loro.

Il grande pubblico sostiene che di quello che viene presentato dalle istituzioni poco si capisce; tante belle parole che alla fine, tirando le somme, significano poco o niente. Il problema quindi, per la gente, è più ad un livello semantico che sintattico od ortografico.

E gli autori dei testi cosa ne pensano?

Essi scrivono per lo più in inglese (dal 1975 l’inglese è la lingua di lavoro della UE) e scaricano le colpe di difficoltà comunicativa dei testi sui traduttori, che quegli stessi testi, traducono (male,secondo il parere degli autori) in tutte le lingue della Comunità.

Dunque è davvero colpa dei traduttori? E loro, i traduttori, come si difendono da questo “scarica barile”?

I traduttori sostengono che i testi che vengono loro affidati sono già di per sé assai vaghi, senza una lingua culturalmente marcata. Essi si domandano come mai l’Unione abbia prodotto tanti discorsi ma mai dei modelli concreti a cui riferirsi nel lavoro di traduzione.

Al traduttore, sostengono, è pregiudicata la via dell’espressione personale e della altrettanto personale considerazione e giudizio linguistico sul testo. Sono considerati sì professionisti, ma alla stregua di macchine.

Un traduttore, invece, proprio per la sua grande competenza, potrebbe anche vigilare sulla lingua, fare ricerca e dare il proprio personale contributo. Più potere, quindi, e mani più libere, è la richiesta traduttori.

Queste diatribe tra autori e traduttori non producono altro che insoddisfazione nei cittadini che dovrebbero trarre benefico dal loro lavoro, e che invece si sentono sempre più spesso delle vittime della burocrazia.

La soluzione sarebbe la semplicità, ma come ottenerla? Nessuno lo sa bene.

Le alternative sembrerebbero: o la scelta di una lingua naturale (l’inglese) da imporre a tutti i paesi o “un esperanto” che metta d’accordo un po’ tutti quanti.

Entrambe appaiono impercorribili: la prima per palese ingiustizia nei confronti della dignità degli altri idiomi, la seconda perché una lingua artificiale creata a tavolino servirebbe solo ad aumentare la confusione, ammesso che esistesse qualcuno tanto volenteroso da impararla tout court.

IL CASO-ITALIA_

Abituati a non capire_

I problemi della lingua italiana sono dovuti ad una discontinuità nel suo uso, e non dai limiti della sua struttura.

L’italiano, ai tempi di Manzoni, non era parlato da nessuno, perché era una lingua tramandata da una tradizione esclusivamente letteraria. Adesso, in una situazione in cui la gente parla in italiano regionale (una forma sviluppatesi a contatto col dialetto), e in cui da pochi decenni (grazie soprattutto all’avvento dei mezzi di comunicazione di massa) l’italiano è compreso da tutti, ci chiediamo se la nostra lingua, così storicamente fragile per lo scarso uso nel passato, sia soggetta, più di altre lingue europee alla contaminazione dell’inglese.

La traduzione per prima, spesso risente di questa contaminazione a livello di tracciato argomentativo: traducendo in italiano si trasferisce semplicemente i contenuti delle discussioni internazionali, appartenenti a culture diverse, confidando soprattutto sulla familiarità dei lettori con le situazioni di cui si parla.

Del resto, l’italiano medio è già “abituato” dalla “non-lingua” della sua burocrazia, è già abituato a non comprendere mai bene quello che gli si sta comunicando.

Ci si accontenta di capire il senso generale, proprio quello che ci tocca fare anche con i testi comunitari.

Salvaguardare la nostra lingua? Ma come?

Due sole sembrano le strade praticabili: od optare per la traducibilità, venendo in soccorso al significato e alla comprensione a scapito delle risorse della lingua italiana, o difenderla, la lingua italiana, a scapito dell’immediata comprensione del significato.

In un futuro il dilemma riguarderà il difendere o meno il nostro idioma. E se la sua difesa si presenterà come un ostacolo all’integrazione europea delle future generazioni, che succederà?

Si smetterà di difendere l’italiano e si lascerà che venga contaminato completamente?

Tradurre in italiano: i nebbiosi risultati_

Quando leggiamo le traduzioni in italiano ci accorgiamo come ogni paragrafo sia ben definito e aperto da un titolo che ne dovrebbe esplicare il contenuto, se non che, quando lo andiamo a leggere, arriviamo alla fine senza riuscire minimamente a ricavarne un senso. Perché questa difficoltà?

Perché i periodi tradotti in italiano risultano densi, nebbiosi, estremamente generici e confusi.

Vengono proposte mille idee ma nessuna è collegata all’altra in modo coerente, il risultato è un’inutilità del testo ai fini dell’applicazione pratica nella vita degli euro-cittadini.

Vaghi sono i periodi perché vaghe sono molto spesso le parole, i termini che quelle frasi contengono.

Arcaismi, parole difficili e assurde che creano un effetto “lingua della burocrazia” quasi tragicomico. E’ l’idioma che Calvino chiamava “l’antilingua”: “Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo ad una prospettiva di vocaboli che di per sé stessi non vogliono dir niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente.”

Continuando nella lettura del nostro testo della Commissione, tradotto in italiano, ci rendiamo sempre più conto quanto sia difficoltoso capire concretamente i termini della proposta.

Abbiamo la sensazione di avere di fronte un susseguirsi di medesimi concetti, che si ripetono e si ripetono senza mai giungere a conclusioni. Toni alti, quasi aulici che seguono improvvisamente ad espressioni al limite del colloquialismo, parole sempre diverse per indicare uno stesso concetto, insomma una macedonia lessicale che certo non viene incontro alla comprensibilità di ciò che ci si era proposti di comunicare all’inizio.

Ancora una volta le colpe ricadono sui traduttori?

In realtà sotto processo non è mai la professionalità di questi soggetti, quanto il sistema sbagliato di organizzazione in cui essi sono inseriti, troppo macchinoso e fin troppo pesante nelle procedure.

+ “(…)è una contraddizione della nostra epoca: da un lato abbiamo bisogno che ciò che viene detto sia traducibile in altre lingue, dall’altro abbiamo la coscienza che ogni lingua sia un sistema di pensiero a se stante, intraducibile per definizione. Le mie previsioni sono queste: ogni lingua si concentrerà attorno a due poli, un polo di immediata traducibilità (…) tendente ad avvicinarsi ad una sorta di interlingua mondiale ad alto livello, ed un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza e di cui saranno investiti istituti diversi (…) e la creatività poetica della letteratura.”

“L’italiano nella sua anima lungamente soffocata, ha tutto ciò che occorre per tenere assieme uno, due poli… se invece la spinta verso l’anti-lingua non si fermerà, ma continuerà a dilagare, l’italiano scomparirà dalla carta linguistica d’Europa come uno strumento inservibile.”

I Calvino, 1965, “L’italiano una lingua tra le altre lingue”

Ultima Thule- Libera rivista di sperimentazione culturale