Il professor Tullio De Mauro è docente di filosofia del linguaggio all’Università “La Sapienza” di Roma. È autore di numerosissime opere di linguistica; fra le più note la Storia linguistica dell’Italia unita e la Guida all’uso delle parole; ha curato l’edizione italiana del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure.
Dalla sua introduzione all’edizione 1995 del «Manuale di Esperanto» di Bruno Migliorini (CoEdEs, Milano) riprendiamo la parte iniziale, che costituisce una presentazione al “Migliorini esperantista” e quella conclusiva che si pone la domanda se una lingua transetnica come l’Esperanto abbia uno spazio, e quale.
Migliorini esperantista? Molti, anche competenti, perfino suoi allievi, rispondono con un moto di sorpresa all’interrogativo.
Bruno Migliorini ancora oggi, a vent’anni dalla sua morte, e pur dopo vent’anni di intenso rinnovamento degli studi linguistici e di storia linguistica italiana, può e deve essere considerato tra i maggiori esponenti della linguistica del Novecento e tra i massimi, e forse il massimo, negli studi di storia linguistica italiana.
Gli anni decisivi della sua formazione sono quelli romani. A Roma, tra fine degli anni dieci e anni venti, Migliorini arriva poco più che ventenne dal Veneto: una radice che non dimenticherà mai, né occulterà nella simpatica regionalità della pronunzia. Nella capitale entra in contatto con ambienti diversi: con la Società filologica romana di Ernesto Monaci, feconda di studi filologico-linguistici d’alta specializzazione, ma anche di grandi interessi didattici, applicativi e di politica linguistica; con Cesare De Lollis, filologo, linguista, storico della cultura e delle letterature europee, che egli doveva considerare il suo maestro intellettuale e accademico, e col gruppo della “Cultura”; con il grande e mai dimenticato glottologo Luigi Ceci, l’unico linguista italiano che, a inizio del secolo, abbia avuto forza teorica e stoffa per opporsi seriamente alle tesi linguistico-estetiche di Croce, e di cui, come allievo e collaboratore, Migliorini cura le dispense di linguistica generale. Mentre attende alla preparazione dei primi lavori, entra a far parte del nascente staff dell’Enciclopedia italiana. Qui gli si schiude un altro mondo di contatti: di nuovo, con linguisti a forte vocazione teorica, come Antonino Pagliaro, redattore capo dell’Enciclopedia di Gentile, col quale Migliorini collabora alla redazione di ciò che di una grande impresa enciclopedica è il sistema nervoso centrale: lo schedario; e soprattutto con gli innumeri cultori di hard sciences che collaborano all’Enciclopedia e che affinano nel giovane linguista la conoscenza di un mondo solitamente precluso agli umanisti: quello delle scienze naturali ed esatte e delle loro terminologie irsute, mescolati di elementi tratti da lingue storiche, ma piegati a nuove determinazioni, di elementi foggiati secondo i moduli astorici del latino scientifico internazionale e di “parole macedonia” (così le ha chiamate Migliorini e le chiamiamo oggi) costruite artificialmente a partire da frammenti di lingue storiche.
In questo composito quadro formativo stanno a mio avviso le radici della prima scelta di studio di Migliorini: la grande e ancora insuperata ricerca Dal nome proprio al nome comune (Torino 1927). Qui Migliorini si mostra lessicologo capace di dominare ambiti linguistici assai diversi, ma insieme esploratore e dominatore di un tema inconsueto all’epoca: il tema delle vie attraverso cui polarità teoricamente contrapposte, naturalità ed artificialità, spontaneità storica imprevedibile e convenzionalità pianificata, interagiscono nel concreto vivere delle lingue. Un nome proprio convenzionalizza parole d’uso corrente, dell’aggettivo per il verrucoso fa il cognomen latino Cicero, dell’appellativo augurale “nerbo dell’intero popolo” fa il nome Demosthenes ecc.; e poi, nel corso storico, l’elemento convenzionale, attribuito per eccellenza a una personalità altamente significativa, popolare almeno nelle cerchie colte, ma spesso più vastamente, ricade nel vocabolario comune, con la minuscola per così dire, a volte con strani rimbalzi: un cicerone, un demostene, un ottimo cavour ecc.
Il lavoro di Migliorini nasce da una grande perizia storico-filologica; ma sottintende, a mio avviso, una consapevolezza teorica e scelte di filosofia della lingua assai precise. Ho cercato altrove (nella voce a lui dedicata nel Lexikon Grammaticorum, ora in uscita presso Niemeyer, Tubingen, diretto da Harro Stammerjohann) di evocare se non di trattare la questione: Migliorini (in parte come il suo maestro Ceci) è stato un teorico refoulé: apparentemente votato alla paziente schedatura di fatti linguistici singoli, e piluccare fenomeni, ma attenzione, da fonti di prima mano, che lui solo aveva esplorato, piluccare è una scherzosa parola chiave che egli adoperava volentieri per descrivere modestamente il suo lavoro. Bisogna scorrere pazientemente i suoi scritti perché (come appunto altrove ho detto) si trovino affioramenti della sua complessa e consapevole visione della teorica della lingua, la cui esistenza a me pare sicura, eppure sorprende più d’uno dei suoi stessi allievi.
A questo interesse teorico si connette direttamente il non occasionale interesse di Migliorini per l’esperanto. Se ne rileggano le caute parole, scritte in premessa della prima edizione di questo manuale:
“L’uomo per sua natura cammina coi piedi, come sapeva anche M. de la Palisse; e natura dei piedi è di rovinarsi all’attrito coi sassi. Fra queste due tendenze del pari “naturali”, la soluzione più semplice che si sia trovata fin qui per camminare sui sassi è quella di mettersi le scarpe. Orbene, terribile a dirsi, le scarpe sono una invenzione “artificiale”. E artificiali sono le strade e i ponti e i treni (...) - artificiale è, sì, quasi tutta la nostra civiltà. Si obietta che la lingua, invece, non può essere artificiale (...). In gran parte questa obiezione su null’altro si fonda che sulla troppo ristretta concezione della lingua che i Romantici ebbero e misero di moda: (...) vera lingua era solo la lingua popolare. Ma ora [scriveva l’allievo di Ceci e di De Lollis] non v’è più nessuno che neghi il valore di quel che in una parola si può dir la “cultura”. (...) Non v’è dialetto popolare che non abbia risentito della lingua letteraria, non v’è, soprattutto, lingua letteraria e culturale che non abbia svolto “artificialmente” i suoi mezzi espressivi. Orbene: le lingue artificiali meglio costruite sono soltanto un po’ più artificiali delle nostre lingue culturali”.
Con tono dimesso, con un vocabolario terra terra, come sarebbe piaciuto a Wittgenstein, e un filo di ironico ottimismo verso i suoi colleghi (vorremmo fosse vero anche oggi quel “non v’è più nessuno che non veda”), Migliorini pone il problema del rapporto tra naturalità e convenzionalità nella vita di ogni lingua e quello della continuità tra lingue storiche e lingue, per dir così, ‘soprastoriche’ o, come anche si dice, ‘transglottiche’.
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Citiamo di nuovo le parole che Dante immagina dettegli da Adamo al culmine del suo viaggio oltremondano (Par. XXVI 129-31): Opera naturale è ch’uom favella,/ma così o così, natura lascia/poi fare a voi, secondo che v’abbella. La pluralità linguistica, l’arbitraire du signe di Saussure, è esso stesso un dato naturale per gli umani. Per essi, la storia sta dentro la natura, ne è il prolungamento specifico.
Se questo è il quadro delle cose, c’è spazio per una lingua artificiale che trascenda in qualche misura la variabilità linguistica? E, se sì, quale?
Vorrei riprendere un accenno già fatto, forse troppo sinteticamente. La natura flessibile, flou, indeterminata delle nostre parole non è solo la matrice di incalcolabili dilatazioni del senso di ciascuna nostra parola e, quindi, di differenziazioni e variazioni nell’uso di una lingua. Essa è anche la matrice di possibili determinazioni del senso nell’ambito delle tecniche e delle scienze (rinvio per ciò al volume collettivo Il trattamento linguistico dell’informazione scientifica, Bulzoni editore, Roma 1993).
È ben vero: tali determinazioni spesso non fanno che aggiungere differenze tecniche a differenze spontanee, variazioni artificiali a variabilità naturali. Ma altrettanto spesso nella storia le vediamo protese ad altro fine.
Nel suo ancor fondamentale Cours de linguistique générale, con umorosa e dimessa immagine Ferdinand de Saussure ci ha insegnato che, nel suo vivere concreto, una lingua è il frutto del continuo riequilibrarsi di due forze: lo “spirito di campanile” e la “forza dei commerci”. La prima ci porta al massimo di coesione interna col nostro gruppo e di differenziazione rispetto agli altri; la seconda ci porta a soddisfare il bisogno di rapporto con gli altri d’altra lingua, scambiandoci con le loro lingue parole e significati.
Da tempo immemorabile, la forza dei commerci ha portato popoli di lingua diversa a costruirsi strumenti transglottici: cifrazioni, numerazioni, simbologie religiose, astrologiche, tecniche, scientifiche. Detto altrimenti, come ben vide Migliorini, nel così o così dantesco si iscrive naturalmente il bisogno di costrutti artificiali che consentano lo scavalcamento della diversità linguistica.
È uno scavalcamento sub condicione: per attuarsi esso ha bisogno che chi lo progetta e chi ne utilizza i frutti possegga il patrimonio linguistico primario di una lingua storica, variabile. Ma lo scavalcamento, ben prima del nascere di progetti di lingue artificiali, ha funzionato e funziona: dai segni dello Zodiaco ai sistemi di cifrazione e numerazione agli alfabeti fonetici internazionali, alle nomenclature, terminologie e metrologie scientifiche e tecniche internazionali.
Sta qui la radice di quelle lingue artificiali a posteriori, progettate a partire dai patrimoni lessico-grammaticali di lingue storiche, come l’esperanto.
Per la duttilità, per la “affabilità” verificata largamente in un secolo e per l’ormai avvenuto passaggio dalla fase di lingua progettata a quella di lingua stricto sensu, cioè effettivamente usata da centinaia di migliaia di locutori sparsi in tutto il mondo (su questi e altri caratteri si è fermata l’analisi di una mia valente allieva, Silvia Lacquaniti, Lingue pianificate ed esperanto, pref. di R. Corsetti, Roma 1994), l’esperanto vede schiudersi oggi prospettive concrete d’uso: il nostro mondo vive ormai , per motivi economico-produttivi, demografici, sociopolitici, profonde e inedite esperienze di interdipendenza tra popoli di diversa nazionalità e lingua e di compresenza di diverse culture.
Una comune lingua senza base etnica definita può essere (come già è tra gli esperantisti) una chiave facilitante, transglottica, dei sempre più necessari rapporti tra culture. E, in molti casi (redazione di testi e codificazioni di rilievo internazionale), potrebbe assumere una importante funzione di riferimento giuridicamente primario e nazionalmente neutro.
Si pensi alla complessa esperienza in atto nell’Unione Europea, su cui si è soffermato da ultimo Claude Piron (Le défi des langues. Du gâchis au bon sens, Parigi 1994). Ogni lingua ufficiale è considerata alla pari, dal finlandese al francese, dall’italiano al portoghese e all’inglese, entro l’Unione. Conseguenza: ogni norma o atto dell’U.E. va tradotto in tutte le lingue. Tutto bene? Sì e no. Per ragioni di parità, ogni testo in ogni redazione ha valore in ognuno dei paesi dell’Unione. Una norma tradotta in italiano “fa testo” in Portogallo in una contesa giuridica tra una compagnia di pesca fiamminga e una inglese. Chi sa quanto ineluttabilmente e sottilmente diverse siano le lingue e, quindi, quanto differiscano i testi in lingue diverse per quanto messi in parallelo, capisce che un simile stato di cose è sì una festa per i traduttori, ma lo è anche per gli avvocati. Ossia vi è qui anche una fonte di innumeri controversie interpretative, come saggiamente già hanno preavvertito giuristi come Sabino Cassese. Ecco un caso concreto in cui l’Unione potrebbe decidere di avere un unico testo di riferimento che, per non ledere la parità delle varie nazionalità, sarebbe ragionevole redigere in esperanto.