D I S V A S T I G O
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DIS-A236
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3. Le ragioni del legislatore (II): i punti a sfavore.
Fin qui, insomma, tutto abbastanza bene. Ora, però, sorgono le perplessità. Le questioni che mi preme discutere al riguardo investono sostanzialmente la qualità delle scelte compiute relativamente alle persone chiamate a presiedere il CSLI e gli interventi concreti da compiere in difesa della nostra lingua. Prendo spunto, ancora una volta, dalle parole del senatore Pastore. Il quale, in una intervista rilasciata il 28 marzo 2003 al quotidiano “Libero”, ha sostenuto che l’iniziativa del legislatore non è dettata dall’intento dirigistico di imporre un modello da seguire sull’esempio francese (il fallimento della legge Toubon, peraltro3, sarebbe lì a prontamente sconsigliare di intraprendere antistoriche crociate per la difesa della “purezza” della lingua) né si deve intendere guidato dagli stessi intenti “scientifici” che governano gli interventi in materia della Real Academia Española.
Il CSLI, ha affermato il senatore in quell’intervista, dev’essere considerato:
come un luogo privilegiato dove discutere di un valore fondamentale della nostra identità nazionale. La sua prima missione sarà quella di valutare se si possono risolvere problemi legati alla lingua e, nel caso, vedere che tipo di indirizzo dare alle soluzioni proposte.
Le risposte delle associazioni dei linguisti all’iniziale disegno di legge, com’è noto, non si sono fatte attendere e hanno riguardato, innanzitutto proprio la qualità di quell’indirizzo e, naturalmente, delle persone incaricate di fornirlo. Rilevanti, in particolare, gli interventi dell’Accademia della Crusca e dell’Associazione degli Storici della Lingua Italiana (ASLI)4, che hanno alla fine convinto in qualche modo
a)il Ministro degli affari esteri;
b)il Ministro per gli italiani nel mondo;
c)il Ministro delle comunicazioni;
d)un membro designato dall’Accademia dei Lincei;
e)un membro nominato dalle Università per Stranieri;
f)un membro designato dall’Istituto della Enciclopedia Italiana.
Il Segretario inoltre, nominato nella prima versione dal Presidente, è ancora presente ma sono scomparse le funzioni di indirizzo che gli venivano attribuite nel precedente testo. E agli al massimo due membri designabili “in rappresentanza dei comitati scientifici nell’ambito dello stesso CSLI”, sono subentrati gli altri membri designabili, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in rappresentanza dei “comitati scientifici, permanenti o costituiti per specifici progetti” – la nomina dei cui componenti spetta nuovamente, tanto per cambiare, al Presidente del Consiglio –, e in rappresentanza “di altre organizzazione culturali italiane e straniere espressione di comunità italofone o di origine italiana”. Si è ggiunto ancora, rispetto al testo primitivo, che le “norme di organizzazione e di funzionamento del Consiglio sono determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito lo stesso CSLI”; un Presidente che, come tutti i suoi ministri impegnati nel consesso, può però essere eventualmente sostituito da un delegato.
Il primo problema nasce proprio da qui, dalla folta rappresentanza del mondo della politica (il Presidente del Consiglio, onnipresente, e ben cinque dei suoi ministri rispetto ai due iniziali) in un Consiglio incaricato di “risolvere problemi legati alla lingua e, nel caso, vedere che tipo di indirizzo dare alle soluzioni proposte”. Perché mai dovrebbe spettare alla magna pompa della politica, invece che ai linguisti di mestiere, di decidere in merito alla lingua italiana? E perché mai i politici, come ha fatto opportunamente notare qualche tempo fa Rosanna Sornicola nelle vesti di Presidente della Società di Linguistica Italiana:
devono ritenere di poter fare irruzione, a loro piacimento, nei territori linguistici, mentre per progetti di costruzione di ponti, strade, scuole, etc. si rivolgerebbero a consulenti del mestiere?5
Che la politica, di destra e di sinistra, dia l’impressione di voler sempre più dire la sua in materia di lingua non è certo un mistero (sotto questo aspetto, anzi, la seconda versione del CSLI, rispetto alla prima, aggrava le cose anziché migliorarle). La stessa Sornicola, nell’intervento appena citato, ha ricordato l’infelice uscita di un noto politico di sinistra che, nella circostanza dell’assegnazione di alcuni premi letterari, ha concluso il suo discorso osservando: “A scuola, meno dialetto e più inglese”; come se il dialetto, pure contaminato o imbastardito quanto si vuole, “fosse un obbrobrio culturale del paese, di cui vergognarsi e far piazza pulita”6.
Il primo punto fondamentale riguarda allora l’opportunità, per non dire l’assoluta esigenza, che la politica faccia un passo indietro in merito alla sua presenza in un eventuale, futuro CSLI, troppo pervasiva per non indurre in sospetto, e, se non vuole proprio delegare interamente la materia a chi la conosce, ridimensioni il suo ruolo a una semplice partecipazione di garanzia.
Il secondo punto fondamentale, da sottoporre a un’attenta valutazione e a un’approfondita discussione (mi viene, inevitabilmente, da parlare in perfetto politichese), riguarda invece proprio la necessità di non sacrificare a una pur giusta azione di tutela dell’italiano contro il dilagare dell’inglese le singole realtà linguistiche locali e anzi, come auspicato dal Centro Internazionale sul Plurilinguismo dell’Università di Udine, di valorizzarle appieno. Perché alimentino di sempre nuova linfa una lingua nazionale che per eccesso di dirigismo, o perché sempre più guardinga e costretta in difesa, non finisca per sclerotizzarsi. E anche perché, come ancora Rosanna Sornicola ci ricorda con assai belle parole, la varietà e la differenza sono una componente fondativa della nostra storia:
Quale che sia l’esito del disegno di legge e l’attuabilità di un Consiglio Superiore della Lingua (o della Lingue?) d’Italia, bisogna far leva sul patrimonio di esperienze, riflessioni e sensibilità sociolinguistiche di questo paese per affrontare i non facili problemi concreti che ci stanno davanti. L’Italia, forse, con la sua storia di variazione e differenze, con la sua mancanza di dirigismo, potrebbe diventare un interessante laboratorio di politiche linguistiche.7
Un’Italia che, pur essendo in diritto (e avendo anzi il dovere) di difendere la lingua nazionale dalle mire egemoniche dell’anglo-americano, non deve dimenticare la lezione di civiltà contenuta nella legge 482, posta a tutela delle minoranze linguistiche di più illustre tradizione nella storia della nostra penisola. Altrimenti anche noi, un giorno o l’altro, potremmo piombare improvvisamente nell’incubo (che è già realtà – incredibile ma vero – nella Corea del Sud) di vedere i nostri figli costretti da genitori imbecilli a operarsi alla lingua per essere messi in condizione di pronunciare meglio i suoni della lingua inglese.
NOTE
1.Anche in altri paesi, peraltro (come in Olanda), l’insegnamento universitario si svolge ormai in molti casi in inglese. E in altri ancora, come
2.Le associazioni, i movimenti e il linguaggio. In “Italiano e Oltre”, 17 (2003): 304-309: 306.
3.Promulgata nel 1994, e idealmente collegata alla legge Bas-Lauriol che, nel 1975, aveva dichiarato obbligatorio l’uso del francese in alcuni settori (il mondo del lavoro, la comunicazione pubblicitaria, etc.), la legge Toubon aveva imposto a sua volta l’utilizzo del francese nella stesura dei documenti pubblici e dei contratti, nella comunicazione mediatica, nell’ambito dei rapporti tra i commercianti e i loro clienti, etc. Tra le varie iniziative che ne sono discese spicca la costituzione nel giugno del 1996, per decreto, di un’apposita commissione generale di terminologia e di neologia incaricata, tra l’altro, di redigere un giornale sul quale diffondere i termini francesi che si consiglia di sostituire agli equivalenti inglesi e di altre lingue straniere.
4.Proposte di emendamenti al disegno di legge sono state però al tempo elaborate anche da altre importanti associazioni di linguisti come
5.“Bollettino della Società di Linguistica Italiana”, 21 (2003, 1): 3.
6.Ibid.
7.“Bollettino della Società di Linguistica Italiana”, 21 (2003, 2): 4.
L’articolo è uscito su Comunitazione.it la prima parte il 3/7/08 e la seconda il 5/7/08