Viene presentato il 15 febbraio a Bruxelles a tutti i ministri della pubblica istruzione dei Paesi della EU da Leonard Orban, commissario al multilinguismo, il Rapporto dal titolo “Una sfida salutare – Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’Europa”.

Un gruppo di esperti costituito su iniziativa della Commissione europea, quindi pagato anche dalle tasse dei parlanti di italiano o di danese, ha lavorato intensamente per produrre quello che in precedenza Orban aveva in mente ed aveva chiesto, e, si sa, il cliente ha sempre ragione.

I nostri poveri esperti, il cui imbarazzo a redigere e firmare quel rapporto appare evidente, sono tutti personaggi di fama, come gli scrittori Amin Maalouf e Tahar Ben Jelloun, per citare i piu’ noti in Italia. Essi si sono trovati insieme a delle vecchie volpi della politica linguistica e culturale come Jutta Limbach, presidente del Goethe Institut, e David Green, presidente dell'EUNIC (European Network of National Cultural Institutes), già direttore generale del British Council, ed altri, che a prima vista, dovevano agire solo di copertura, come Eduardo Lourenço, filosofo, Jan Sokol, filosofo, già ministro dell'istruzione della Repubblica ceca, eccetera.

Del resto l’inclusione dell’ex Direttore Generale del British Council è inspiegabile al limite del ridicolo. E’ la vecchia storia dell’oste e del suo giudizio sul vino che egli stesso vende.

 

Il gruppo correttamente individua i problemi e li enuncia. Ad esempio il rapporto dice: “Va da sé che la molteplicità delle lingue impone vincoli, pesa sul funzionamento delle istituzioni europee e ha un costo in termini di denaro e di tempo. Questo costo diventerebbe anche proibitivo se si volesse attribuire a decine di lingue tutto il posto che i loro locutori potrebbero legittimamente rivendicare.

Al cospetto di questa sovrabbondanza, si è facilmente tentati di lasciare che s'affermi una situazione di fatto in cui una sola lingua, l'inglese, occuperebbe nei lavori delle istituzioni europee un posto preponderante, due o tre altre lingue riuscirebbero a mantenere, ancora per qualche tempo, una presenza declinante, mentre la grande maggioranza delle nostre lingue avrebbe soltanto uno statuto simbolico e non sarebbe quasi mai utilizzata nelle riunioni comuni.

Un'evoluzione di questo tipo non ci sembra auspicabile. Perché sarebbe contraria agli interessi economici e strategici del continente e di tutti i suoi cittadini, di qualunque lingua materna; e anche perché sarebbe contraria allo spirito stesso del progetto europeo, per diversi motivi”.

 

E ancora: “Difendere la dignità dell'essere umano, uomo, donna o bambino, salvaguardarne l'integrità fisica e morale, impedire il deterioramento del suo ambiente naturale, rifiutare ogni umiliazione e ogni discriminazione abusiva legata al colore, alla religione, alla lingua, all'origine etnica, al sesso, all'età, alla disabilità, ecc. sono valori su cui non si può transigere in nome di qualsivoglia specificità culturale.”

 

Qui siamo ancora nel vago, quindi si puo’ benissimo dire che non ci devono essere discriminazioni basate sulla lingua, anzi che tali discriminazioni sono contrarie ai valori fondamentali e fondanti dell’Europa.

 

Quando dai principi si passa alle soluzioni la delusione non potrebbe essere maggiore. Si tratta di una serie di misure che non intendono in alcun modo cambiare la situazione di fatto di un inglese prevaricante che, in quanto lingua dell’impero del bene, viene esportato in Europa insieme ad altre esportazioni: libero mercato, distruzione dei sistemi di solidarietà che il mondo invidia all’Europa, ecc.

 

Il gruppo di esperti, infatti, presenta l’inglese come lingua di comunicazione internazionale in Europa e lo da’ per scontato. Anzi non crede di dover dedicare attenzione a questa cosa. Si parla inglese perché sì, e “più non dimandare”.

 

Dice il rapporto: “Dal punto di vista professionale, tutto lascia pensare che la lingua inglese sarà, in futuro, sempre più necessaria. . . . Se, in certi settori d'attività, è già pressoché obbligatorio conoscerla, è anche vero che la conoscenza di una lingua che tutti sono di fatto tenuti a conoscere non costituisce, per chi si candida a un impiego o vuole intraprendere un'attività, un particolare titolo…”

 

Di fronte a questa situazione il rapporto si dedica a parlare d’altro. In effetti, presenta delle proposte, che definire “irrealistiche” è il meno che si può fare. Per questo io credo che i nostri esperti (almeno quelli in buona fede) ci facciano più che esserci (scemi). Fanno l’indiano o lo gnorri o il nesci, per usare alcune espressioni italiane adatte alla situazione. Dice il Tommaseo alla voce “indiano” del suo Dizionario: «Far l'indiano, fingere di non ne sapere, o affettare fuor di proposito maraviglia; com'uomo estraneo che vien di lontano. Più comune che fare il nesci e lo gnorri; questi dicono affettata ignoranza, il primo segnatamente di fatto, il secondo anche d'idea o d'artifizi d'avvedimento; e denotano ancora meno sincerità».

 

Considerando la definizione di Tommaseo, forse l’espressione che indica artifizi ed insincerità è la più adatta.

 

Da un lato si dice: “Nelle relazioni bilaterali tra i popoli dell'Unione europea l'uso delle lingue dei due popoli dovrebbe prevalere su quello di una terza lingua. Questo implica che per ciascuna lingua europea esista, in ogni paese dell'Unione, un gruppo significativo di locutori competenti e fortemente motivati.”

 

In altre parole in Bulgaria ci dovrebbe essere un numero sufficiente di parlanti di olandese, danese e finlandese affinché i rapporti bilaterali si possano condurre in queste lingue. Allo stesso modo in Danimarca, in Italia, a Malta, ecc.

 

Come questo si possa raggiungere in una situazione in cui tutte le scuole europee insegnano inglese e solo inglese è lasciato all’iniziativa romantica dei singoli, come vedremo tra breve.

 

Comunque è chiaro che i nostri esperti non si curano dell’insegnamento di tutti coloro che si sono occupati di bilinguismo circa l’impossibilità di mantenere un multilinguismo stabile in presenza di una lingua di comunicazione forte. Da ultimo François Grin dell’Università di Ginevra dice chiaramente nel suo L'enseignement des langues étrangères comme politique publique (L’insegnamento delle lingue straniere come politica pubblica) redatto per il Consiglio Superiore per la Valutazione del Sistema Scolastico in Francia (Haut Conseil de l’èvaluation de l’école) ed in linea alla pagina  http://cisad.adc.education.fr/hcee/documents/rapport_Grin.pdf

 

A pagina 62 del suo testo Grin afferma (traduzione nostra): “Tuttavia l’efficacia nella comunicazione porterà tutti i membri del gruppo ad adattarsi, a parità di tutto il resto, alla lingua nella quale il livello di competenza del più “debole” dei partecipanti è il meno debole, in altre parole si cercherà la lingua nella quale il livello minimo di tutti i partecipanti è massimo. . .”  Ed a pagina 73: “ …il plurilinguismo [in Europa]. . .in assenza di misure correttive costanti ed importanti…è fondamentalmente instabile e non puo’ che essere soppiantato dallo scenario “solo inglese”.

 

Non curandosi di questo il Rapporto Maalouf passa alla sua ricetta sul come produrre questi necessari interpreti di polacco in Grecia, di slovacco in Spagna, ecc.

 

“Perché questi contingenti di locutori possano essere formati, l'Unione europea dovrebbe farsi promotrice dell'idea di lingua personale adottiva. L'idea è quella di incoraggiare ogni cittadino europeo a scegliere liberamente una lingua distintiva, diversa dalla sua lingua identitaria e anche dalla sua lingua di comunicazione internazionale. Così come la concepiamo, la lingua personale adottiva non sarebbe per nulla una seconda lingua straniera, bensì, in qualche modo, una seconda lingua materna. Studiata intensamente, parlata e scritta correntemente, questa lingua sarebbe integrata nel percorso scolastico e universitario e nel curriculum professionale di ogni cittadino europeo. Il suo apprendimento si accompagnerebbe ad una conoscenza approfondita del paese o dei paesi in cui questa lingua è praticata, della letteratura, della cultura, della società e della storia legate a questa lingua e ai suoi locutori”.

 

Qui rasentiamo la follia. Se, come abbiamo detto prima, non si è tenuto conto dell’insegnamento dei sociolinguisti, non si è nemmeno tenuto minimamente conto dell’esperienza comune prima che dell’insegnamento di coloro che si occupano di glottodidattica, insegnmento della lingua. Imparare una seconda lingua a livello di lingua madre, diciamo almeno al livello più alto, C1, del Quadro Comune Europeo di Raffronto per l’Apprendimento e l’Insegnamento Linguistico del Consiglio d’Europa, è cosa che pochi, pochissimi riescono a raggiungere in situazioni particolari (non a caso il Rapporto cita lo scrittore polacco Conrad che scriveva in inglese). Indicare questo come obiettivo per l’europeo medio è solo “menare il can per l’aia” per usare un’altra delle espressioni che il Tommaseo amava.

 

Oppure si tratta solo di una risposta alle richieste di Orban, che nota in un suo diario in linea di credere che l’instaurarsi di una lingua franca (lingua ponte, la chiama) è un fenomeno sociolinguistico, non il risultato di decisioni legislative o politiche. In altre parole: lasciate che l’inglese si affermi da sé e non chiedetemi di fare qualcosa, perché la giustizia fra popoli e lingue non è affar mio. La mia carica di Commissario al Multilinguismo della UE è tutta una messa in scena per far credere ai cittadini della UE, che noi ci occupiamo di questo.

 

Renato Corsetti

 

Psicolinguista dell’Università La Sapienza di Roma e membro del Comitato Scientifico di Allarme Lingua