Andrea Chiti-Batelli Tove Skuttnab-Kangas, Linguistic genocide in education - or worldwide diversity and human rights?, Mahwah (New Jersey), Lawrence Erlbaum, 2000, pp. XXXIII, 785.

Questo volume della nota glottodidatta danese è un’imponente silloge, con nuovi e interessanti documenti e argomenti, di tutto quello che è stato scritto sul rischio di sparizione da cui sono minacciate la maggior parte delle lingue minoritarie ancor oggi esistenti nel mondo; e minacciate, in particolare, dall’effetto imperialistico esercitato, in specie nell’educazione, dall’inglese (che si manifesta, aggiungo io, anche contro le lingue più diffuse, le quali continuano ad illudersi di esser, per ora, fuori pericolo).

Tuttavia, nonostante l’acribia dell’autrice, la ricchezza dell’argomentazione, la dovizia della documentazione e l’ampiezza della bibliografia finale l’opera, se è preziosa nel fornirci il "quadro", come si dice in francese, della situazione e della sua gravità - congiunta con il generale disinteresse e sottovalutazione del fenomeno 1 - non ci apprende nulla di fondamentale, invece, circa i rimedi validi del male (anch’essa non sa andare oltre la proposta, tutt’altro che nuova, di bi- o pluri-linguismo, imposto anche a coloro che parlano lingue dominanti) 2, perché non sembra rendersi adeguato conto che:

1. l’effetto dominante di una lingua su un’altra è conseguenza di una sperequazione e pressione egemonica ad opera di un potere politico di dimensioni e peso economico e culturale superiore, e non può quindi esser corretto, se non male e parzialmente, ove non venga corretta quella sperequazione, con la creazione di un adeguato contro-potere;
2. che il mondo ha sempre più bisogno di una lingua franca unica per tutti (è questa l’esigenza fondamentale)3,
3. e che, se questa continuerà ad esser una lingua viva (peggio se parlata da molte centinaia di milioni di persone e in tutte le parti del mondo), i fenomeni di glottofagia paventati dall’autrice - lungi dall’esser se non arrestati, almeno rallentati - non potranno se non accrescersi, in rapidità e in intensità,
4. giacché solo una lingua che non sia materna per nessun popolo (come una lingua morta o inventata) non ha, o ha in proporzione incredibilmente inferiore, l’effetto distruttivo che si diceva.
5. E’ questo - una lingua franca planetaria unica che non sia glottofaga e metta tutti su un piede di parità - l’obiettivo al tempo stesso adeguato al fine e conforme all’esigenza del mondo moderno, di piena trasparenza della comunicazione internazionale. Invece il "multilinguismo per tutti" ignora tale tesi, e resterà perciò un mito inutilmente complicato e vano (oltre che irrealizzabile) perché privo di supporto politico, e servirà solo a distoglier l’attenzione dai fini e dai mezzi validi per superar l’‘‘afasia" delle classi e dei popoli meno favoriti, e quindi corregger la loro attuale condizione d’inferiorità linguistica.

In conclusione, il solo insegnamento utile che si può forse trarre da un’opera come questa - pur essenzialmente dedicata a questioni strettamente pedagogico-linguistiche e scritta da una glottodidatta - è che l’egemonia linguistica, specie a livello internazionale, va ben al di là dell’effetto distruttore di lingue e culture dominate: essa porta con sé un’egemonia politica, uno sfruttamento economico, una permanente sottomissione dei più deboli e più poveri ai più potenti e più ricchi, in un circolo vizioso che non è esagerato definire "imperialismo linguistico".

Ma l’indicazione, anche esatta e circostanziata, delle cause di una malattia è solo una pre-condizione - necessaria, ma insufficiente - ad estirparla. Per raggiunger quel fine occorre una terapia che vada alla radice del male, e non si limiti a curarne i sintomi: occorre cioè, nel nostro caso, dar vita a un contro-potere avente un preciso interesse proprio a combatter e neutralizzare la minaccia imperialistica che si diceva, grazie ad una propria lingua franca che - per le sue superiori qualità, unite al peso di tale nuovo soggetto politico - possa in un secondo tempo affermarsi anche come lingua franca unica dell’intero pianeta.

Purtroppo è questo un problema che l’autrice non si pone neppure. Certo, essa non ignora i pregi dell’esperanto, a cui dedica qualche pagina (pp. 280-284), dichiarandolo, distrattamente, preferibile all’inglese come lingua ausiliaria internazionale. Ma lascia poi subito cadere la questione - il suo è un semplice lip service - senza nemmeno chiedersi come e a quali condizioni potrebbe avvenire un "cambio della guardia" di tale entità, e destinato a urtare interessi, privilegi, influenza egemonica internazionali così rilevanti da esser difficilmente superabili senza un piano e una volontà politici precisi e decisi. Nel resto dell’opera essa si limita ad affermare che occorre dar un rilievo maggiore, fra i diritti dell’uomo, ai diritti linguistici, per trarne le conseguenze pedagogiche che sappiamo circa l’imposizione di un multilinguismo per tutti (anche se vario - quanto alle lingue da insegnare - nelle diverse parti del pianeta). Ma se è vero che è importante combatter la discriminazione linguistica, fondata sulla falsa convinzione che vi siano lingue "più uguali" e con maggior dignità di altre, resta che il punto decisivo, la questione fondamentale - condizionante anche quell’obiettivo - è il riequilibrio della posizione egemonica che ha oggi l’inglese (e in proporzione minore hanno, in alcune parti del mondo, il francese, o lo spagnolo, o il tedesco, o il russo, o, in Estremo Oriente, il cinese). A questo riequilibrio, hic et nunc, può oggi dar inizio, e in modo decisivo - ho sostenuto più volte - l’Unione Europea, se riuscirà ad assumer dimensione politica, struttura federale, consapevolezza dei propri interessi linguistici e culturali e della coincidenza di questi con quelli di altri popoli; e saprà pertanto sceglier come lingua federale una lingua pianificata (in pratica solo l’esperanto, oggi, è pronto per l’uso)4.

Non è incoraggiante che di tutto ciò non vi sia consapevolezza alcuna, fosse pur vaga e aurorale, neppur in una studiosa di vaglia come la Skuttnab-Kangas. E dispiace tanto più, in quanto essa giunge più volte alla soglia di tale consapevolezza, quando ripete - anche al termine del suo poderoso volume, richiamandosi anche a Marx - che dimostrare e cercar di persuadere è inutile, se a quest’opera intellettuale non va unita una energica azione politica, che corregga, in base a un piano preciso, l’attuale situazione di unequal power, causa prima dell’oppressione linguistica.

E’ a questo punto però che all’autrice - che ignora interamente gli autori che si sono occupati di etnopolitica, e in genere di federalismo etnico, infra- e sovrannazionale, quale Guy Héraud - mancano gli strumenti per sviluppare quella che resta, nel suo volume, un’intuizione espressa in poche righe e un obiettivo solo intravisto. Così le sue 800 e più pagine terminano proprio là dove l’opera avrebbe potuto cominciar ad esser realmente interessante e dir qualcosa di veramente nuovo.

Essa cita, è vero, nell’ampia bibliografia finale (quasi tutta in inglese, alla barba del magnificato multilinguismo) il saggio, a nostro avviso fondamentale, di Louis-Jean Calvet, Linguistique et colonialisme (Parigi, Payot, 1974); ma non mostra di averne compreso il significato politico e la novità, e cioè le argomentazioni che stanno alla base anche dei nostri suggerimenti: la politica, un potere politico egemonico condiziona ferreamente e mantiene gli equilibri, o piuttosto squilibri linguistici, quali che siano le politiche educative adottate; squilibri immodificabili se non si corregge prima quell’egemonia.

Hic Rhodus, hic salta, dicevano gli antichi. E gl’Inglesi ripetono: first things first. Mentre Dante aggiunge: "i vostri non appreser ben quell’arte".

1 Andrebbero particolarmente segnalate ai molti europeisti che trovano naturale e addirittura auspicano l’adesione della Turchia all’Unione Europea le pagine in cui vengono ampiamente descritti il genocidio sistematico, ad opera di quel Paese, non solo della lingua, ma della stessa popolazione curda (pp. 321 ss.).

2 E’ da sempre la tesi alquanto interessata (e del tutto utopistica) di tutti i glottodidatti, a sostener la quale sono destinati anche gli atti di un loro congresso internazionale - curati dalla stessa Skuttnab-Kangas, alla quale si deve anche il contributo più ampio e conclusivo - raccolti nel volume dal titolo inequivocabile Multilingualism for all, Lisse (Paesi Bassi), Swets e Zeitlinger, 1995. Lo spirito ferocemente corporativo dei glottodidatti non si smentisce mai, mascherandosi dietro tutti i pretesti, apparentemente i più nobili e disinteressati.

3 Mentre i più non hanno né inclinazione soggettiva né interesse oggettivo al plurilinguismo, che pertanto è quanto meno esagerato considerare - salvo situazioni particolari - come un "diritto dell’uomo", o addirittura un diritto dell’uomo fra i più essenziali.

4 I federalisti aggiungono che la Federazione Europea susciterà col suo esempio - e dovrà incoraggiare - la formazione di grandi Federazioni di dimensioni continentali anche in altri continenti, e che ciò costituirà un contributo fondamentale, e indispensabile, alla redenzione del Terzo mondo e alla riduzione delle più gravi disuguaglianze che affliggono il pianeta. Questa dunque - e non il multilinguismo per tutti - può esser la via, anche se lunga e difficile, verso un mondo meno ingiusto e più equilibrato. Solo un tale riequilibrio politico renderà concretamente possibile, e non velleitario, l’auspicato riequilibrio linguistico.