16/12/06 Translimen

ANGLOBALIZZAZIONE ALL'UNIVERSITÀ DI ROMA 3

"Studying law at Roma3" è il nuovo progetto realizzato dall'Uni­versità Roma Tre per l'anno acca­demico 2006/07, presso la facoltà di Giurisprudenza. L'iniziativa consiste in cinque corsi in lingua inglese destinati esclusivamente a laureati e laureandi con ottima conoscenza della lingua anglosassone. La motivazione sa­rebbe la seguente: L' Inglese è, oggi­giorno, la lingua franca internazionale, in ogni campo. Persone di differenti culture e lingue comunicano regolar­mente con persone di altre nazioni in Inglese. La conoscenza dell'Inglese è essenziale in tutti i settori esposti alle influenze della globalizzazione".Si de­sume da queste parole che per parte­cipare al processo di globalizzazione sia imprescindibile parlare l'inglese. Nessun docente de "la Terza Univer­sità" sembra essersi chiesto perché questo, che viene presentato come un dato di fatto, stia accadendo, o che cosa comporti favorire il processo dell' «anglobalizzazione», e nessuno si è preoccupato di fornire un'alternativa che realmente rispetti l'ideale di de­mocrazia etnico-culturale di cui le isti­tuzioni scolastiche si fanno da sempre portavoce.

Gli "educatori" molto probabil­mente dovrebbero chiedersi se sia giusto ed educativo favorire a livello globale, in una serie di campi quali specializzazione e ricerca di un lavo­ro, i giovani (e non) di madrelingua inglese, a discapito dei giovani (e non) di madrelingua non inglese.

Il 13 dicembre abbiamo intervista­to il Prof. Zeno Zencovich, uno dei do­centi dì "Studying law at Roma3", nella sua stanza di ricevimento. L'incontro "conoscitivo" è stato condotto in termi­ni di rispetto reciproco nonostante la divergenza di opinioni, poiché l'inter­vista era costituita da domande dirette ma non aggressive. Il prof, "amante dell'inglese" ha risposto quasi sempre in maniera fin troppo diplomatica, eludendo la maggior parte delle volte le nostre richieste e portando la discus­sione su altre questioni. Escludendo le prime domande, fatte a scopo in­formativo, con la seconda metà del­l'intervista abbiamo cercato di mettere in difficoltà il docente con richieste più mirate e incalzanti, che hanno "co­stretto" Zencovich (sotto nella foto) a cercare dì motivare la realizzazione dì un'iniziativa così poco democratica e fatta all'interno di un'università pub­blica.

Da dove è partita quest'iniziati­va e quali sono state le motivazioni che hanno spinto la facoltà ad atti­vare questo progetto?

L'iniziativa è partita da un rappre­sentante degli studenti, che un paio di anni fa, qui in Facoltà, ci ha solle­citati su questo punto: "Parlate tanto di internazionalizzazione, nella facoltà lavorano docenti che, come risulta dai loro curriculum, insegnano e hanno in­segnato all'estero, e allora perché non fate anche corsi in lingua straniera?" quindi si può dire che sia partita dagli studenti, ed io ho molto apprezzato questo fatto; il corso comunque rispon­de a una generale tendenza visibile nelle università europee, certamente più in quelle di paesi con una lingua nazionale "debole", cioè senza grandi tradizioni e senza grandi prospettive di espansione, che hanno bisogno di atti­rare studenti, quindi tendono ad usare una lingua diversa dalla loro e tipica­mente usano l'inglese. Anche in paesi importanti come la Germania o i Paesi Bassi possiamo constatare come mol­te facoltà, anche di Giurisprudenza, impartiscano corsi in lingua straniera, generalmente in lingua inglese, e dun­que tentino di seguire un percorso di formazione d'indirizzo europeo.

Come nasce la collaborazione con la Fondazione Ferdinando Pe-retti, associazione a scopo uma­nitario che ha in parte finanziato il progetto?

La risposta è piuttosto semplice: io sono anche vicepresidente di questa fondazione, che è molto impegnata nel settore della tutela dell'ambiente, della salute e dei progetti di formazione ed educazione, quindi un'iniziativa del genere rientra fra i suoi scopi statutari e mi è sembrato che potesse essere significativa: l'ho sottoposta al consi­glio di amministrazione, i cui membri vengono da vari Paesi, e ho trovato un sostegno; ma al di là di questo, credo che le università debbano lavo­rare sempre di più con il mondo delle imprese del cosiddetto terzo settore, creando delle sinergie. In un momen­to in cui sono previsti tagli alle risorse per l'istruzione superiore, le università non possono sempre e solo lamentar­si di non avere abbastanza soldi per aprire corsi o programmare iniziati­ve, ma devono proiettarsi all'esterno: sono convinto che l'università, se ha un proprio ruolo nella società, trova sicuramente i finanziamenti, perché la società è interessata all'università, agli studenti universitari e ad una buo­na formazione per questi ultimi, quindi sono assolutamente fiducioso; quello che manca, in generale, è la menta­lità, perché nel mondo universitario si tende a ragionare così: "Ciò che mi passa lo stato lo utilizzo, ma al di fuori di quello non faccio null'altro". Invece io sostengo che si debba avere un at­teggiamento, non dico "manageriale", ma certamente molto propositivo, di proiezione all'esterno dell'attività uni­versitaria.

Perché sono state scelte pro­prio queste materie e non altre? Secondo lei, ce ne sono altre che potrebbero essere insegnate in in­glese?

Gli insegnamenti impartiti sono Diritto comparato, Giustizia europea, Diritto commerciale angloamericano, Diritto umanitario e Contratti interna­zionali. Nella facoltà è attivato anche un altro corso in lingua, francese però, che non rientra in questo progetto: Diritto contrattuale francese. Diciamo che ci sono due vincoli all'inserimento di altri corsi in lingua: il primo, ovvia­mente, è quello della competenza dei docenti nella lingua straniera. Essi debbono averne una padronanza tale da poter svolgere un corso di una ses­santina di ore, che non è un requisito così comune. Molti, quasi tutti i docenti conoscono una o più lingue straniere, ma un conto è averne una conoscen­za passiva, fatta soprattutto dì lettura e comprensione del parlato, un altro è essere in grado di fare un corso in lingua. Oltretutto, il progetto pone un problema non solo linguistico, ma an­che metodologico: quello di introdurre nuove tecniche di didattica che siano molto più vicine allo studente e che vedano una più efficace trasmissio­ne delle conoscenze dal docente al discente. Dunque, il primo vincolo è rappresentato dal fatto che non tutti i docenti hanno una conoscenza di una lingua straniera, francese o inglese o tedesco, o altre, tale da permettere loro di gestire un corso interamente in lingua; il secondo è un problema di ca­rattere amministrativo. E' chiaro, infat­ti, che si possono impartire in una lin­gua straniera soltanto corsi facoltativi, perché se fossero obbligatori IMPOR­REBBERO allo studente di conoscere quella lingua, e invece non è detto che lo studente debba conoscerla per for­za: una decisione del genere, nel no­stro caso, sarebbe discriminatoria nei confronti di chi non è anglofono o fran­cofono, quindi questo è un altro limite. Oltretutto, con i nuovi piani di studi, molto rigidi, si possono dare solo due esami opzionali, perciò il numero dei corsi a scelta deve essere necessaria­mente ridotto. Peraltro, l'anno prossi­mo aggiungeremo un nuovo corso, il sesto, in una materia correntemente insegnata nelle università americane e inglesi, chiamata "Law and Humani-ties", che consiste nell'analisi dei rap­porti tra il diritto e l'arte, la letteratura, il cinema, la musica, insomma le scien­ze umanistiche. Lo scopo è creare un "ponte" interdisciplinare, ovviamente verso la facoltà di Lettere, con docenti diversi dai soliti. Questo nuovo corso, che sarà attivato nell' a.a. 2006/'07, dimostra l'intenzione di allargare l'of­ferta didattica anche verso tematiche totalmente nuove, che non sono mai state trattate in precedenza.

Sul sito di presentazione dei corsi abbiamo letto che l'inglese è lingua franca internazionale. Ma secondo lei c'è equità nell'afferma-re che la lingua di un popolo, una lingua etnica, è "lingua franca"?

lo parto da un dato di fatto che è il seguente: se, poniamo, si incontrano un ragazzo portoghese e una ragazza italiana, per comunicare tra loro par­leranno in inglese. Quindi il problema dell'inglese come "lingua franca inter­nazionale" non è solamente un proble­ma di diritti, ma di tutte le esperienze sociali. Basta vedere l'uso che di que­sta lingua si fa in Internet, insomma, che l'inglese sia diventato la lingua internazionale mi sembra un dato ine­ludibile. Peraltro, è qualcosa che si ri­pete nel tempo, noi ne abbiamo espe­rienza: nel mondo antico il latino era la lingua franca, tutti lo parlavano, era il mezzo di comunicazione dell'epoca. Beninteso, esistono rapporti tra lingua e politica: il latino era la lingua univer­sale perché era la lingua dell'impero, così come oggi l'inglese è la lingua dell' "impero" americano. Nella storia dell'umanità questo fenomeno si è ri­petuto: c'è stato un periodo in cui la lingua internazionale era il francese, e adesso è la volta dell'inglese. Peraltro, bisogna dire che l'inglese è diventato lingua internazionale non tanto sulla base di spinte politiche dei governi in­glese e americano, quanto attraverso Elvis Presley e i Beatles: sono loro che hanno reso l'inglese lingua internazio­nale; la diffusione dell'inglese passa molto più attraverso la loro musica che non attraverso politiche specifiche de­gli stati. Si tratta di prenderne atto: io credo che non si debba pensare di vo­ler cambiare il mondo, ma sicuramen­te bisogna cominciare a mettere gli studenti italiani, in particolare nel mio caso quelli di Roma Tre, in condizioni di competere effettivamente con altri studenti di altri Paesi che possiedo­no capacità linguistiche maggiori. Un eccellente studente italiano che cono­sce solo l'italiano ha una prospettiva lavorativa dimezzata rispetto ad uno studente italiano medio che conosce anche una lingua straniera (come l'in­glese), lo credo che il compito dell'uni­versità sia offrire quest'opportunità a tutti gli studenti che lo desiderano, per essere più competitivi nei confronti di studenti e laureati ungheresi, porto­ghesi, svedesi.

Ad esempio in Ungheria, nel­l'università di Budapest, esiste

una cattedra di Esperantologia ed Esperanto. Nella nostra associazio­ne, promuoviamo l'esperanto come lingua franca, cioè non etnica, di un popolo in particolare, una sorta di "lingua-euro" per l'area dell'Unione Europea, di quegli Stati Uniti d'Eu­ropa che Altiero Spinelli tanti anni fa auspicava.

Da questa interpretazione di in­glese lingua internazionale sembra totalmente estranea l'idea di Unio­ne Europea, di Stati Uniti d'Europa e del ruolo a livello mondiale che essa potrebbe assumere afferman­do una propria lingua VERAMENTE franca, una lingua non etnica ma transnazionale. Non sarebbe miglio­re, nell'ambito della comunicazione tra popoli, più equa e conveniente, una soluzione come questa?

Certamente l'osservazione è cor­retta, ma c'è la necessità di distingue­re tra i piani dell'essere e del dover essere: nell'ambito di quest'ultimo, sicuramente noi possiamo discutere sulla preferìbìlìtà dì scelte linguìstiche non nazionali, e a questo proposito segnalo che all'interno (delle istitu­zioni) dell'Unione Europea c'è una fortissima contesa per le cosiddette "lingue di lavoro", essendoci una gran­de resistenza da parte dei francesi, dei tedeschi e anche degli spagnoli contro il predominio dell'inglese. Pe­raltro, io segnalo questo fatto: come l'inglese d'Inghilterra è stato in larga misura soppiantato dall'inglese ameri­cano - c'è una citazione molto bella, di G. B. Shaw, su questo: "L'Inghilterra e l'America sono due grandi nazioni divise da una lingua comune"(lui ha sbagliato sia l'autore - attribuendola a Mark Twain - che la citazione, NdR) - che differisce molto dall'originale, per pronuncia, ortografia e grammati­ca, così oggi l'inglese di cui parliamo non è più nemmeno quello americano, ma è molto "meticciato", fortemente influenzato dalle varie aree geografi­che in cui viene parlato, diviso in una miriade di quelli che vengono chiamati "Pidgin English". L'inglese si presta molto a queste "manipolazioni", e grazie al Cielo nessun purista viene a contestarci il fatto che non studiamo alla perfezione Shakespeare. Sicura­mente uno dei grandi vantaggi dell'in­glese è la sua duttilità. Ciò detto, mi rendo conto della preferibilità di scelte che non penalizzino le lingue nazio­nali; tuttavia, questo ci fa riflettere su quanto, per esempio, investiamo nella formazione linguistica in italiano e in altre lingue. Credo che forse la prima

base per un vero pluralismo linguistico consista nel rafforzare, in termini non nazionalistici ma culturali, la cono­scenza della nostra lingua.

L'italiano è una lingua straordi­naria: se si vuole fare qualcosa per tutelarla, si tratterebbe per esempio di assicurare che, in tutti quei casi in cui esiste un'espressione italiana ade­guata, non si cerchi di utilizzare ma­lamente al suo posto un'espressione inglese. Ma questo discorso ci porta molto lontano dal progetto di cui mi occupo, che consiste nel mettere in grado gli studenti e i laureati in giuri­sprudenza di Roma Tre di competere adeguatamente coi loro colleghi belgi, polacchi e così via.

Forse la risposta a questa do­manda è stata già anticipata nelle risposte precedenti, comunque continuiamo a domandarci se esi­sta un principio giuridico vero e proprio in base al quale vada ac­cettata e vista come equa questa "imposizione" della lingua inglese (o, in via teorica, di qualsiasi altra lingua etnica) come lingua inter­nazionale di comunicazione, che provoca svantaggi alle persone non di madrelingua anche sul pia­no economico, dato che ogni anno, come dimostra il rapporto Grin, c'è un consistente flusso di risorse (18 miliardi di euro) dai Paesi non an­glofoni verso quelli anglofoni.

Diciamo che sono in gioco gros­si interessi economici, e che dietro l'insegnamento dell'inglese ci sono ovviamente vantaggi di cui, peraltro, non godono solo l'Inghilterra o l'Ame­rica, ma anche altre entità nazionali: nelle tantissime scuole di lingua sor­te sul nostro territorio, la gran parte dei docenti è di madrelingua italiana, quindi il vantaggio economico non è riservato soltanto ad alcuni Paesi. Detto questo, la mia personale espe­rienza mi porta a ritenere che più una

persona conosce le lingue, più tende a volerne conoscere delle altre, cioè si può dire che "una lingua tira l'altra". Se si impara una lingua straniera, poi si è molto facilitati ad apprenderne un'altra, e poi un'altra ancora e così via. Credo che quello che manca nella scuola italiana, a partire dalla scuola elementare, sia un'attenzione verso il fattore linguistico come fattore fon­damentale dell'evoluzione dell'intelli­genza, della cultura, della capacità del soggetto di relazionarsi con gli altri. Le capacità linguistiche si acquisiscono come quelle matematiche, tecniche o di altro genere: sviluppando un'atten­zione verso la struttura della lingua, la grammatica, la sintassi, la semiologia. Non ritengo, naturalmente, che si deb­bano trasformare le scuole elementari o medie in luoghi di pura formazione glottologica e linguistica, però sicura­mente spingere gli studenti ad impa­rare (oltre al dialetto locale, proposta quest'ultima che mi pare un po' singo­lare), a fianco all'italiano, una lingua, un'altra lingua e poi un'altra ancora determinerebbe una grande ricchezza per il nostro Paese. Un esempio bana­le: pensiamo alla ricchezza che viene all'India dall'avere l'inglese come se­conda lingua. Ormai quasi tutti i cali center delle ditte statunitensi e inglesi sono stati trasferiti in India, perché lì il lavoro costa meno. Questo signi­fica comunque una grande crescita economica per quel Paese, con tutto quello che ciò comporta. In conclusio­ne: le lingue sono una straordinaria ricchezza, l'italiano lo è, e dal coltivare l'italiano possono venirci solo vantag­gi, culturali ma anche economici.