Nell’ottobre del 2011 partecipai alla presentazione del libro di Robert Phillipson "Americanizzazione e inglesizzazione come processi di conquista mondiale", presso la sede del Partito Radicale in Via di Torre Argentina a Roma.

In quella circostanza erano presenti Giorgio Pagano, Robert Phillipson, Ulderico Pesce, Pino Caruso, Corrado Veneziano, Giselda Pontesilli.

Fu per me una piacevole sorpresa scoprire che l’argomento coinvolgeva persone del mondo della cultura e dello spettacolo.

Conoscere i termini della questione linguistica è fondamentale per comprendere l’importanza della difesa delle lingue nazionali dall’invadenza fagocitante dell’inglese. L’argomento non viene mai trattato dai media che, anzi, assecondano la tendenza per la quale l’inglese si va imponendo in tutti i settori seguendo i principi del liberismo economico. Ormai usiamo l’inglese anche dove non dovremmo e lo facciamo senza alcun pudore, laddove, solo qualche anno fa, ci saremmo vergognati di farlo.

Un esempio? Vi ricordate il concetto di telelavoro? Nasce negli Stati Uniti negli anni settanta del secolo scorso e in Italia lo abbiamo sempre chiamato “telelavoro” senza che nessuno si fosse mai sognato di parlare di “teleworking”. Da qualche anno a questa parte abbiamo sostituito il telelavoro con lo “smart working”, che in sostanza è la stessa cosa ma, pur di non ammetterlo, si sono inventate le teorie più bizzarre per sostenere che si tratta di altra cosa. “Smart working” non necessita di alcuna traduzione con grande soddisfazione degli “inglesizzatori” che ora usano con altrettanta grande disinvoltura espressioni del tipo “work life balance” che, al pari di “smart working”, condizionano il modo di pensare legato alla nostra lingua. Un’espressione semplice e di facile rappresentazione come “il lavoro a distanza, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, consente una migliore qualità della vita” finisce per essere scritta così: “Lo smart working consente il conseguimento di un migliore work life balance”. Ebbene oggi possiamo leggere cose del genere scritte da laureati che sfoggiano quello che credono essere un linguaggio tecnico, magari ricercato e colto, trasmesso loro da un processo formativo globalizzato, ovvero inglesizzato. In questo contesto finiranno presto per sentirsi a disagio, e a doversi vergognare, coloro i quali, come me, continueranno ad usare l’italiano.

E che dire delle leggi scritte ricorrendo all’inglese? E delle scritte nei luoghi pubblici del tipo “morgue” al posto di “obitorio”?

In occasione della presentazione del libro di Phillipson pensai che bisognava assolutamente fare qualcosa per fermare questa tendenza al suicidio delle lingue e, in particolare, del nostro italiano.

Qual era la ragione per la quale quella che per me, e per i presenti a quell’evento, era una questione importantissima, per la maggioranza della gente rappresentava sicuramente un “non problema”?

Molto semplicemente la maggior parte della gente ignora i meccanismi che presiedono alla formazione del pensiero, strettamente legati alla lingua. Si trattava e si tratta di una mancanza di conoscenze alla quale sicuramente i “media” contribuiscono in modo sostanziale.

Cosa si potrebbe fare affinché i “media” diano spazio alla questione?

Era questo l’interrogativo che mi ponevo e fu allora che pensai fosse necessario creare tante, molte occasioni come quella ma, soprattutto, bisognava trovare persone autorevoli e conosciute dal grande pubblico, persone che assumessero il ruolo di “testimonial” di quell’aspetto importante rappresentato dalla “democrazia linguistica”.

Fu così che pensai che mi sarebbe piaciuto affrontare l’argomento con un personaggio come il grande Pino Caruso che la maggior parte del pubblico conosce prevalentemente per essere un attore comico e per le sue numerose apparizioni televisive, ma che ha alle spalle una grande carriera teatrale dove, tra le altre, ha magistralmente interpretato opere come “Il berretto a sonagli” di Pirandello. Pino Caruso è anche autore di diversi libri tra cui “L’uomo comune”, che ha vinto la Palma d'oro al Salone Internazionale del Libro di Bordighera. L’ultimo suo libro, “Appartengo a una generazione che deve ancora nascere”, è una spassosa raccolta di aforismi e brevi racconti che inducono a profonde riflessioni, quelle stesse riflessioni che accompagnano l’autore nella vita e nelle quali il lettore finisce per identificarsi alla ricerca di una risposta sui grandi temi dell’esistenza umana.

Ho contattato via email il Maestro Pino Caruso che mi ha subito risposto, e con grande disponibilità e cortesia ha accettato di incontrarmi.

La circostanza è stata l’occasione per una piacevole conversazione sui temi che più mi stanno a cuore e che spero riscuotano l’interesse del lettore.

 

Pino Caruso: riflessioni sulla presenza invadente della lingua inglese

L’inglese sta fagocitando la nostra lingua al punto che in Italia l’italiano rischia di diventare un intruso di fronte ad una presenza sempre più massiccia dell’inglese. Usiamo l’inglese come se all’italiano mancassero le parole e ci illudiamo, così facendo, di essere internazionali mentre siamo solo provinciali. Imparare l’inglese è una buona cosa ma in aggiunta all’italiano e non in sua sostituzione. Penso che dobbiamo fare qualcosa per difendere la nostra lingua. E difendendo la nostra lingua potremo tutelare meglio anche la nostra economia.

Il dilagare dell’inglese è il risultato di fattori politici ed economici

Winston Churchill sosteneva che un paese si conquista più con la lingua che non con le armi. Noi, con questa corsa sfrenata all’uso di termini inglesi, non facciamo altro che sottolineare la nostra voglia di diventare una colonia. La globalizzazione deve contribuire alla diffusione dei grandi principi di civiltà e alla distribuzione equa del benessere. Non deve portare all’annullamento delle diversità nazionali che rappresentano un patrimonio dell’umanità.

Non stiamo imparando l’inglese ma stiamo dimenticando la nostra lingua italiana. Ci stiamo americanizzando.

Penso che, in politica, l’abuso di termini inglesi sia strumentale: quando non vuoi far capire quello che vuoi dire o quello che vuoi fare, lo dici in inglese. Esempio: “voucher” invece di “buono” o “tagliando”.

 

L’Europa e la lingua comune

L’unità dell’Europa non si costruisce con la disparità ma con la reciprocità. Non basta avere una moneta comune e una lingua comune per fare l’Europa Unita. Ci vuole l’unione politica.

Nella comunità europea oggi ci sono 24 lingue ufficiali. Nell’Europa, esclusa la Russia, tra le prime 10 lingue parlate, al primo posto troviamo il tedesco, al secondo il turco seguito dall’italiano e dal francese. Al quinto posto l’inglese e a seguire il russo, lo spagnolo, il polacco, il rumeno e l’olandese. Questi dati devono farci riflettere. La comunicazione è un aspetto fondamentale in tutte le società. La lingua, oltre ad essere il mezzo indispensabile alla comunicazione, è rappresentativo dell’identità culturale e territoriale di chi la possiede. L’entità europea manca di questo elemento unificante

A chi spetta decidere su questa materia? L’esperanto potrebbe essere la soluzione se fosse riconosciuta come lingua comune, affiancato alle lingue dei singoli paesi. Ma il Parlamento europeo potrebbe mai prendere una decisione simile? E allorquando decidesse a favore dell’esperanto come lingua comune, bisognerebbe poi insegnarlo nelle scuole. L’esperanto rappresenterebbe anche un modo per preservare le lingue nazionali che andrebbero comunque studiate. Il problema è che senza una decisione politica in questo senso non si fa nulla.

 

Pino Caruso e la religione: riflessioni di un cristiano miscredente

Gli italiani sono quasi tutti cattolici ma non sanno il perché” è uno degli aforismi che si possono leggere in “Appartengo a una generazione che deve ancora nascere”. “E’ incredibile come la religione sia ancora un’imposizione sociale e non una scelta individuale”. Continuando le dirò che “Per amore della verità, coltivo il dubbio”. Vede “Se Gesù non è figlio di Dio, ha fatto molto; se lo è, poteva fare di più”. Quando parliamo di Dio, non facciamo altro che parlare dell’idea che abbiamo di Dio. In fondo Dio esiste come idea dell’uomo. Spesso le religioni finiscono per essere un ostacolo alla conoscenza di Dio, semmai questi esistesse veramente. “Che le religioni siano l’oppio dei popoli può negarlo soltanto chi non conosce la pericolosità delle droghe”. E continuando con gli aforismi, tanto per dare un quadro più completo del mio rapporto con la religione, gliene citerò altri due: “La fede è una cecità che pretende di vedere” e “Il dogma è un modo sleale di evitare spiegazioni”.

 

Pino Caruso e il cibo: essere vegetariani

L’uomo non è fatto per nutrirsi di carne. Il consumo di carne rientra negli aspetti della cultura, come la religione. Ed è anche per colpa della religione - e mi riferisco in particolare alla religione cattolica - e della bibbia, se l’uomo ritiene di avere il potere di usare gli animali a proprio uso e consumo.

 Io posso dire di non aver mai mangiato carne in vita mia. In pratica è successo che quando avevo due o tre anni e vivevo con la mia famiglia a Santa Flavia, una località vicino Palermo, dove eravamo sfollati per via della guerra, avevamo un gallo bellissimo con un piumaggio dai colori sgargianti che io chiamavo Totò. Un giorno vidi questo gallo tra le braccia di mia madre che tremava. Quella sera il gallo divenne la portata principale della cena. Ricordo solo che non cenai e piansi tantissimo. Era come se avessero ucciso un mio coetaneo e compagno di giochi. Da allora non ho mai mangiato carne. Qualche anno dopo mi portarono a visitare un mattatoio e allora mi fu ben chiaro quanta sofferenza ci fosse dietro alla produzione della carne. Non dobbiamo mai dimenticare che la carne non è altro che il corpo di un essere vivente capace di provare sentimenti e sofferenza al pari dell’animale uomo con il quale condivide il pianeta in cui viviamo. Oggi sappiamo che la carne fa male alla nostra salute anche se gli interessi economici che ruotano dietro l’industria alimentare fanno si che queste informazioni vengano addolcite e, molto più spesso, nascoste.

 

Pino Caruso scrittore

La maggioranza della gente non legge i libri, e figuriamoci se legge i miei, anche se il mio ultimo libro, “Appartengo a una generazione che deve ancora nascere”, qualcosa ha venduto, 20.000 copie, ma in un paese di 60 milioni di abitanti 20.000 copie sono niente.

A marzo usciranno i miei ultimi due libri riuniti in un cofanetto. Uno si intitola “la vita si impara leggendo”, l’altro “il senso dell’umorismo è l’espressione più alta della serietà”. Un terzo libro che uscirà è un giallo e si intitola “Giallo al museo S. Anna della Misericordia” che è un museo di Palermo.

Mi congedo da Pino Caruso ringraziandolo per la piacevole conversazione e con la speranza che vi sia presto l’occasione per un altro incontro.