Prof. Andrea Carteny
 

Il Prof. Andrea Carteny, Docente di Storia delle minoranze etniche (Università degli Studi di Teramo, Facoltà di Scienze della Comunicazione) traccia un panorama del rispetto dei diritti linguistici negli Stati Balcanici.

1) Prof. Carteny, anche alla luce dell'ingresso di diversi Stati balcanici nell'Unione Europea, quali sono - se esistenti - le forme di tutela nei confronti delle minoranze linguistiche?

Una tradizione giuridica per la protezione di componenti minoritarie linguistiche in un contesto statuale in cui maggioritaria è un’altra lingua si è ormai consolidata attraverso i decenni. Soprattutto i diritti rivendicati dalle minoranze nazionali e linguistiche (diritto all’uso e alla protezione della propria lingua e cultura) si considerano ormai generalmente come diritti umani. La violazione sistematica e pianificata di questi diritti è stata spesso definita “genocidio culturale”, ma i giuristi hanno elaborato concetti specifici per questi casi. La definizione di “etnocidio” per esempio, va a identificare proprio quei casi in cui non si rientra nella categoria del “genocidio” (l’eliminazione o la sterilizzazione di un individuo o di un gruppo per la propria appartenenza ad una specificata stirpe, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione dei crimini di genocidio, del 1948) ma c’è la volontà di annichilare l’ethnos nelle proprie caratteristiche culturali fondamentali, come per esempio la lingua, i costumi, la religione. In effetti il riconoscimento esplicito dei diritti delle minoranze si consolida a livello internazionale soprattutto successivamente, prima con la Convenzione culturale del 1954, promossa dal Consiglio d’Europa, quindi con la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali presentata dall’Unesco nel 1966. Il rispetto dei diritti umani e delle minoranze diventa poi parte dei criteri elaborati dal Consiglio europeo di Copenhagen, nel 1993, quali parametri per la richiesta di adesione alle istituzioni comunitariehaglle condizioni di adesione europea e due anni dopo il Consiglio d’Europa elabora un Accordo generale espressamente per la protezione delle minoranze nazionali. Tuttavia le questioni nazionali e delle comunità di minoranza nei Balcani hanno complicato l’applicazione di questi criteri, soprattutto sulle minoranze linguistiche. Nella ex Jugoslavia, per esempio, croati serbi montenegrini e bosniaci parlavano – anche da una punto di vista scientifico – una sola lingua, mentre l’identificazione delle differenti comunità nazionali intorno alle comunità religiose crea poi le premesse per la differenziazione delle differenti varianti (ekavo, jekavo). Un quest’area una base relativamente affidabile di identificazione di serbi croati e bosniaci rimane però la religione.

2) Esiste un pericolo etnocentrico e xenofobo nell'Europa Orientale?

L’origine di gran parte dei conflitti e delle questioni nazionali ancora aperte in Europa orientale e balcanica, per esempio, risale alla conclusione della grande guerra e alla fine degli imperi plurinazionali (asburgico, zarista, ottomano in primis). La fine della guerra e la conferenza di pace di Parigi, nel 1919, ha portato ad una spesso discutibile delimitazione di nuove frontiere – in cui spesso si è ignorato il così popolare diritto wilsoniano all’autodeterminazione dei popoli – e dunque alla costituzione di Stati successori riproducenti spesso i medesimi problemi degli imperi ma all’interno del contesto dello Stato-nazione, in cui la condizione delle minoranze si è a volte configurata come ancor più grave del periodo prebellico. I casi della Polonia, la Romania, la Cecoslovacchia sono emblematici in questo senso: costituiti su una tradizione statuale precedente (Polonia) o ex novo (Cecoslovacchia), oppure ingranditi al punto da raddoppiare e oltre territorio e popolazione (la “Grande Romania”), questi Stati si trovano fin dai primi anni Venti ad impiegare nelle questioni nazionali gran parte delle proprie energie, mettendo in campo provvedimenti capaci di limitare l’azione e l’influenza delle comunità minoritarie (spesso ebrei) per imporre un maggiore avanzamento sociale di nuove elites nazionali. Nonostante ciò, nella maggior parte dei paesi dell’Europa orientale si sviluppano movimenti spesso definiti tout court “fascisti”, ma che hanno invece forti componenti specifiche nazionali, come l’ortodossia per la Guardia di Ferro in Romania, o l’“ungarismo” cristiano per le Croci Frecciate in Ungheria. Le radici di quei fenomeni politici, sociali, culturali sono ancora presenti nelle società attuali: non a caso, come nel periodo interbellico, il primo collante è il diffuso antisemitismo, unito spesso all’antizingarismo. Gli attacchi a famiglie e nuclei zingari da parte di gruppi estremisti definiti spesso “neonazisti” in Ungheria è un fenomeno che nell’ultimo anno ha rivelato dimensioni preoccupanti. Le avvisaglie e gli atti di intolleranza dovrebbero essere affrontati con maggiore determinazione non solo dai governi nazionali, ma anche da Bruxelles. Non è un caso il grande successo che formazioni nazionaliste xenofobe ed etnocentriche hanno raccolto in diversi paesi europei, come l’Ungheria e la Bulgaria.

3) La Slovacchia ha approvato una legge considerata da molti discriminatoria verso la minoranza ungherese del paese: quali sono i possibili sviluppi? E' possibile tracciare paragoni con altri Stati limitrofi

La legge che il 30 giugno scorso il governo slovacco ha approvato e che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo settembre prevede l’obbligo dell’uso della lingua di Stato, lo slovacco, negli ambienti pubblici del paese. Il divieto all’uso di altre lingue colpisce in particolar modo la minoranza ungherese, che arriva quasi a coprire il 10% degli oltre 5 milioni di abitanti. Mezzo milione di persone, dunque, per lo più concentrate in alcune aree piuttosto compatte del sud del paese, anche in situazioni di emergenza (in caso di incendio, nelle comunicazioni con la polizia) dovrà usare correttamente solo lo slovacco, pena una multa che può arrivare fino a 5000 euro. Questa legge, dettata dall’anomala maggioranza che vede unite la sinistra socialdemocratica con i populisti nazionalisti, non ha trovato solo la condanna all’unanimità del Parlamento di Budapest, ma delle istituzioni europee e internazionali. L’OCSE ha immediatamente avviato un’azione di mediazione tra Bratislava e Budapest per cercare di allentare la tensione. La verità è che già negli ultimi anni c’è stato un crescendo nel confronto tra nazionalisti ungheresi e slovacchi, con scontri avvenuti spesso in occasione di partite di calcio. Qui si tende dunque a ignorare non soltanto le richieste di autonomia territoriale, ma anche a quelle di sfera minima di autonomia culturale. Una situazione analoga – dovuta al ritaglio dei confini piuttosto discutibile dei negoziatori delle grandi potenze a Versailles nel 1919 – è presente in Ucraina, in Serbia e in particolar modo in Romania, dove la comunità ungherese costituisce il 6-7% degli oltre 20 milioni di abitanti. La maggioranza di queste comunità abita alcune province vicine al confine ungherese, ma soprattutto l’ultimo lembo dei Carpazi, la nota “terra dei siculi” o “sekleri”. Questi ungheresi, caratterizzati da forte coscienza comunitaria, costituiscono un blocco etnico nel centro geografico del paese, senza continuità con le regione occidentali a presenza magiara. Nonostante anche qui sia discutibile il ritaglio dei confini amministrativi (gli ungheresi di Romania chiedono infatti l’applicazione del modello Alto-Adige / Sud Tyrol) in 2 province sono l’assoluta maggioranza, mentre in tutto il paese dal 1997 – con successivi ampliamenti dell’uso della lingua minoritaria – nelle località con più del 20% di popolazione di altra lingua vige il diritto al suo impiego, anche nei cartelli e nella segnaletica cittadina. Sebbene in Romania il dibattito sul regionalismo sia bloccato dal fatto che praticamente tutto le forze politiche romene – eccetto dunque il partito ungherese – considerano un tabù il tema, quale anticamera della “secessione”, c’è però un ambiente politico in cui le forze ungheresi sono ben presenti e inserite nella vita politica e civile (e fino al 2007 facenti parte della maggioranza e del governo). In Slovacchia, invece, da ormai 3 anni, con l’esclusione del partito ungherese dalla maggioranza è emersa la tendenza ad non considerare necessario il dialogo con gli ungheresi, e dunque all’isolamento di questa parte importante della società slovacca. Il nazionalismo linguistico, in questi paesi, è è sempre latore di ulteriori scontri civili e militari: e purtroppo la storia di questi paesi continua a produrne sempre in eccesso…

Prof. Andrea Carteny - Ricercatore universitario in Storia dell’Europa orientale, Docente di Storia delle minoranze etniche, Facoltà di Scienze della Comunicazione - Università degli Studi di Teramo