ANGLOBALIZZAZIONE ALL'UNIVERSITÀ DI ROMA 3
"Studying law at Roma3" è il nuovo progetto realizzato dall'Università Roma Tre per l'anno accademico 2006/07, presso la facoltà di Giurisprudenza. L'iniziativa consiste in cinque corsi in lingua inglese destinati esclusivamente a laureati e laureandi con ottima conoscenza della lingua anglosassone. La motivazione sarebbe la seguente: L' Inglese è, oggigiorno, la lingua franca internazionale, in ogni campo. Persone di differenti culture e lingue comunicano regolarmente con persone di altre nazioni in Inglese. La conoscenza dell'Inglese è essenziale in tutti i settori esposti alle influenze della globalizzazione".Si desume da queste parole che per partecipare al processo di globalizzazione sia imprescindibile parlare l'inglese. Nessun docente de "la Terza Università" sembra essersi chiesto perché questo, che viene presentato come un dato di fatto, stia accadendo, o che cosa comporti favorire il processo dell' «anglobalizzazione», e nessuno si è preoccupato di fornire un'alternativa che realmente rispetti l'ideale di democrazia etnico-culturale di cui le istituzioni scolastiche si fanno da sempre portavoce.
Gli "educatori" molto probabilmente dovrebbero chiedersi se sia giusto ed educativo favorire a livello globale, in una serie di campi quali specializzazione e ricerca di un lavoro, i giovani (e non) di madrelingua inglese, a discapito dei giovani (e non) di madrelingua non inglese.
Il 13 dicembre abbiamo intervistato il Prof. Zeno Zencovich, uno dei docenti dì "Studying law at Roma3", nella sua stanza di ricevimento. L'incontro "conoscitivo" è stato condotto in termini di rispetto reciproco nonostante la divergenza di opinioni, poiché l'intervista era costituita da domande dirette ma non aggressive. Il prof, "amante dell'inglese" ha risposto quasi sempre in maniera fin troppo diplomatica, eludendo la maggior parte delle volte le nostre richieste e portando la discussione su altre questioni. Escludendo le prime domande, fatte a scopo informativo, con la seconda metà dell'intervista abbiamo cercato di mettere in difficoltà il docente con richieste più mirate e incalzanti, che hanno "costretto" Zencovich (sotto nella foto) a cercare dì motivare la realizzazione dì un'iniziativa così poco democratica e fatta all'interno di un'università pubblica.
Da dove è partita quest'iniziativa e quali sono state le motivazioni che hanno spinto la facoltà ad attivare questo progetto?
L'iniziativa è partita da un rappresentante degli studenti, che un paio di anni fa, qui in Facoltà, ci ha sollecitati su questo punto: "Parlate tanto di internazionalizzazione, nella facoltà lavorano docenti che, come risulta dai loro curriculum, insegnano e hanno insegnato all'estero, e allora perché non fate anche corsi in lingua straniera?" quindi si può dire che sia partita dagli studenti, ed io ho molto apprezzato questo fatto; il corso comunque risponde a una generale tendenza visibile nelle università europee, certamente più in quelle di paesi con una lingua nazionale "debole", cioè senza grandi tradizioni e senza grandi prospettive di espansione, che hanno bisogno di attirare studenti, quindi tendono ad usare una lingua diversa dalla loro e tipicamente usano l'inglese. Anche in paesi importanti come la Germania o i Paesi Bassi possiamo constatare come molte facoltà, anche di Giurisprudenza, impartiscano corsi in lingua straniera, generalmente in lingua inglese, e dunque tentino di seguire un percorso di formazione d'indirizzo europeo.
Come nasce la collaborazione con la Fondazione Ferdinando Pe-retti, associazione a scopo umanitario che ha in parte finanziato il progetto?
La risposta è piuttosto semplice: io sono anche vicepresidente di questa fondazione, che è molto impegnata nel settore della tutela dell'ambiente, della salute e dei progetti di formazione ed educazione, quindi un'iniziativa del genere rientra fra i suoi scopi statutari e mi è sembrato che potesse essere significativa: l'ho sottoposta al consiglio di amministrazione, i cui membri vengono da vari Paesi, e ho trovato un sostegno; ma al di là di questo, credo che le università debbano lavorare sempre di più con il mondo delle imprese del cosiddetto terzo settore, creando delle sinergie. In un momento in cui sono previsti tagli alle risorse per l'istruzione superiore, le università non possono sempre e solo lamentarsi di non avere abbastanza soldi per aprire corsi o programmare iniziative, ma devono proiettarsi all'esterno: sono convinto che l'università, se ha un proprio ruolo nella società, trova sicuramente i finanziamenti, perché la società è interessata all'università, agli studenti universitari e ad una buona formazione per questi ultimi, quindi sono assolutamente fiducioso; quello che manca, in generale, è la mentalità, perché nel mondo universitario si tende a ragionare così: "Ciò che mi passa lo stato lo utilizzo, ma al di fuori di quello non faccio null'altro". Invece io sostengo che si debba avere un atteggiamento, non dico "manageriale", ma certamente molto propositivo, di proiezione all'esterno dell'attività universitaria.
Perché sono state scelte proprio queste materie e non altre? Secondo lei, ce ne sono altre che potrebbero essere insegnate in inglese?
Gli insegnamenti impartiti sono Diritto comparato, Giustizia europea, Diritto commerciale angloamericano, Diritto umanitario e Contratti internazionali. Nella facoltà è attivato anche un altro corso in lingua, francese però, che non rientra in questo progetto: Diritto contrattuale francese. Diciamo che ci sono due vincoli all'inserimento di altri corsi in lingua: il primo, ovviamente, è quello della competenza dei docenti nella lingua straniera. Essi debbono averne una padronanza tale da poter svolgere un corso di una sessantina di ore, che non è un requisito così comune. Molti, quasi tutti i docenti conoscono una o più lingue straniere, ma un conto è averne una conoscenza passiva, fatta soprattutto dì lettura e comprensione del parlato, un altro è essere in grado di fare un corso in lingua. Oltretutto, il progetto pone un problema non solo linguistico, ma anche metodologico: quello di introdurre nuove tecniche di didattica che siano molto più vicine allo studente e che vedano una più efficace trasmissione delle conoscenze dal docente al discente. Dunque, il primo vincolo è rappresentato dal fatto che non tutti i docenti hanno una conoscenza di una lingua straniera, francese o inglese o tedesco, o altre, tale da permettere loro di gestire un corso interamente in lingua; il secondo è un problema di carattere amministrativo. E' chiaro, infatti, che si possono impartire in una lingua straniera soltanto corsi facoltativi, perché se fossero obbligatori IMPORREBBERO allo studente di conoscere quella lingua, e invece non è detto che lo studente debba conoscerla per forza: una decisione del genere, nel nostro caso, sarebbe discriminatoria nei confronti di chi non è anglofono o francofono, quindi questo è un altro limite. Oltretutto, con i nuovi piani di studi, molto rigidi, si possono dare solo due esami opzionali, perciò il numero dei corsi a scelta deve essere necessariamente ridotto. Peraltro, l'anno prossimo aggiungeremo un nuovo corso, il sesto, in una materia correntemente insegnata nelle università americane e inglesi, chiamata "Law and Humani-ties", che consiste nell'analisi dei rapporti tra il diritto e l'arte, la letteratura, il cinema, la musica, insomma le scienze umanistiche. Lo scopo è creare un "ponte" interdisciplinare, ovviamente verso la facoltà di Lettere, con docenti diversi dai soliti. Questo nuovo corso, che sarà attivato nell' a.a. 2006/'07, dimostra l'intenzione di allargare l'offerta didattica anche verso tematiche totalmente nuove, che non sono mai state trattate in precedenza.
Sul sito di presentazione dei corsi abbiamo letto che l'inglese è lingua franca internazionale. Ma secondo lei c'è equità nell'afferma-re che la lingua di un popolo, una lingua etnica, è "lingua franca"?
lo parto da un dato di fatto che è il seguente: se, poniamo, si incontrano un ragazzo portoghese e una ragazza italiana, per comunicare tra loro parleranno in inglese. Quindi il problema dell'inglese come "lingua franca internazionale" non è solamente un problema di diritti, ma di tutte le esperienze sociali. Basta vedere l'uso che di questa lingua si fa in Internet, insomma, che l'inglese sia diventato la lingua internazionale mi sembra un dato ineludibile. Peraltro, è qualcosa che si ripete nel tempo, noi ne abbiamo esperienza: nel mondo antico il latino era la lingua franca, tutti lo parlavano, era il mezzo di comunicazione dell'epoca. Beninteso, esistono rapporti tra lingua e politica: il latino era la lingua universale perché era la lingua dell'impero, così come oggi l'inglese è la lingua dell' "impero" americano. Nella storia dell'umanità questo fenomeno si è ripetuto: c'è stato un periodo in cui la lingua internazionale era il francese, e adesso è la volta dell'inglese. Peraltro, bisogna dire che l'inglese è diventato lingua internazionale non tanto sulla base di spinte politiche dei governi inglese e americano, quanto attraverso Elvis Presley e i Beatles: sono loro che hanno reso l'inglese lingua internazionale; la diffusione dell'inglese passa molto più attraverso la loro musica che non attraverso politiche specifiche degli stati. Si tratta di prenderne atto: io credo che non si debba pensare di voler cambiare il mondo, ma sicuramente bisogna cominciare a mettere gli studenti italiani, in particolare nel mio caso quelli di Roma Tre, in condizioni di competere effettivamente con altri studenti di altri Paesi che possiedono capacità linguistiche maggiori. Un eccellente studente italiano che conosce solo l'italiano ha una prospettiva lavorativa dimezzata rispetto ad uno studente italiano medio che conosce anche una lingua straniera (come l'inglese), lo credo che il compito dell'università sia offrire quest'opportunità a tutti gli studenti che lo desiderano, per essere più competitivi nei confronti di studenti e laureati ungheresi, portoghesi, svedesi.
Ad esempio in Ungheria, nell'università di Budapest, esiste
una cattedra di Esperantologia ed Esperanto. Nella nostra associazione, promuoviamo l'esperanto come lingua franca, cioè non etnica, di un popolo in particolare, una sorta di "lingua-euro" per l'area dell'Unione Europea, di quegli Stati Uniti d'Europa che Altiero Spinelli tanti anni fa auspicava.
Da questa interpretazione di inglese lingua internazionale sembra totalmente estranea l'idea di Unione Europea, di Stati Uniti d'Europa e del ruolo a livello mondiale che essa potrebbe assumere affermando una propria lingua VERAMENTE franca, una lingua non etnica ma transnazionale. Non sarebbe migliore, nell'ambito della comunicazione tra popoli, più equa e conveniente, una soluzione come questa?
Certamente l'osservazione è corretta, ma c'è la necessità di distinguere tra i piani dell'essere e del dover essere: nell'ambito di quest'ultimo, sicuramente noi possiamo discutere sulla preferìbìlìtà dì scelte linguìstiche non nazionali, e a questo proposito segnalo che all'interno (delle istituzioni) dell'Unione Europea c'è una fortissima contesa per le cosiddette "lingue di lavoro", essendoci una grande resistenza da parte dei francesi, dei tedeschi e anche degli spagnoli contro il predominio dell'inglese. Peraltro, io segnalo questo fatto: come l'inglese d'Inghilterra è stato in larga misura soppiantato dall'inglese americano - c'è una citazione molto bella, di G. B. Shaw, su questo: "L'Inghilterra e l'America sono due grandi nazioni divise da una lingua comune"(lui ha sbagliato sia l'autore - attribuendola a Mark Twain - che la citazione, NdR) - che differisce molto dall'originale, per pronuncia, ortografia e grammatica, così oggi l'inglese di cui parliamo non è più nemmeno quello americano, ma è molto "meticciato", fortemente influenzato dalle varie aree geografiche in cui viene parlato, diviso in una miriade di quelli che vengono chiamati "Pidgin English". L'inglese si presta molto a queste "manipolazioni", e grazie al Cielo nessun purista viene a contestarci il fatto che non studiamo alla perfezione Shakespeare. Sicuramente uno dei grandi vantaggi dell'inglese è la sua duttilità. Ciò detto, mi rendo conto della preferibilità di scelte che non penalizzino le lingue nazionali; tuttavia, questo ci fa riflettere su quanto, per esempio, investiamo nella formazione linguistica in italiano e in altre lingue. Credo che forse la prima
base per un vero pluralismo linguistico consista nel rafforzare, in termini non nazionalistici ma culturali, la conoscenza della nostra lingua.
L'italiano è una lingua straordinaria: se si vuole fare qualcosa per tutelarla, si tratterebbe per esempio di assicurare che, in tutti quei casi in cui esiste un'espressione italiana adeguata, non si cerchi di utilizzare malamente al suo posto un'espressione inglese. Ma questo discorso ci porta molto lontano dal progetto di cui mi occupo, che consiste nel mettere in grado gli studenti e i laureati in giurisprudenza di Roma Tre di competere adeguatamente coi loro colleghi belgi, polacchi e così via.
Forse la risposta a questa domanda è stata già anticipata nelle risposte precedenti, comunque continuiamo a domandarci se esista un principio giuridico vero e proprio in base al quale vada accettata e vista come equa questa "imposizione" della lingua inglese (o, in via teorica, di qualsiasi altra lingua etnica) come lingua internazionale di comunicazione, che provoca svantaggi alle persone non di madrelingua anche sul piano economico, dato che ogni anno, come dimostra il rapporto Grin, c'è un consistente flusso di risorse (18 miliardi di euro) dai Paesi non anglofoni verso quelli anglofoni.
Diciamo che sono in gioco grossi interessi economici, e che dietro l'insegnamento dell'inglese ci sono ovviamente vantaggi di cui, peraltro, non godono solo l'Inghilterra o l'America, ma anche altre entità nazionali: nelle tantissime scuole di lingua sorte sul nostro territorio, la gran parte dei docenti è di madrelingua italiana, quindi il vantaggio economico non è riservato soltanto ad alcuni Paesi. Detto questo, la mia personale esperienza mi porta a ritenere che più una
persona conosce le lingue, più tende a volerne conoscere delle altre, cioè si può dire che "una lingua tira l'altra". Se si impara una lingua straniera, poi si è molto facilitati ad apprenderne un'altra, e poi un'altra ancora e così via. Credo che quello che manca nella scuola italiana, a partire dalla scuola elementare, sia un'attenzione verso il fattore linguistico come fattore fondamentale dell'evoluzione dell'intelligenza, della cultura, della capacità del soggetto di relazionarsi con gli altri. Le capacità linguistiche si acquisiscono come quelle matematiche, tecniche o di altro genere: sviluppando un'attenzione verso la struttura della lingua, la grammatica, la sintassi, la semiologia. Non ritengo, naturalmente, che si debbano trasformare le scuole elementari o medie in luoghi di pura formazione glottologica e linguistica, però sicuramente spingere gli studenti ad imparare (oltre al dialetto locale, proposta quest'ultima che mi pare un po' singolare), a fianco all'italiano, una lingua, un'altra lingua e poi un'altra ancora determinerebbe una grande ricchezza per il nostro Paese. Un esempio banale: pensiamo alla ricchezza che viene all'India dall'avere l'inglese come seconda lingua. Ormai quasi tutti i cali center delle ditte statunitensi e inglesi sono stati trasferiti in India, perché lì il lavoro costa meno. Questo significa comunque una grande crescita economica per quel Paese, con tutto quello che ciò comporta. In conclusione: le lingue sono una straordinaria ricchezza, l'italiano lo è, e dal coltivare l'italiano possono venirci solo vantaggi, culturali ma anche economici.