Per una presentazione della personalità di Bruno Migliorini (1896-1975) si veda il contributo di Tullio De Mauro a pag. 56. Per i suoi scritti sull’Esperanto, e in Esperanto, si veda Lingvaj aspektoj de Esperanto (1924-1963), Pisa, Edistudio, 1985.
Che la terra giri intorno al sole, lo sanno oggi nel mondo civile anche gl’incolti: ma, non più di tre secoli fa, chi lo sosteneva correva il rischio non solo di conoscer la prigione ma, ciò che è quasi peggio, di passare per stravagante o per pazzo di fronte ai benpensanti. Tanto era contro il «senso comune» il pensare che non il sole ma la terra girasse. «Vogliono i Cupernicei che il Sole stia immobile locato al centro del mondo, e che la terra in ventiquattro ore tutta si raggiri al suo aspetto. Stiasi uno nel mezzo d’una camera fermo, e miri il Sole da una finestra, che l’abbia in prospettiva da mezzo giorno. Certo se il Sole sta fermo nel centro, e la finestra gira con tanta velocità, in un istante sparirà il Sole dagli occhi di colui, che è nel mezzo della camera... ». — Così credeva di ragionare un uomo d’ingegno, il Tassoni; ma i più s’accontentavano di coprir di ridicolo i «Cupernicei».
Io credo fermamente che le obiezioni che si fanno intorno all’attuabilità d’una lingua ausiliare artificiale non abbiano maggior valore che non avessero le obiezioni anticopernicane; e che del resto anche qui, più che accampar ragioni, la maggior parte degli avversari dell’idea d’una lingua ausiliare obbediscano soltanto ad una prevenzione. Poiché costoro non si degneranno d’aprire un libro che porti scritto sulla copertina il nome di Esperanto, mi rivolgo a quelli che sono disposti a esaminare senza preconcetti la questione, a rendersi conto essi stessi se quello a cui gli Esperantisti mirano è sì o no ragionevole e attuabile: pur senza lusingarsi di rispondere, nel breve spazio concesso a una introduzione, a tutte le obiezioni immaginabili, mi sarà almeno possibile di chiarire alcuni punti fondamentali. E dovrò, per forza, cominciare un po’ da lontano.
Chi guardi a larghi tratti la storia dei popoli e delle loro lingue vedrà manifestarsi costantemente, se pure in modi diversi, la tendenza a far corrispondere la comunanza di lingua alla comunanza di civiltà. Cedono di fronte al latino - la lingua dell’amministrazione nell’impero d’Occidente - l’iberico, il gallico, il ligure, il veneto, l’etrusco, l’umbro, l’osco e così via. Cedono, di fronte alle lingue nazionali, i dialetti e se, p. es., il processo di unificazione è molto più avanzato in Francia che in Italia, è perché in Francia le barriere interne, politiche, economiche, culturali, sono cadute da molto maggior tempo che fra noi.
Si fondono, a Malta, l’arabo e l’italiano con qualche pizzico d’altre lingue, per formare il maltese. Si fondono, nei porti dell’Estremo Oriente, inglese e cinese nel Pidgin English.
Ora, per quale ragione questo non si verifica anche nel mondo europeo, che pure è collegato da così stretti vincoli di comune civiltà? La risposta è agevole. Di contro alla tendenza, diciamo così, livellatrice, di cui s’è visto or ora qualche esempio, esiste una tendenza conservatrice, tanto più forte quanto più i popoli sentono fortemente di sé. Se le antiche lingue dell’Europa occidentale hanno ceduto di fronte al latino, ciò avvenne sì per i vantaggi che recava la conoscenza della lingua ufficiale dell’Impero, ma soprattutto in seguito alla condizione d’inferiorità in cui quei popoli si sentivano di fronte ai Romani. Viceversa i popoli del bacino orientale del Mediterraneo, Greci o ellenizzati, resistettero alla spinta che li avrebbe portati a romanizzarsi, perché la cultura greca si sentiva, per molti aspetti, superiore alla romana. Copiosissime tuttavia furono, nei tempi del Basso Impero, come le influenze culturali, così le influenze linguistiche dell’Occidente sull’Oriente, e viceversa.
Lo stesso accade nell’Europa d’oggi. La spinta verso l’unità ha introdotto in tutte le lingue europee, anche a dispetto della loro diversa origine, una quantità di elementi comuni, per lo più riferentisi appunto alla comune civiltà (termini come teatro, caffè, hôtel sono noti a tutte le lingue d’Europa). Nessuno dubita che l’italiano somigli di più al latino che, p. es., all’olandese o al greco moderno, ma, quando si tratti d’una lettera commerciale o della descrizione d’una macchina, è senza confronto più facile tradurre dall’italiano in olandese o in greco moderno o, persino, in ungherese che in latino. E si potrà tradurre letteralmente parola d’onore in quasi tutte le lingue moderne , ma non si potrebbe dire in latino verbum honoris!
D’altra parte le resistenze che incontra questa tendenza sono fortissime. Ogni nazione (cioè press’a poco, dopo l’ultima guerra, ogni stato) ha un patrimonio di tradizioni da difendere, che tutto s’impernia sulla lingua e sulla letteratura nazionale. Ben naturale quindi che le singole nazioni s’oppongano con ogni sforzo a quelle tendenze che, se trionfassero, farebbero svanire il loro carattere, la loro fisionomia peculiare.
Già un indizio del ravvivato sentimento nazionale sono quelle campagne contro le parole straniere a cui abbiamo assistito durante la guerra e assistiamo oggi, in Italia e all’estero. Ma una conseguenza ben più importante dal punto di vista linguistico hanno avuto i mutamenti politici internazionali: le lingue dei nuovi stati, la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, sono diventate lingue ufficiali, che mirerebbero a sostituire anche nell’uso internazionale le grandi lingue culturali che prima tenevano il campo, cosicché, p. es., l’amministrazione ferroviaria cecoslovacca non scrive alla nostra in tedesco, come naturalmente accadeva sotto il regime austriaco prima della guerra, bensì in boemo. Appunto questa inverosimile moltiplica-zione del caos internazionale reclama urgentemente un rimedio.
E, qualunque sia per essere il futuro aspetto dell’Europa - persino se si dovesse giungere, ciò che pare oggi più che mai improbabile, agli Stati Uniti d’Europa - non sembra verosimile che si debba giungere per via naturale a una comune lingua europea, tanto è - e dev’essere - l’attaccamento di ogni nazione al suo più sacrosanto patrimonio, la lingua.
Ora qui, fra le due opposte tendenze, livellatrice e conservatrice, trova la sua ragion d’essere il movimento in favore d’una lingua ausiliaria. Rispettando il diritto, anzi il dovere di ogni nazione a difendere l’integrità della propria lingua, prestandole anzi in questo man forte, questo movimento mira, insieme, a soddisfare il bisogno d’una lingua comune per i rapporti commerciali, turistici, scientifici ecc. fra i membri di diverse nazioni.
A ciascuna nazione, per i bisogni nazionali, la propria lingua, integra per quanto è possibile da contaminazioni, e, per i rapporti internazionali una lingua che sia di tutti e di nessuno, e che rappresenti la quintessenza delle lingue europee. Da queste premesse risultano subito alcuni corollarî.
La lingua ausiliare non mira in alcun modo a soppiantare le lingue nazionali, ciò che sarebbe assurda e perniciosa utopia.
Resta esclusa la possibilità che si scelga come lingua internazionale una qualsivoglia delle lingue europee, ciò che sarebbe, del resto, oltre che ingiusto, impossibile. Ingiusto, perché attribuire a una lingua (poniamo l’inglese o il francese) il carattere di lingua internazionale vorrebbe dire da parte delle altre nazioni accordare a quella prescelta un immeritato privilegio, quasi un protettorato morale. Impossibile, perché non ci sarà forza al mondo che spinga i Francesi a cedere agli Inglesi, e viceversa, e pretendere di giungere a una soluzione simile vorrebbe dire perpetuare il caos.
Anche più evidente è l’impossibilità di arrivare ai risultati voluti per mezzo di una lingua morta, cioè, diciamo addirittura, del latino. Il dilemma è chiaro: o si può rendere («artificialmente», non c’è altra via) il latino atto a servir di strumento a un’età che non è più la sua, e inevitabilmente rimarranno così frustrati i desideri dei latinisti di ristabilire la continuità tra l’antico e noi, o si vuol mantenere il latino nelle strettoie del purismo e, malgrado le più ingegnose acrobazie (birota velocissima = bicicletta e, perché no?... arida nutrix = balia asciutta!), il latino non potrà servire.
Tuttavia, obietterà alcuno, sempre meglio dedicare alle lingue vive o alle lingue morte il tempo che si spenderebbe per imparare... che cosa? una lingua artificiale! —: ci si aprirà almeno la via a conoscere i tesori letterari e culturali di altre civiltà... Non sarò certo io, che, neanche a farlo apposta, insegno lingue, a negare l’utilità dello studio di esse! Dio me ne guardi! Se lo stregone che comprò da Pietro Schlemihl la sua ombra volesse comprar da me quel che so di latino o di francese, non lo venderei a nessun costo... Ma questa è un’altra questione; io affermo solo questo: che ogni persona che abbia qualche ragione d’entrare in relazioni pratiche con l’estero trova già adesso il suo tornaconto a dedicare un mese o due allo studio dell’Esperanto, e molto più ne troverà in seguito se, come è lecito ritenere da molti indizi, l’Esperanto si diffonderà anche di più. Con lo studio delle lingue vive o di quelle morte, in uno o due mesi tesori culturali e letterarî non ne giungono a portata di mano, questo è certo! M’accorgo che così ho fatto il nome dell’Esperanto, mentre finora avevo parlato solo di lingua ausiliare artificiale. Ma, prima di venire a dar qualche cenno sull’Esperanto, debbo ancora chiarir brevemente questa parola «artificiale».
L’uomo per sua natura cammina coi piedi, come sapeva anche M. de la Palisse; e natura dei piedi è di rovinarsi all’attrito coi sassi. Fra queste due tendenze del pari «naturali», la soluzione più semplice che si sia trovata fin qui per camminare sui sassi è quella di mettersi le scarpe. Orbene, terribile a dirsi, le scarpe sono una invenzione «artificiale». E artificiali sono le strade e i ponti e i treni e le automobili e gli aeroplani - artificiale è, sì, quasi tutta la nostra civiltà.
Si obietta che la lingua, invece, non può essere artificiale. Non mi è lecito qui, in questa introduzione che minaccia già di riuscir troppo lunga, di tentar di sviscerare la questione: mi proverò di dimostrare altrove che in gran parte questa obiezione su null’altro si fonda che sulla troppo ristretta concezione della lingua che i Romantici ebbero e misero di moda: per i Romantici, nello stesso modo che vera poesia era solo la poesia popolare, così vera lingua era solo la lingua popolare. Ma ora non v’è più nessuno che neghi il valore di quel che in una parola si può dir la «cultura». Poeta culto era Omero, poeta culto il cantor di Rolando, e differenza sostanziale non v’è fra essi e i poeti delle età riflesse, l’Ariosto e il Tasso. Così non v’è dialetto popolare che non abbia risentito della lingua letteraria, non v’è, soprattutto, lingua letteraria e culturale che non abbia svolto «artificialmente» i suoi mezzi espressivi. Orbene: le lingue artificiali meglio costruite sono soltanto un po’ più artificiali delle nostre lingue culturali.
Si è detto infatti che la lingua ausiliare vuol essere la quintessenza delle lingue europee: e il modo di soddisfare questa esigenza, ottenendo una lingua che sia in grado di funzionare, è quello di adattare a una grammatica oltremodo semplice (sul tipo dell’inglese) un lessico composto per quanto è possibile da parole già note alla maggior parte delle lingue europee.
Il torto del Volapük, la lingua foggiata dal can. M. Schleyer, presentata al mondo nel 1879 e ormai da più di un ventennio abbandonata, fu quello di trascurare questa esigenza: in modo che ne risultava un gergo inintellegibile ai profani. Basta un esempio: volapük è composto di pük = lingua e del genitivo di vol = mondo (cioè volapük = lingua del mondo, lingua mondiale): chi riconoscerebbe sotto vol e pük le parole inglesi world e speech (to speak). Invece il principio fondamentale applicato dall’autore dell’Esperanto nel fissare la forma e il significato delle radici fu quello della massima internazionalità: patro (= padre) rappresenta in certo modo la media dei vari vocaboli che esprimono questo concetto nelle lingue europee. Una volta scoperto questo principio, si dileguarono tutti i progetti costruiti aprioristicamente: su questi, e sulle altre lingue artificiali, sorte dopo l’Esperanto, non mette conto di soffermarsi, perché solo esso ha avuto notevoli applicazioni pratiche, mentre gli altri sono rimasti allo stato di progetto.
Converrà tuttavia ricordare l’Ido, la cui vantata perfezione consiste in un sistema di derivazione rigido e macchinoso e in distinzioni di sinonimi così sottili e complicate da disgradarne le lingue naturali, e l’Interlingua, o, per meglio dire, quel gruppo di progetti di semplificazione del latino che fanno capo al Latino sine flexione del prof. Peano, e che potrebbero tutt’al più arrivar a servire come lingua scritta per scopi scientifici, ma non sono assolutamente in grado di rispondere ai più elementari requisiti di lingua ausiliare parlata oltre che scritta e destinata a scopi pratici oltre che a scopi scientifici.
Ma è tempo ormai di dare qualche notizia più precisa sull’Esperanto. Esso è opera di un medico polacco, il dott. Lazzaro Lodovico Zamenhof, nato a Biaµystok il 15 dicembre 1859, morto a Varsavia il 14 aprile 1917. Il caos linguistico della sua piccola città natale, dove polacchi, russi, tedeschi, ebrei lottavano ferocemente fra loro, spinse il giovane Zamenhof, figlio di un professore di lingue moderne, a cercare un rimedio; già nel 1878 egli aveva pronto un progetto di lingua ausiliare, ma solo nel 1887, dopo incessanti ritocchi, presentò al mondo la lingua nella sua forma attuale. Dallo pseudonimo Doktoro Esperanto (= Dottore Speranzoso), che lo Zamenhof usò nel suo primo libro, venne alla lingua da lui creata il nome di Lingvo Internacia de Doktoro Esperanto, e più tardi abbreviatamente di lingua Esperanto.
La propaganda nei primi anni fu molto difficile; tempo, danaro, fatica vi spesero lo Zamenhof e i primi adepti. Dapprima limitata quasi esclusivamente alla Russia, alla Germania, alla Svezia, essa prese grande impulso quando della cosa s’interessarono alcuni autorevoli Francesi, e dalla Francia il movimento s’irradiò in Inghilterra, in Svizzera, in Italia, in Spagna.
Nel 1905 a Boulogne sur Mer fu tenuto il primo congresso internazionale, col quale, si può dire, l’Esperanto usciva dall’infanzia: la lingua, che fino allora s’era usata quasi esclusivamente per iscritto, fu parlata da tutti gl’intervenuti senza imbarazzo. D’allora in poi i congressi si seguirono d’anno in anno fino allo scoppio della guerra (Ginevra 1906, Cambridge 1907, Dresda 1908, Barcellona 1909, Washington 1910, Anversa 1911, Cracovia 1912, Berna 1913...!). Durante la guerra, com’è naturale, l’Esperanto ebbe una forte scossa; ma pur qualche notevole servizio ebbero per mezzo suo feriti, prigionieri e internati.
Dopo la guerra il movimento riprese più vigoroso di prima...
[Seguono notizie sulla diffusione dell’Esperanto, che omettiamo, perché, ovviamente, sono datate al 1923, anno di pubblicazione della prima edizione del “Manuale di Esperanto” e quindi ormai lontane nel tempo. L’introduzione si conclude con queste parole, sempre valide:]
Molte altre cose si potrebbero ancora dire, ma noi siamo certi che i fatti varranno a convincere chi vorrà considerarli senza partito preso: a quelli che credono ancora l’Esperanto un’utopia, noi domandiamo soltanto di guardarlo un po’ davvicino.