Nel 1999 Il 21 febbraio è stato scelto dall’UNESCO come giornata internazionale della lingua materna, con l’intento di promuovere la diversità linguistica e culturale e il poliglottismo (termine usato nella traduzione ufficiale, e definito nei vocabolari italiani col duplice significato di “conoscenza di più lingue da parte della stessa persona e”coesistenza di più lingue nello stesso territorio”) . Molti gruppi esperantisti la celebrano, collegandola a una risoluzione, del 2007, questa volta dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che proclamò il 2008 Anno Internazionale delle Lingue “per promuovere l’unità nella diversità e la comprensione universale attraverso il poliglottismo e il multiculturalismo”. Il documento ufficiale dell’ONU specifica che “le lingue sono lo strumento più potente di conservazione e sviluppo del nostro patrimonio, tangibile ed intangibile. Tutte le azioni intraprese per promuovere la disseminazione delle lingue madri servirà non solo ad incoraggiare la diversità linguistica e l’istruzione multilingue, ma anche a sviluppare la piena consapevolezza delle tradizioni linguistiche e culturali attraverso il mondo e a stimolare la solidarietà, fondata sulla comprensione, la tolleranza ed il dialogo.” Nel sito dell’ONU in cui è espresso questo principio c’è un rinvio alla documentazione che precisa un certo numero di azioni che l’ONU svolge per mettere sullo stesso piano tutte le lingue per quanto riguarda la diffusione dei propri documenti ufficiali, con un piccolo dettaglio scritto in caratteri minuscoli: si tratta unicamente delle 6 lingue ufficiali dell’ONU.
Da questo punto di vista l’Unione Europea fa molto di più e con un numero di lingue molto maggiore. Questa politica è illustrata in una relazione del commissario europeo Vytenis Andryukaitis, riportata nella rivista della FEI: in linea di principio tutti i documenti ufficiali sono tradotti in tutte le 24 lingue europee. Possono esserci ritardi per lingue che hanno meno traduttori, per cui non è garantito che questa documentazione sia contemporaneamente messa a disposizione di tutti gli interessati (cosa che può essere discriminatoria nel caso di bandi di concorso con precise scadenze). Secondo gli intendimenti dell’UE, il multilinguismo europeo consiste nella conoscenza della propria lingua materna, (da imparare nella prima infanzia) e di almeno un’altra lingua da scegliere nel paniere delle 24 lingue europee, (da cominciare a imparare più tardi, ma ancora nell’infanzia). L’uso delle lingue è monitorato dalle statistiche rilevate (attraverso inchieste sui cittadini condotte sugli argomenti più disparati) dal cosiddetto ’Eurobarometro’, secondo il quale in questo periodo (prima dell’uscita del Regno Unito dall’UE) la lingua più usata, (come lingua materna o come seconda o terza lingua) è il tedesco (circa il 18% dei cittadini), mentre la meno usata è il lituano (2%). Questo sistema non è perfetto per due ragioni, dovute alla scelta del paniere di lingue osservate oggi (per esempio il catalano non è preso in considerazione, ma tutti sanno che è molto più praticato del lituano), ma soprattutto perché questo paniere è supposto fisso nel tempo, senza considerare le lingue materne degli immigrati. Se vogliamo essere coerenti con le celebrazioni della lingua materna, come esperantisti europei non possiamo fare finta di non accorgercene.
Adesso riportiamo questo quadro universalistico alla realtà italiana, come è oggi e come si prospetta per il futuro. Come è oggi, è abbastanza chiaro: in linea di principio in Italia i cittadini che hanno acquisito come lingua materna il francese o il tedesco nelle zone dove sono maggioritarie, godono di tutti i diritti dei cittadini che usano l’italiano; per lo sloveno non c’è una parità di diritti completa. In un convegno di linguisti che si è svolto in concomitanza col congresso esperantista di Frascati si è parlato anche di lingue che sono state maggioritarie in territori limitati, e che vanno gradualmente estinguendosi (è stato anche proiettato un filmato in una di queste lingue, il mòcheno, parlato da circa 2.000 persone ma maggioritario in una zona limitata della provincia di Trento, e che non gode di nessuna forma di tutela). Un altro caso, di portata maggiore, è il romanì, di provenienza dai rom dell’Europa orientale e dall’India, parlato come lingua minoritaria da almeno un milione di persone in insediamenti a macchia di leopardo in diversi stati, fra cui alcune zone limitate in Italia; l’università di Teramo ne ha avviato la procedura di riconoscimento come lingua minoritaria per l’Italia.
Ora in Italia la situazione si sta complicando per la presenza degli immigrati. Per accedere a un permesso di soggiorno che poi porti alla cittadinanza italiana pare emerga la posizione che questo si possa ottenere soltanto dopo aver sostenuto un esame di italiano; già oggi i figli di migranti vengono accettati in asili italiani, e imparano l’italiano in pochi mesi; i loro genitori si sforzano di imparare l’italiano in tempi un po’ più lunghi (e molti hanno il vocabolario italiano sul telefonino) per trovare o conservare un posto di lavoro, per parlare con il medico, o semplicemente per prendere la patente. Trascurando le regioni già bilingui, di cui si è parlato sopra, questo potrebbe portare a un bilinguismo di fatto, in cui la prima lingua, quella materna, se non viene rafforzata dall’uso in famiglia, viene più o meno rapidamente dimenticata per essere soppiantata dall’italiano, parlato con i coetanei. Ma esisterà ancora un italiano di riferimento, se fin dalle scuole materne sarà imposto l’uso esclusivo dell’inglese? Che tipo di multilinguismo (che nei documenti ufficiali tradotti dall’inglese viene spesso chiamato “multilingualismo”) ci aspettiamo dalle leggi che regoleranno la nostra istruzione pubblica? Ora c’è anche l’impressione che l’italiano degli adolescenti si stia deteriorando, per la diffusione in rete di frasi brevi, sulla spinta di “Twitter”. Vale la pena di fare una riflessione su questi argomenti, sollecitando l’interesse di uomini politici, di giornalisti, di insegnanti, di giovani che non trovano lavoro, di emigrati di seconda e terza generazione?