John Ronald Reuel Tolkien (Bloemfontein 03.01.1892-Bournemouth 02.09.1973) insegnò lingua e letteratura anglosassone a Leeds dal 1920 al 1925, a Oxford dal 1925 al 1945, e poi lingua e letteratura inglese a Oxford fino al ritiro dall’università. Importantissimo filologo, conoscitore oltre che dell’anglosassone e delle lingue classiche anche di molte moderne, collaborò alla redazione dell’Oxford English Dictionary e redasse numerose opere filologiche, fra cui la traduzione in inglese moderno di poemi anglosassoni. Il vasto pubblico lo conosce per le sue opere letterarie, come Lo Hobbit (“The Hobbit”, 1936) e Il Signore degli Anelli (“The Lord of the Rings”, 1954-1955), che in Italia gli hanno procurato un folto pubblico di ammiratori, suscitando però allo stesso tempo il vespaio delle strumentalizzazioni politiche: a un’estrema destra che lo rileggeva in chiave totalmente abusiva, negli anni Settanta rispose un’estrema sinistra che condannava l’autore inglese senza averlo mai letto. In realtà Tolkien è un personaggio al di fuori della società moderna e delle sue correnti politiche, un odiatore della civiltà delle macchine e un poeta che per amore della filologia ha trascorso la vita inventando lingue, come l’elfico, che contiene elementi del finnico e del gallese e ha dato al suo autore l’ispirazione necessaria a creare un mondo intero, in cui quegli idiomi diventassero credibili. L’articolo che qui diamo in traduzione italiana fu pubblicato in inglese su The British Esperantist.
In quanto filologo mi interesso, come dovrebbero fare tutti i filologi, al movimento per la lingua internazionale, un fenomeno linguistico importante e interessante, e ho una particolare simpatia per le rivendicazioni dell’Esperanto. Non sono un vero e proprio esperantista, come mi sembra, dopo averci riflettuto, che dovrebbe essere ogni consigliere, almeno in qualche misura. Non so né scrivere né parlare la lingua. La conosco, come direbbe un filologo, perché 25 anni fa l’ho imparata e non ne ho dimenticato la grammatica e la struttura, e a suo tempo ne ho letto una certa quantità di testi per cui, essendo abituato a questo genere di cose, mi sento competente ad avere un’opinione sui suoi difetti e i suoi pregi. Stando cosí le cose, sento di non poter dare un contributo utile, se non come filologo e critico. Ma il mio punto di vista sulla situazione della lingua internazionale è esattamente che simili servizi, per quanto buoni in teoria, in pratica non sono desiderati, insomma, che è arrivato il momento in cui il teorico della filologia è un ostacolo e un impiccio. E questo è proprio il piú forte dei miei motivi per sostenere l’Esperanto.
L’Esperanto mi sembra senza dubbio, nel complesso, superiore a tutti i suoi attuali concorrenti, ma la ragione principale per sostenerlo mi pare sia il fatto che esso ha già il primo posto, ha ottenuto la piú ampia misura di accettazione pratica, e sviluppato l’organizzazione piú avanzata. È in pratica nella posizione di una chiesa ortodossa che ha di fronte non solo i non credenti, ma anche scismatici ed eretici - una situazione che il filologo aveva previsto. Ma, dato un certo grado necessario di semplicità, internazionalità e (aggiungerei) di individualità ed eufonia, che l’Esperanto certamente raggiunge e supera, mi pare ovvio che il piú importante problema che una aspirante lingua internazionale deve risolvere sia la diffusione universale. Uno strumento inferiore con una possibilità di raggiungere quest’obiettivo vale quanto cento teoricamente piú perfetti. Non c’è nulla di definitivo nell’invenzione e nel gusto linguistici. La bellezza dell’invenzione nei dettagli è di importanza relativamente modesta oltre il minimo necessario, e i teorici e gl’inventori (nei cui ranghi sarei felice di entrare) non fanno che ritardare il movimento, se sono disposti a sacrificare l’unanimità per il “miglioramento”.
A dire il vero mi sembra anche che il miglioramento tecnico dei congegni, finalizzato a una maggiore semplicità e chiarezza della struttura o a una maggiore internazionalità o quant’altro, tenda a distruggere, giudicando dai recenti esempi, l’aspetto “umano” o estetico dell’idioma inventato. Questo aspetto apparentemente accessorio sembra essere ampiamente trascurato dai teorici, anche se io immagino che non sia veramente accessorio, e che alla fine avrà una grande influenza sulla questione basilare dell’accettazione universale. N** ad esempio è ingegnoso, e piú semplice dell’Esperanto, ma ripugnante: “prodotto di fabbrica” c’è scritto sopra, o meglio “fatto con pezzi di ricambio”, e non ha quel bagliore di individualità, coerenza e bellezza che sprigiona dai grandi idiomi naturali, e che si ritrova a un livello considerevole (probabilmente il piú alto livello possibile per un idioma artificiale) in Esperanto - una prova del genio dell’autore originale...
Il mio consiglio a tutti coloro che hanno il tempo o la propensione ad occuparsi del movimento per la lingua internazionale è: “Sostenete lealmente l’Esperanto”.