Claudio Gnoli

 

L’esperanto e le altre

Ma la lingua “universale” rischia di essere l’inglese
portato con le armi e la colonizzazione culturale


Con l’espressione “lingue artificiali” s’intende indicare le lingue create consapevolmente dall’uomo, per i piú diversi scopi, con l’opera del proprio ingegno.

Le lingue artificiali si contrappongono, quindi, alle naturali, le quali si sviluppano e si affermano nelle culture umane in larga parte spontaneamente e non per un atto di creazione consapevole. Le lingue artificiali sono lingue vere e proprie, attraverso le quali, almeno potenzialmente, può essere espresso qualsiasi concetto, e nelle quali qualsiasi discorso può essere tradotto.

In questo esse si distinguono dai linguaggi tecnici e specialistici, come, per esempio, i simboli della matematica, o i linguaggi di programmazione, che, pur essendo progettati deliberatamente, sono utilizzabili solo in ambiti limitati.

Anche dopo averle definite, non è facile avere un’idea precisa di che cosa in effetti siano le lingue artificiali. Ciò si deve anche al fatto che ne esistono molti tipi, assai diversi fra loro, sia nella struttura che negli scopi e nel numero di persone che effettivamente le parlano o le hanno parlate. La lingua artificiale piú famosa è certamente l’esperanto, creato per favorire la comunicazione internazionale; ma relativamente nota, e parlata da parecchie persone, è anche una lingua completamente diversa, come il klingon, sviluppata a partire da una serie di telefilm di fantascienza.


L’epoca delle lingue filosofiche

Originariamente, l’idea di una lingua costruita fu collegata soprattutto alla conoscenza filosofica o addirittura religiosa e mistica. I metodi obiettivi di analisi della linguistica moderna si sono sviluppati soltanto in tempi molto recenti, e nei secoli passati le lingue erano considerate in modo “ingenuo” come riflessi della verità. Una lingua speciale, creata e studiata in contesti insoliti, era quindi automaticamente vista come qualcosa di magico e di straordinario, che doveva riflettere qualcosa di altrettanto straordinario, qualche verità superiore.

Diverse tradizioni religiose, come, ad esempio, la cabala ebraica, fin da tempi antichi attribuivano valori profondi alle parole o alle singole lettere, elaborando complesse “grammatiche” di significati a partire dalle parole delle lingue naturali. La prima lingua artificiale vera e propria potrebbe essere considerata il balaibalan, un idioma sacro sviluppato nell’ambito della setta Hurufi attorno al XVI secolo: se ne sa molto poco, ma è stato tramandato un testo religioso in balaibalan dal quale emerge un vocabolario originale, innestato su una sintassi analoga all’arabo (De Sacy, 1813).

Anche diversi filosofi europei pensarono a delle lingue artificiali. Thomas Moore (Tommaso Moro) riporta nella sua “Utopia” del 1516 qualche frase in una lingua utopica, probabilmente opera di P. Gilles.

Un vero pioniere dell’idea moderna di lingua artificiale, anche se solo sul piano teorico, è il grande filosofo francese René Descartes (Cartesio). Egli, in una lettera del 1629 indirizzata al padre Mersenne, ipotizza una lingua universale fondata su principi di semplicità, con coniugazioni e declinazioni regolari e priva di eccezioni: qualcosa di simile a ciò che sarebbe stato realizzato dall’esperanto; ma piú avanti egli precisa che una vera lingua universale non potrebbe che essere una lingua filosofica, una lingua, cioè, nella quale le forme delle parole e dei simboli rispecchiassero l’ordine universale dei pensieri umani: una volta che si individuassero le “idee semplici”, sarebbe facile derivare da esse tutta la lingua, e, attraverso questa, ottenere una conoscenza piú vera e completa di quella per il momento disponibile.

L’invenzione di questa lingua dipende dalla vera Filosofia; poiché altrimenti è impossibile enumerare tutti pensieri dell’uomo e disporli in ordine, e anche soltanto distinguerli in modo tale che risultino chiari e semplici; e se qualcuno avesse spiegato bene quali sono le idee semplici che stanno nell’immaginazione degli uomini, delle quali si compone tutto ciò che essi pensano, e ciò fosse recepito da tutti, non sarebbe difficile inventare una lingua universale assai facile da imparare, da pronunciare e da scrivere e, cosa principale, che sarebbe d’aiuto al giudizio, rappresentando ogni cosa cosí chiaramente che sbagliarsi risulterebbe quasi impossibile.

Un altro teorizzatore di una lingua artificiale fu il ceco Jan Amos Komenský (Comenio), morto nel 1670. I suoi scopi erano diversi da quelli di Cartesio: per Comenio l’apprendimento di una lingua artificiale, che unificasse e perfezionasse le caratteristiche delle molte lingue naturali, rappresentava un’elevazione dello spirito umano che l’avrebbe salvato dal caos del mondo contemporaneo in vista dell’avvicinarsi della fine del mondo. Anche se non sviluppò una lingua completa, Comenio ne schizzò diverse parti, modellate su schemi regolari di derivazione: ad esempio, nella sua lingua dalla radice del verbo “essere”, «bi», derivano il presente: «abi» (“io sono”), «ebi» (“tu sei”), «ibi» (“egli è”), eccetera, il passato «abil» (“io fui”), «ebil» (“tu fosti”), «ibil» (“egli fu”), e cosí via.

Il concetto di lingua filosofica venne poi realizzato in modo compiuto da diversi autori nel corso del Seicento. Il primo di loro fu lo scozzese George Dalgarno, che nell’“Ars Signorum”, pubblicata nel 1661, espose un sistema “logico” per la formazione delle parole a partire dai significati primitivi che le costituiscono.

Ogni lettera, nella lingua filosofica di Dalgarno, corrisponde a una classe di concetti: al livello piú alto. «A» indica gli esseri, «H» (eta) le sostanze, «E» gli accidenti, «I» gli esseri concreti, «O» i corpi, «K» gli accidenti politici. Eccetera. Ciascuna classe si divide poi in sottoclassi indicate da una seconda lettera; queste a loro volta in sottoclassi indicate da una terza lettera, e cosí via, procedendo con sempre maggiori specificazioni. Ad esempio, «nubgrhm» significa “mostarda”, in quanto composto da «N» (concreto fisico), «u» (condimento), «b» (vesca -?. Ndr-), «g» (qualità sensibile), «h» (sapore), «r-m» (amaro). Le lettere non hanno di per sé significati fissi, ma funzionano come simboli, analoghi a cifre, che indicano determinate sottoclassi a seconda della posizione in cui si trovano (lo stesso principio è usato nei moderni sistemi di classificazione bibliografica); ciò che è “filosofico” è l’intero sistema di classificazione delle idee, che fa sí che la parola indicante un determinato concetto non sia casuale, bensí simile ad altre parole indicanti concetti simili: ad esempio «Nhkh» (cavallo), «Nkhe» (asino), «Nkho» (mulo). Questo sistema, per quanto inelegante, implica in realtà grandi difficoltà di memorizzazione e di comprensione, proprio perché i concetti simili sono indicati da parole simili che è difficile distinguere tra loro. Le parole possono essere connesse a formare frasi per mezzo di un set di parole speciali indicanti pronomi, desinenze grammaticali e cosí via.

In questo modo, come recita il sottotitolo dell’”Ars Signorum”, «Gli uomini di idiomi diversissimi potranno, nello spazio di due settimane, mutuamente comunicare tutti i sensi dell’animo loro (nelle cose familiari) non meno intelligibilmente, sia per iscritto che oralmente, che nelle proprie lingue vernacole. Inoltre con questo mezzo i giovani potranno assimilare i principi della filosofia e la vera pratica della logica piú presto e piú facilmente che usando gli scritti dei filosofi in volgare».

Un meccanismo simile fu descritto nello stesso anno dal tedesco Johannes J. Becher: il suo sistema consta però non di parole originali, ma di numeri che corrispondono alle voci di un dizionario. Questi numeri possono essere tradotti in qualsiasi lingua, e quindi fungere da mezzo di comunicazione scritto comune tra parlanti di lingue diverse. La “lingua” di Becher costituisce perciò un esempio di ciò che viene chiamato “passigrafia”: una lingua universale che consiste di simboli grafici (in questo caso numeri), i quali corrispondono a diverse parole nelle diverse lingue.

Simile a quella di Dalgarno, ma maggiormente perfezionata, è la lingua filosofica di John Wilkins, uno dei fondatori della Royal Society, vescovo di Chester e autore anche di un trattato di crittografia.

Nella lingua di Wilkins, i concetti del vocabolario sono classificati in 40 generi, indicati dalle prime due lettere di ogni parola; questi si dividono in differenze, indicate da una consonante in terza posizione, e le differenze si dividono a loro volta in specie, indicate da una vocale in quarta posizione. Ad esempio: «De» = “elemento”; «Deb» = “fuoco”; «Deba» = fiamma. Le parole, oltre che in lettere, possono essere scritte anche in forma di simboli grafici, per mezzo di un sistema elaborato appositamente: la lingua filosofica di Wilkins è, quindi, anche una passigrafia. Come Dalgarno, anche Wilkins sottolinea i vantaggi dell’utilizzo di un tale sistema per correggere la confusione dei concetti derivante dall’uso incoerente delle parole nelle lingue naturali: similmente a quanto ipotizzava Descartes, la chiarezza e la logica delle espressioni cosí formate dovrebbero eliminare molti errori di natura filosofica -ma anche religiosa- nei pensieri dei parlanti.

La lingua di Wilkins, cosí come le osservazioni di Descartes, furono considerate con grande interesse dal filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz. Partendo dal sistema di Wilkins, Leibniz immaginò una lingua adamitica nella quale ogni parola fosse definita dai concetti semplici che la costituiscono.

Ogni concetto semplice sarebbe stato indicato da un numero, e i concetti complessi si sarebbero potuti formare combinando quelli semplici attraverso un vero e proprio calcolo matematico; i numeri cosí ottenuti si sarebbero poi potuti tradurre in sillabe pronunciabili. Questo progetto è accennato da Leibniz nel “De arte combinatoria” del 1666, e trattato anche in alcuni frammenti inediti.

Un ulteriore studio di Leibniz riguarda una grammatica universale e regolare che governi la combinazione delle parole: semplificando ed eliminando le ridondanze logiche del latino, essa abolirebbe il genere e le declinazioni, e farebbe invece ampio uso di preposizioni, pronomi e altre particelle; è una concezione che, come già quella di Descartes, si avvicina molto ai successivi progetti di lingue internazionali ausiliarie.

Il fascino filosofico esercitato dalle lingue di Dalgarno, Wilkins, Leibniz e da altri progetti simili, con la loro promessa di favorire la conoscenza attraverso la corretta combinazione delle idee, si accompagna in realtà a dei limiti intrinseci. E’ evidente infatti che le “classificazioni delle idee” elaborate da Dalgarno e da Wilkins riflettono le conoscenze e le concezioni del mondo caratteristiche della loro epoca: in questo senso la loro “logica” non è cosí assoluta e universale, poiché, se fosse stato elaborato in un contesto culturale differente, il sistema sarebbe potuto risultare diverso. Questo problema è evidenziato efficacemente dalla sagacia critica di Jorge Luis Borges, in un passo del suo breve saggio intitolato appunto “L’idiona analitico di John Wilkins”:

«Definito cosí il procedimento di Wilkins, bisogna esaminare un problema che è impossibile o difficile postergare: il valore della tavola quadragesimale, base dell’idioma. Consideriamo l’”ottava categoria”, quella delle pietre. Wilkins le divide in “comuni” (selce, ghiaia, lavagna), “modiche” (marmo, ambra, corallo), “preziose” (perla, opale), “trasparenti” (ametista, zaffiro) e ”insolubili” (carbone e arsenico). Quasi altrettanto allarmante è la “nona categoria”. Questa ci rivela che i metalli possono essere “imperfetti” (cinabro, mercurio), “artificiali” (bronzo, ottone), “di rifiuto” (limatura, ruggine), e “naturali” (oro, stagno, rame). La bellezza figura nella “categoria decimosesta”; è un pesce viviparo, oblungo. Codeste ambiguità, ridondanze e deficienze ricordano quelle che il dottor Franz Kuhn attribuisce a un’enciclopedia cinese che s’intitola “Emporio celeste di conoscimenti benevoli”. Nelle sue remote pagine è scritto che gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore; b) imbalsamati; c) ammaestrati; d) lattonzoli; e) sirene; f) favolosi; g) cani randagi; h) inclusi in questa classificazione; i) che s’agitano come pazzi; j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello; l) eccetera; m) che hanno rotto il vaso; n) che da lontano sembrano mosche».


L’epoca delle lingue internazionali

La storia delle lingue artificiali non registra sostanziali novità per la maggior parte del Settecento e dell’Ottocento. Durante quest’ultimo secolo cominciò ad affermarsi l’idea, stimolata anche dalla crescita delle conoscenze sulle lingue non europee e dallo sviluppo dei traffici commerciali, di una lingua comune, relativamente semplice, attraverso la quale gli uomini di tutto il mondo potessero intendersi. Nell’”Encyclopédie” di Diderot e D’Alembert si trova un articolo di M. Faiguet intorno a una possibile langue nouvelle, per la quale viene proposta una grammatica semplificata mediante la regolarizzazione delle desinenze, l’abolizione del genere e dell’articolo, e cosí via. Questa sarebbe stata per quasi un secolo la principale fonte accessibile sull’idea di lingua artificiale, e probabilmente influenzò gli autori dei progetti successivi.

Un’idea molto originale fu sviluppata nella prima metà del secolo dal francese Jean-François Sudre: quella di utilizzare come linguaggio comune le sette note, le quali potevano essere facilmente riprodotte in tutto il mondo e trasmesse in numerose forme visive, orali, scritte o, naturalmente, musicali; nacque, cosí, il solresol, curiosa lingua artificiale nella quale le parole erano costituite, secondo definizioni arbitrarie, da sequenze delle sette note in varie combinazioni e con vari accenti; nonostante l’originalità e la fama riscossa, il solresol presentava molti limiti strutturali, e fu presto dimenticato.

A partire dalla fine dell’Ottocento, cominciarono invece ad essere sviluppati numerosi progetti di quelle che vengono definite lingue internazionali ausiliarie (international auxiliary languages o IALs): lingue costruite con l’esplicito scopo, almeno teorico, di diffondersi in tutto il mondo ed essere imparate e parlate da persone di tutte le nazionalità. Tali lingue si dicono anche a posteriori, nel senso che che il loro vocabolario è ottenuto a partire da radici già esistenti nelle lingue naturali, di solito scelte in modo da essere riconoscibili dal maggior numero possibile di persone; le lingue filosofiche di cui abbiamo parlato sopra sono invece a priori, in quanto il loro vocabolario e la loro grammatica sono creati completamente ex novo, senza preoccuparsi della loro maggiore o minore somiglianza con le lingue naturali.

La prima grande IAL fu il volapük del sacerdote cattolico tedesco Johann Martin Schleyer. Le parole volapük sono formate da radici derivanti dall’inglese e da altre lingue europee, ma molto deformate in modo da adeguarle a stretti criteri fonologici: la maggioranza di esse, infatti, ha la forma consonante-vocale-consonante. Per esempio “volapük” significa ‘lingua del mondo’, da “pük” = lingua (dall’inglese ‘speak’), “vol” = mondo (dall’inglese ‘world’) e “a” = desinenza del genitivo. Particolarmente sofisticata, sebbene sempre regolare, è la coniugazione dei verbi; ad esempio: “löfob” = io amo, “löfol” = tu ami, “löfom” = egli ama, “löfof” = ella ama, “löfos” = esso ama, “löfobs” = noi amiamo, “älöfob” = io amavo, “elöfob” = io amai\ho amato, “olöfob” = io amerò, “elöfobla” = che io abbia amato.

Negli anni immediatamente seguenti alla sua nascita, il volapük ebbe un grande successo: nacquero corsi di volapük, grammatiche, associazioni, club in molti paesi del mondo, e furono svolti anche congressi internazionali. Alcuni sostenitori criticarono determinati aspetti della lingua, suggerendo modifiche e semplificazioni, ma l’autore volle sempre mantenere uno stretto controllo sulla sua creazione, dimostrandosi restio ai cambiamenti. Poi, in un tempo altrettanto breve, la fortuna della lingua declinò; la sua fama, inoltre, sarebbe stata presto oscurata da un idioma comparso qualche anno piú tardi e destinato a durare molto piú a lungo: l’esperanto.

L’esperanto è il frutto del lavoro di un oculista polacco, Lejzer Ludovik Zamenhof, nato in una città (Bialystok) linguisticamente divisa fra polacco, russo, tedesco e yiddish. Fin dagli anni del liceo, egli pensò a una “lingua universale” che facilitasse la comunicazione e appianasse le incomprensioni (anche se, come dichiarò esplicitamente, non ebbe mai l’ambizione di sostituire questa lingua a quelle naturali, bensí solo di affiancarla ad esse).

I principi basilari della lingua furono pubblicati nel 1887 a spese dell’autore, il quale si celava sotto lo pseudonimo di ”Doktoro Esperanto”, ossia ‘dottor Speranzoso’: di qui la lingua venne poi sempre chiamata “esperanto”. Il successo e la diffusione dell’esperanto furono notevoli, e, a differenza del volapük, anche duraturi, soprattutto, almeno all’inizio, per merito della tenacia con la quale Zamenhof si applicò alla sua diffusione e al suo sviluppo.

La lingua mostra in effetti un pregevole equilibrio fra regolarità della grammatica, fondata su principi simili a quelli del volapük, e riconoscibilità delle radici, che derivano con poche modifiche dalle lingue neolatine e da altre lingue europee relativamente diffuse negli scambi internazionali. Anche le parti del discorso sono facilmente riconoscibili: i sostantivi terminano sempre in –o, gli aggettivi in –a, l’infinito dei verbi in –i, le desinenze per l’accusativo, il plurale e i numerosi affissi sono semplici e completamente regolari, e gli affissi stessi posso essere presi a sé e utilizzati come parole autonome: ad esempio «Romo» significa “Roma”, «romano» significa “romano”, e «ano» (il suffisso «an» con l’aggiunta del suffisso «o» del sostantivo), preso isolatamente, significa “abitante”.

La moltiplicazione dei circoli e delle associazioni esperantiste creò un grande movimento internazionale, tuttora vivace e organizzato, con congressi periodici e numerose pubblicazioni di ogni genere (comprese la scienza e la poesia) in esperanto, oltre che sull’esperanto. Non c’è dubbio, quindi, che l’esperanto sia la lingua artificiale che abbia mai avuto piú successo in assoluto. Sebbene essa non abbia raggiunto lo scopo ultimo di essere conosciuta dalla maggior parte delle persone e fungere quindi da veicolo di comunicazione universale, è anche vero che ha avuto numerose applicazioni, ed è stata perfino riconosciuta come lingua ufficiale da organismi internazionali, ONU e UNESCO compresi.

Anche l’esperanto, naturalmente, non è privo di “difetti”: alcuni suoi elementi, infatti, come l’uso dell’accusativo e la presenza di segni diacritici nella grafia di alcune lettere, potrebbero essere ulteriormente semplificati. In effetti, parallelamente a nuovi progetti sempre piú numerosi di lingue internazionali ausiliarie, nacquero presto proposte di riforma e di miglioramento dell’esperanto. Quello di maggiore successo fu l’ido (parola che non a caso significa, in esperanto -oltre che in ido- “figlio”, “discendente”), sviluppato da vari studiosi esperantisti in seguito ad approfonditi studi linguistici.

Sebbene lingue come l’ido siano piú evolute dell’esperanto, quest’ultimo è rimasto la lingua ausiliaria piú diffusa, essendosi ormai affermato e avendo prodotto una vera e propria cultura internazionale in esperanto. E’ chiaro, infatti, che, oltre alla qualità intrinseca, anche fattori socio-culturali determinano il maggiore o minore successo di una lingua artificiale.

All’inizio del ventesimo secolo l’adozione di una lingua internazionale era diventata un tema di grande attualità, tanto che venne creato un comitato internazionale con l’esplicito scopo di studiare i numerosissimi progetti proposti ed eleggere il piú adatto, che fu infine indicato nell’esperanto, ma con la raccomandazione di una serie di riforme nel senso dell’ido.


Le lingue fantastiche

Le lingue fantastiche sono quelle che si immaginano essere utilizzate da popoli di fantasia, come frutto di creazioni letterarie o in genere artistiche. Quale che sia il loro contesto preciso, esse non sono realizzate con uno scopo principalmente conoscitivo (come le lingue filosofiche) e nemmeno pratico (come le lingue ausiliarie), ma sono piuttosto un’espressione della fantasia e della creatività di un singolo autore: vengono, perciò, chiamate anche lingue artistiche /artlangs); il loro scopo consiste nello svago o addirittura nell’evasione, e in questo potrebbero essere considerate come un’espressione tipica della nostra epoca, povera di grandi valori e di ideali, e dedita piuttosto al divertimento e alla soddisfazione individuale.

Rudimenti di lingue fantastiche, associate a immaginarie popolazioni minuscole o gigantesche, si trovano anche nei “Viaggi di Gulliver” narrati da Jonathan Swift, pubblicati nel 1726: ad esempio la parola «yahoo», nel suo significato di “sciocco”, “ottuso”, deriva da una di queste lingue, nella quale avrebbe significato “bruti in forma umana che infestano il paese dei cavalli sapienti”. Anche in “1984” di George Orwell, opera scritta con intenti diversi dalla pura evasione ma comunque fantastica e ambientata nel futuro, si trova una neolingua (new-speak), che viene imposta dal regime nell’ambito dell’organizzazione massificata e totalitaria che caratterizza l’ipotetica cultura del futuro. La lingua fantastica si presenta dunque come un modo per esprimere, attraverso uno degli aspetti centrali della vita umana come la parola, il carattere di una civiltà immaginaria.

Ottimo rappresentante di questa categoria è una lingua che si può considerare fra quelle di maggior successo in tutta la storia delle lingue artificiali, potendo attualmente vantare un grande numero di entusiasti sostenitori, studiosi e perfino parlanti: il klingon. Si tratta dell’idioma, elaborato in forma abbastanza completa dal linguista statunitense Mark Okrand negli anni Ottanta, parlato dalla immaginaria popolazione extraterrestre abitatrice del pianeta Kling, parte dell’universo della serie televisiva di fantascienza “Star Trek”.

Ad esprimere il carattere alieno e guerrafondaio dei Klingon, il klingon si distingue per una fonologia decisamente insolita, ricca di suoni aspri e gutturali, che si riflette anche in una grafia esotica: ad esempio, «cha yIbaH qara’DI’» significa “spara i siluri al mio ordine”. Il klingon è dotato di un proprio alfabeto originale, dall’aspetto cuneiforme, di una grammatica con nomi semplici e composti, sistemi di prefissi e suffissi, due distinte forme interrogative e cosí via.

Il successo del telefilm originario ha favorito anche la diffusione della lingua, tanto che in klingon esiste addirittura una traduzione dell’”Amleto” di Shakespeare; la coltivazione della lingua è coordinata da un Klingon Language Institute e favorita da appositi siti internet ad essa dedicati.

Uno sfondo narrativo alquanto diverso è quello del quenya, altra lingua fantastica ben sviluppata che molti appassionati considerano un vero capolavoro di filologia immaginaria. Autore del quenya, e di un intero sistema di altre lingue parlate da esseri fantastici, è in effetti un filologo: l’inglese nato in Sudafrica J.R.R. Tolkien, noto soprattutto per la saga “Il Signore degli Anelli”, capostipite di un ricco filone letterario ineguagliato nella sua raffinatezza. Il mondo della Terra di Mezzo descritto nelle opere di Tolkien è popolato, oltre che di uomini, di creature umanoidi quali elfi, nani e orchetti, tutti comunicanti in proprie lingue; di esse Tolkien fornisce esempi soprattutto illustrando l’origine di nomi di luoghi e di persone i cui significati fanno riferimento a un vocabolario coerente.

La lingua meglio sviluppata di questo sistema è appunto il quenya, parlato dai nobili ed eterei esseri chiamati «Eldar» (elfi). La sua fonologia ne fa una lingua armoniosa e adatta alla composizione poetica e al canto, che sono, infatti, mezzi di espressione impiegati comunemente dagli elfi; secondo gli esperti, molti elementi del quenya sono ispirati a due lingue particolarmente amate da Tolkien, ossia il finlandese e il gallese. Le iscrizioni originali in quenya, racconta Tolkien, sono realizzate con lettere di un antico alfabeto dal sapore nordico, le tengwar (rune). Ecco un esempio di canto elfico in quenya:



Ai! Laurië lassi súrinen,

Yéni únótimë ve rámar aldaron!

Yéni ve lintë yuldar avánier

Mi oromandi lisse-miruvóreva!

Andúne pella, Vardo tellumar

Nu luini yassen tintilar i eleni

Ómaryo airetári-lírinen.

Sí man i yulma nin enquantuva?

An sí Tintallë Varda oiolossëo

Ve fanyar máryat Elentári ortanë

Ar ilyëtier undulávë lumbulë;

ar sindanóriello caito mornië

i falmalinnar imbë, ar hísië

untúpa Calacyrio míri oialë.

Sí vanwa ná, Rómello vanwa,

Valimar!

Namárië! Nai hiruvalyë Valimar.

Nai elyë hiruva. Namárië!



(Ah, simili ad oro cadono le foglie al vento, lunghi innumerevoli anni come rapidi sorsi del dolce idromele, in aerei saloni oltre l’Occidente, sotto le azzurre volte di Varda ove le stelle tremolano al canto della sua voce, una voce sacra di regina. Chi riempirà ormai per me la coppa? Ahimé, la Vampa, Varda regina delle stelle, ha innalzato le sue mani dal monte Semprebianco come nuvole che ascendono al cielo, e ogni sentiero è immerso nella piú cupa oscurità; fuori dalla grigia campagna, il buio sovrasta le onde spumeggianti che ci separano, e la nebbia ricopre per sempre i gioielli di Calcyria. Perso! Perso è ormai Valimar per coloro che vivono ad Oriente. Addio! Forse un dí tu troverai Valimar. E forse anche tu lo troverai un dí. Addio!)



Purtroppo la mancanza di una grammatica del quenya impedisce agli epigoni di Tolkien di apprenderlo in modo sufficientemente completo da usarlo per formare nuove frasi originali; nelle appendici de “Il Signore degli Anelli” esistono tuttavia ampie descrizioni, sempre immaginarie, della lingua e della sua storia in relazione con i popoli descritti nei libri. Il fascino de “Il Signore degli Anelli” sta, fra l’altro, proprio nel fatto che le vicende in esso narrate si svolgono su uno sfondo storico e mitologico estremamente ampio, spesso balenante anche se non esplicitamente descritto, del quale le lingue sono parte integrante.

Nel 1960 lo statunitense James Cook Brown pubblicò sulla rivista “Scientific American” la descrizione di una lingua da lui progettata e chiamata loglan, ossia «logical language» (lingua logica). Tale lingua, una volta imparata, avrebbe potuto aiutare il parlante a formulare i propri concetti in modo chiaro e non ambiguo, grazie alla sua struttura essenzialmente logica, fondata in particolare sulla logica predicativa. In base a quest’ultima, essa, le frasi, invece che da soggetti, verbi e complementi, vanno considerate costituite da predicati e argomenti; un predicato è un termine, equivalente a un verbo, una preposizione o una congiunzione, il cui significato consiste nell’indicare una relazione fra altri termini che si dicono i suoi argomenti. La lingua loglan contiene inoltre un grande numero di particelle atte a distinguere precisamente le relazioni fra i termini e capaci di esprimere anche relazioni matematiche.

Un’altra particolarità del loglan è che il suo vocabolario, costituito in gran parte da parole di cinque lettere, è stato realizzato confrontando, per ciascun significato, le radici delle parole corrispondenti nelle otto lingue piú diffuse nel mondo, ossia inglese, cinese, hindi, russo, spagnolo, giapponese, francese e tedesco; tali radici sono quindi state analizzate da un algoritmo informatico, per produrre una parola che si avvicini il piú possibile a tutte queste lingue contemporaneamente: la parola risultante, pur non assomigliando in genere a nessuna delle parole originarie, conterrà però diverse lettere che aiuteranno i parlanti di una gran parte del mondo a memorizzarla. Ad esempio, «blanu» (azzurro) contiene fonemi comuni alle parole “blue” (inglese), “lan” (cinese), “nila” (hindi), “galuboj” (russo), “azul” (spagnolo), “bleu” (francese) e “blau” (tedesco). In questo il loglan si avvicina alle lingue internazionali ausiliarie, anche se il suo scopo è permettere non tanto la comunicazione internazionale quanto una comunicazione precisa e non ambigua.

Il progetto del loglan venne sviluppato nei decenni successivi da Cooke Brown e da vari collaboratori. Con il passare del tempo, tuttavia, sorsero divergenze di opinioni in merito ai vari aspetti della lingua, e soprattutto al modo autoritario con il quale Cooke Brown manteneva su di essa un controllo personale, poco aperto al cambiamento. Questa situazione portò infine ad una scissione dal gruppo da parte di numerosi praticanti, desiderosi di evolvere la lingua in modo differente e piú aperto al contributo collettivo; essi furono diffidati da Cooke Brown dall’utilizzare la sua creazione, ma, in seguito ad un processo giudiziario, ebbero riconosciuto il diritto di sviluppare indipendentemente una loro lingua, fondata sugli stessi principi a condizione che il vocabolario fosse completamente differente da quello dell’originario loglan. Per questo l’algoritmo per la determinazione delle parole venne ritoccato, variando anche il peso dato alle diverse lingue (in base alle stime attuali, la lingua piú parlata nel mondo risulta il cinese e non l’inglese), e applicato nuovamente, ricreando tutte le parole in una forma differente. Nacque cosí il lojban, una lingua sostanzialmente identica al loglan nei principi di base, ma sviluppata da un’istituzione collettiva denominata Logical Language Group, con sede a Fairfax negli Stati Uniti. Il termine lojban esemplifica la sua relazione con l’originario loglan: anch’esso infatti significa “lingua logica”, in quanto composto di «lojbo» = logico e di «banru» = lingua (vedi il cinese “ba”, l’indonesiano “bahasa”, eccetera).

Un caso assai stravagante di lingua è quello del láadan, ideato dall’americana Suzette Haden Elgin.

Per esprimere le caratteristiche del sentire femminile, e in generale il punto di vista delle donne nella percezione del mondo, Elgin ha voluto creare una “lingua per le donne”, chiamata apunto láadan. La lingua è illustrata in particolare in tre romanzi fantastici intitolati “Native tongue” (Madrelingua), pubblicati nel 1984, 1987 e 1994.

La struttura del láadan riprende svariate caratteristiche di molte lingue naturali appartenenti alle famiglie linguistiche piú diverse, scelte in quanto all’autrice sembrano esprimere le cose nel modo piú adatto allo spirito femminile. La fonologia della lingua dovrebbe essere particolarmente armoniosa, evitando l’uso di alcune consonanti considerate troppo “dure” e producendo invece uno scorrimento fluente delle parole.

Un progetto di ampio respiro, che consiste dichiaratamente solo in uno studio preliminare per una possibile lingua internazionale, è il bahasan dello statunitense Leo J. Moser. Quest’autore ha dedicato molti anni di studio allo sviluppo di un vocabolario a posteriori fondato su un numero molto grande di lingue naturali. Nella scelta delle radici a cui attingere, egli tiene in considerazione non solo la diffusione delle lingue da cui le radici sono tratte, ma anche la diffusione di ciascuna singola radice in lingue diverse: alcune radici di origine neolatina, infatti, sono in realtà diffuse ben oltre i confini delle lingue europee, e sono perciò riconoscibili per un grandissimo numero di persone, mentre altre sono molto diffuse solamente in Europa e nelle Americhe; in questi ultimi casi, per equilibrare il vocabolario, la scelta della radice da usare per quel determinato concetto può cadere anche su lingue arabe, ebraiche, o asiatiche; ad esempio “e” in bahasan si dice «va», da radice vietnamita, turca e di altre regioni; “sedia” si dice «cursio», da radice araba, indonesiana, nepalese, somala, hindi, turca, eccetera. E’ evidente che, per poter operare una scelta cosí ben ponderata, è stato necessario comparare i termini usati per ogni significato in un grandissimo numero di lingue, invece che assumere genericamente che le radici di certe lingue siano piú diffuse delle altre. Il risultatto è una lingua dall’apparenza meno familiare per il profano rispetto ad altri progetti, ma linguisticamente piú neutra e realmente internazionale. La grammatica bahasan è assai semplice, perlopiú isolante (le parole mantengono, cioè, una forma fissa senza venire modificate a seconda della loro funzione nella frase), sebbene con uso di prefissi e suffissi.

Il lavoro nella ricerca di una lingua ausiliaria efficace continua tuttora.

Il bahasan di Leo J. Moser, ad esempio, si svilupperà prossimamente nel Progetto Acadon, consistente in una lingua internazionale specificamente pensata per gli utilizzatori di internet.

In realtà, purtroppo, esiste un progetto “piú semplice e diretto” per indurre tutti gli abitanti del pianeta a parlare la stessa lingua: l’imposizione con le armi o con la colonizzazione culturale della lingua inglese.

La contaminazione attuale della lingua italiana ne è una diretta conferma.