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DIS-A236

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Il “Consiglio Superiore della Lingua Italiana”: le ragioni del sì e quelle del no -

Editoriale (Lid’O. Lingua italiana d’oggi, Roma, Bulzoni, I, 2004)

di massimo arcangeli


Si deve al Presidente della prima Commissione Affari Costituzionali del Senato durante il secondo governo Berlusconi, il senatore di Forza Italia Andrea Pastore, la proposta di istituzione di un Consiglio Superiore della Lingua Italiana (CSLI), presentata il 21 dicembre 2001 ma mai approdata in aula. Il responsabile tecnico-scientifico del progetto di CSLI era Lucio D’Arcangelo, già allievo di Giuliano Bonfante, autore di un recente volume che ha suscitato reazioni contrastanti e il cui titolo suona inequivocabile: Difesa dell’italiano. Lingua e identità nazionale (Roma, Ideazione 2003).

Nella versione iniziale di quel disegno di legge (n. 993), firmato da numerosi esponenti del governo guidato dal Cavaliere (nessuno dei quali, però, linguista di professione), si stabiliva che a presiedere il CSLI dovesse essere il Presidente del Consiglio dei ministri e a parteciparvi il Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, il Ministro per i beni e le attività culturali, un Segretario “con compiti di indirizzo”, nominato dal Presidente, “due membri designati in rappresentanza dell’Accademia della Crusca e della Società Dante Alighieri” e ancora, eventualmente, “non più di due membri designati in rappresentanza dei comitati scientifici nell’ambito dello stesso CSLI”.
Del progetto, come vedremo, esiste anche una seconda versione: una versione che, politicamente parlando, ci sembra però complicare anziché semplificare le cose.


2. Le ragioni del legislatore (I): i punti a favore.

Il senatore Pastore, nella relazione di commento che accompagnava il lancio della sua proposta, affermava che la lingua è “un bene sociale, che va difeso dall’infiltrazione di tutte quelle espressioni incongrue e disorientanti per i più, che non provengono unicamente dall’adozione indiscriminata di parole straniere, ma anche da neologismi incomprensibili ed accentuazioni vernacolari”. Salvo precisare, subito dopo, che la difesa di quelle “accentuazioni” non doveva avvenire a scapito delle “dinamiche linguistiche regionali”; da salvaguardarsi, però, a patto di non rappresentare una minaccia, con spinte centrifughe o fughe in avanti , all’unità garantita dal modello linguistico nazionale.

Gli altri punti degni di nota di quella relazione mi parevano allora, e mi sembrano ancora oggi, sostanzialmente tre:

l’affermazione della mancanza nel nostro paese, “per cause antiche e recenti, […] [di] un modello di lingua in cui tutti possano riconoscersi”;
la convinzione che la globalizzazione e la rivoluzione informatica sarebbero “occasioni per ridisegnare il profilo dell’italiano, non per annunciarne, o auspicarne, la fine come fanno i soliti profeti di sventure”;
la constatazione che l’italiano non goda attualmente di buone condizioni di salute.

Sui primi due punti, sui quali non avrei molto da obiettare, non mi soffermo; vorrei sviluppare invece qualche breve riflessione sull’ultimo.
Che l’italiano, in questi ultimi tempi, non appaia proprio godere di una salute di ferro è giudizio di molti; così come è giudizio di molti che in determinati settori la sua qualità lasci alquanto a desiderare.

È il caso della pubblica amministrazione per esempio, dove appare chiaro, e la cosa non è sfuggita al senatore Pastore, come la nostra lingua ha tutt’altro che smesso di soffrire delle incursioni di un burocratese che si è inutilmente creduto i vari interventi in materia da parte di diversi ministri (Cassese, Bassanini, Frattini), illudendoci con la promessa di una rivoluzione copernicana in materia di lingua della pubblica amministrazione, potessero definitivamente sradicare dall’uso. Un burocratese che continua quindi a fare da apripista al malvezzo nostrano di condire di inutili tecnicismi e di inzuppare nell’ipertrofia sintattico-argomentativa i testi che il legislatore destina ai cittadini, generando così, osserva Pastore, un vero e proprio smarrimento:

In un recente seminario sulla qualità del processo argomentativo si è parlato addirittura di una «sindrome di smarrimento» che colpisce i destinatari di certe disposizioni giuridiche e amministrative a causa della loro formulazione nebulosa e contorta, che oltretutto ne impedisce anche una corretta applicazione. È una sindrome di cui dovrebbero tener conto politici e giuristi per recuperare l’attenzione di quell’italiano «smarrito» per il quale oggi risulta difficile anche aprire un giornale.
Naturalmente, continua il senatore, non sono a loro volta esenti da responsabilità, a causa della cattiva qualità dell’italiano di cui si servono, coloro che parlano dal mezzo televisivo:

Gli stessi telegiornali, che in Gran Bretagna sono stati uno dei mezzi di diffusione dello standard nazionale, il cosiddetto BBC English, sono divenuti nell’ultimo decennio il veicolo di un uso asfittico, frettoloso e non di rado distorto della lingua.

Per quanto, andrà detto, anche l’inglese della vecchia Inghilterra non sia certamente più il nobile inglese oxfordiano di un tempo, mi dichiaro sostanzialmente d’accordo anche su questo aspetto sollevato dal promotore del disegno di legge: un organismo come il CSLI, tutto sommato, non nuocerebbe alla nostra lingua e potrebbe anzi incidere positivamente sulle sue future sorti. In questi ultimi anni, peraltro, le alzate di scudi nella nostra vecchia Europa contro la presenza ingombrante dell’inglese, talvolta accettato passivamente o in modo del tutto immotivato, non si contano. Per una Corte Europea di Giustizia che, nel settembre del 2001, lo ha ammesso sulle etichette dei prodotti circolanti all’interno dell’Unione Europea e una Facoltà di Medicina di Oslo che nel dicembre del 2000 lo ha introdotto, al posto del norvegese, come lingua obbligatoria nella comunicazione tra docenti e studenti1, c’è un Consiglio Linguistico Svedese (Svenska Språknämnden) che, nel gennaio dello stesso 2001, ne ha documentato gli effetti negativi sulla lingua nazionale, chiedendo di proteggerla.

Senza contare che perfino l’Europa orientale si sta ormai decisamente ergendo a difesa delle relative lingue nazionali: nel febbraio del 2002, per esempio, l’Ungheria (dove le insegne in inglese, a Budapest ma anche in altre città, hanno ormai abbondantemente superato il livello di guardia) ha approvato una legge che rende obbligatorio l’uso dell’ungherese nella pubblica amministrazione; e nel marzo dello stesso anno, in Russia, il ministro dell’Educazione Vladimir Filippov annunciava, per il maggio successivo, la discussione di una legge per proteggere il russo dallo storico nemico d’un tempo.
Anche nel nostro Paese non sono certo mancate le iniziative a difesa della lingua nazionale delle quali il CSLI non è che una delle tante manifestazioni, pure la più importante e discussa fra tutte quelle di cui sarebbe possibile parlare. Nel 2000, a un anno di distanza dall’approvazione del disegno di legge a tutela delle minoranze linguistiche. presentato dall’allora sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, e proprio mentre la legge che stabiliva l’indispensabilità della conoscenza della lingua inglese per la partecipazione ai concorsi pubblici diveniva operativa, il Presidente della Camera, Luciano Violante, si faceva promotore del manifesto ideato a difesa dell’italiano dall’associazione “La Bella lingua”, nata dall’adesione di parlamentari di vari orientamenti politici. E Marcello Veneziani, quando era consigliere d’amministrazione RAI, facendo tesoro di un altro manifesto (promosso, stavolta, dall’Accademia degli Incamminati), ha fatto approvare all’unanimità dal Consiglio un invito al Direttore generale a mettere in cantiere uno studio di fattibilità al fine di tradurre in italiano alcune sigle in lingua inglese diffuse dall’azienda televisiva pubblica (Rai corporation, Rai educational, Rai fiction, Rai international, Rai news, Rai trade, Rai way).
Il partito dei paladini dell’italiano mostra insomma di essere stato, da un po’ di anni a questa parte, un partito trasversale. Del resto, parliamoci chiaro, quando si tratti di tutelarlo dall’eccessiva invadenza dell’inglese mi pare si sia un po’ tutti d’accordo. Soprattutto quando si è di fronte a una testimonianza del genere (ricavata dal sito www.italiasociale.org/Culturasi_salvera.htm, di proprietà di Stefano Vernole):
Con 1400 bollini si può avere in regalo un plak control center, mentre ne bastano 550 per un semplice plak control singolo, cioè un normale spazzolino da denti elettrico. Con 550 bollini si può avere un asciugacapelli travel silencio international; con 850 un silk-épil supersoft, cioè un depilatore per signora, e, con soli 250 bollini, un rasoio pocket twist.
Si tratta, come è facile immaginare, di una delle tante offerte promozionali che le varie catene di supermercati propongono alla loro clientela, desiderosa di riempire di bollini d’acquisto le apposite tessere (ormai però, per lo più, in formato card: Carta Insieme, Carta Club, etc.) per poter ottenere alla fine il tanto sospirato regalo. In casi del genere, mi pare, tentare una difesa della lingua nazionale non sarebbe un’idea poi così peregrina.

Non è che muoia dalla voglia di chiedere a Francesco Alberoni il sostegno di una citazione; devo però riconoscere che ha senz’altro colto nel segno quando ha sostenuto tempo fa, sul “Corriere della Sera” (13 dicembre 1999):

Una lingua non è solo un insieme di parole o una grammatica. È un insieme di modi di vivere, di sentire, di pensare, di concepire le relazioni tra le persone, i rapporti giuridici, economici, sociali, i sogni, i progetti di vita, il bene ed il male. I valori. […] Nel mondo della globalizzazione, che schiaccia e annulla ogni differenza, i popoli più ricchi, anche se ricchi di storia e di cultura, rischiano di venire sommersi, cancellati per sempre. La difesa della lingua, il suo uso e la sua continua creazione, sono perciò indispensabili per continuare ad esistere.

Dare ragione ad Alberoni non vuol dire però dare una volta tanto torto a Gramsci. In questi ultimi anni la questione della lingua è tornata ad essere una questione forte, assai più forte di quanto non sia stata negli ultimi decenni. Cosa che proprio a Gramsci sarebbe parsa sospetta. Il fatto che essa riemerga (a maggior ragione, dunque, se in questa riemersione finisce per assumere toni assai accesi) è secondo Gramsci il chiaro indizio della “necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare nazionale”.

Il problema, in questo senso, diviene allora un problema essenzialmente politico. E che si tratti di un problema essenzialmente politico, tanto più in tempi, come quelli attuali, di verticalizzazione dei conflitti, è ormai chiaro anche al mondo accademico; sicché, come fa giustamente notare Anna Rosa Guerriero:

non è forse solo una coincidenza il fatto che, all’interno della Società di Linguistica Italiana, stia prendendo forma un Gruppo di Osservazione, Studio e Intervento per la Politica Linguistica (GISPL) che, preso atto dell’“importanza della cultura linguistica nel contesto sociale” e dell’“esigenza di specifici interventi esperti”, dichiara, fra l’altro, nel suo Programma di Intenti, di volersi occupare di “tutti gli ambiti di incontro, sovrapposizione e contiguità fra pratiche linguistiche e pratiche sociali a forte rilevanza politica […]”2.

3. Le ragioni del legislatore (II): i punti a sfavore.

Fin qui, insomma, tutto abbastanza bene. Ora, però, sorgono le perplessità. Le questioni che mi preme discutere al riguardo investono sostanzialmente la qualità delle scelte compiute relativamente alle persone chiamate a presiedere il CSLI e gli interventi concreti da compiere in difesa della nostra lingua. Prendo spunto, ancora una volta, dalle parole del senatore Pastore. Il quale, in una intervista rilasciata il 28 marzo 2003 al quotidiano “Libero”, ha sostenuto che l’iniziativa del legislatore non è dettata dall’intento dirigistico di imporre un modello da seguire sull’esempio francese (il fallimento della legge Toubon, peraltro3, sarebbe lì a prontamente sconsigliare di intraprendere antistoriche crociate per la difesa della “purezza” della lingua) né si deve intendere guidato dagli stessi intenti “scientifici” che governano gli interventi in materia della Real Academia Española.
Il CSLI, ha affermato il senatore in quell’intervista, dev’essere considerato:

come un luogo privilegiato dove discutere di un valore fondamentale della nostra identità nazionale. La sua prima missione sarà quella di valutare se si possono risolvere problemi legati alla lingua e, nel caso, vedere che tipo di indirizzo dare alle soluzioni proposte.

Le risposte delle associazioni dei linguisti all’iniziale disegno di legge, com’è noto, non si sono fatte attendere e hanno riguardato, innanzitutto proprio la qualità di quell’indirizzo e, naturalmente, delle persone incaricate di fornirlo. Rilevanti, in particolare, gli interventi dell’Accademia della Crusca e dell’Associazione degli Storici della Lingua Italiana (ASLI)4, che hanno alla fine convinto in qualche modo la Commissione affari esteri ad apportare al progetto iniziale, nella seduta del 2 ottobre 2003, alcune modifiche riguardanti la composizione del Consiglio, estesa ad altre figure istituzionali e non istituzionali rispetto a quelle previste in partenza:

a)il Ministro degli affari esteri;
b)il Ministro per gli italiani nel mondo;
c)il Ministro delle comunicazioni;
d)un membro designato dall’Accademia dei Lincei;
e)un membro nominato dalle Università per Stranieri;
f)un membro designato dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.

Il Segretario inoltre, nominato nella prima versione dal Presidente, è ancora presente ma sono scomparse le funzioni di indirizzo che gli venivano attribuite nel precedente testo. E agli al massimo due membri designabili “in rappresentanza dei comitati scientifici nell’ambito dello stesso CSLI”, sono subentrati gli altri membri designabili, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in rappresentanza dei “comitati scientifici, permanenti o costituiti per specifici progetti” – la nomina dei cui componenti spetta nuovamente, tanto per cambiare, al Presidente del Consiglio –, e in rappresentanza “di altre organizzazione culturali italiane e straniere espressione di comunità italofone o di origine italiana”. Si è ggiunto ancora, rispetto al testo primitivo, che le “norme di organizzazione e di funzionamento del Consiglio sono determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito lo stesso CSLI”; un Presidente che, come tutti i suoi ministri impegnati nel consesso, può però essere eventualmente sostituito da un delegato.
Il primo problema nasce proprio da qui, dalla folta rappresentanza del mondo della politica (il Presidente del Consiglio, onnipresente, e ben cinque dei suoi ministri rispetto ai due iniziali) in un Consiglio incaricato di “risolvere problemi legati alla lingua e, nel caso, vedere che tipo di indirizzo dare alle soluzioni proposte”. Perché mai dovrebbe spettare alla magna pompa della politica, invece che ai linguisti di mestiere, di decidere in merito alla lingua italiana? E perché mai i politici, come ha fatto opportunamente notare qualche tempo fa Rosanna Sornicola nelle vesti di Presidente della Società di Linguistica Italiana:

devono ritenere di poter fare irruzione, a loro piacimento, nei territori linguistici, mentre per progetti di costruzione di ponti, strade, scuole, etc. si rivolgerebbero a consulenti del mestiere?5

Che la politica, di destra e di sinistra, dia l’impressione di voler sempre più dire la sua in materia di lingua non è certo un mistero (sotto questo aspetto, anzi, la seconda versione del CSLI, rispetto alla prima, aggrava le cose anziché migliorarle). La stessa Sornicola, nell’intervento appena citato, ha ricordato l’infelice uscita di un noto politico di sinistra che, nella circostanza dell’assegnazione di alcuni premi letterari, ha concluso il suo discorso osservando: “A scuola, meno dialetto e più inglese”; come se il dialetto, pure contaminato o imbastardito quanto si vuole, “fosse un obbrobrio culturale del paese, di cui vergognarsi e far piazza pulita”6.
Il primo punto fondamentale riguarda allora l’opportunità, per non dire l’assoluta esigenza, che la politica faccia un passo indietro in merito alla sua presenza in un eventuale, futuro CSLI, troppo pervasiva per non indurre in sospetto, e, se non vuole proprio delegare interamente la materia a chi la conosce, ridimensioni il suo ruolo a una semplice partecipazione di garanzia.
Il secondo punto fondamentale, da sottoporre a un’attenta valutazione e a un’approfondita discussione (mi viene, inevitabilmente, da parlare in perfetto politichese), riguarda invece proprio la necessità di non sacrificare a una pur giusta azione di tutela dell’italiano contro il dilagare dell’inglese le singole realtà linguistiche locali e anzi, come auspicato dal Centro Internazionale sul Plurilinguismo dell’Università di Udine, di valorizzarle appieno. Perché alimentino di sempre nuova linfa una lingua nazionale che per eccesso di dirigismo, o perché sempre più guardinga e costretta in difesa, non finisca per sclerotizzarsi. E anche perché, come ancora Rosanna Sornicola ci ricorda con assai belle parole, la varietà e la differenza sono una componente fondativa della nostra storia:

Quale che sia l’esito del disegno di legge e l’attuabilità di un Consiglio Superiore della Lingua (o della Lingue?) d’Italia, bisogna far leva sul patrimonio di esperienze, riflessioni e sensibilità sociolinguistiche di questo paese per affrontare i non facili problemi concreti che ci stanno davanti. L’Italia, forse, con la sua storia di variazione e differenze, con la sua mancanza di dirigismo, potrebbe diventare un interessante laboratorio di politiche linguistiche.7

Un’Italia che, pur essendo in diritto (e avendo anzi il dovere) di difendere la lingua nazionale dalle mire egemoniche dell’anglo-americano, non deve dimenticare la lezione di civiltà contenuta nella legge 482, posta a tutela delle minoranze linguistiche di più illustre tradizione nella storia della nostra penisola. Altrimenti anche noi, un giorno o l’altro, potremmo piombare improvvisamente nell’incubo (che è già realtà – incredibile ma vero – nella Corea del Sud) di vedere i nostri figli costretti da genitori imbecilli a operarsi alla lingua per essere messi in condizione di pronunciare meglio i suoni della lingua inglese.

 


NOTE

1.Anche in altri paesi, peraltro (come in Olanda), l’insegnamento universitario si svolge ormai in molti casi in inglese. E in altri ancora, come la Finlandia, l’inglese ha ormai da tempo oltrepassato i confini stessi dell’università.
2.Le associazioni, i movimenti e il linguaggio. In “Italiano e Oltre”, 17 (2003): 304-309: 306.
3.Promulgata nel 1994, e idealmente collegata alla legge Bas-Lauriol che, nel 1975, aveva dichiarato obbligatorio l’uso del francese in alcuni settori (il mondo del lavoro, la comunicazione pubblicitaria, etc.), la legge Toubon aveva imposto a sua volta l’utilizzo del francese nella stesura dei documenti pubblici e dei contratti, nella comunicazione mediatica, nell’ambito dei rapporti tra i commercianti e i loro clienti, etc. Tra le varie iniziative che ne sono discese spicca la costituzione nel giugno del 1996, per decreto, di un’apposita commissione generale di terminologia e di neologia incaricata, tra l’altro, di redigere un giornale sul quale diffondere i termini francesi che si consiglia di sostituire agli equivalenti inglesi e di altre lingue straniere.
4.Proposte di emendamenti al disegno di legge sono state però al tempo elaborate anche da altre importanti associazioni di linguisti come la Società di Linguistica Italiana (SLI), la Società Italiana di Glottologia (SIG), il Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica (GISCEL) e il Centro Internazionale sul Plurilinguismo dell’Università di Udine.
5.“Bollettino della Società di Linguistica Italiana”, 21 (2003, 1): 3.
6.Ibid.
7.“Bollettino della Società di Linguistica Italiana”, 21 (2003, 2): 4.

L’articolo è uscito su Comunitazione.it la prima parte il 3/7/08 e la seconda il 5/7/08