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Riproponiamo qui la tavola rotonda/intervista al gruppo folk-progressive milanese "Reverie", tenutasi a Milano il 16 settembre 2006. I Reverie, musicisti non esperantisti, stanno per per pubblicare un loro album interamente in esperanto, con i testi di Andrea Fontana |
Segreti di Pulcinella
MA: Massimo Acciai
AR: Alessandro Rizzo
Arciesperanto
AM: Andrea Montagner
AF: Andrea Fontana
Rêverie
VV: Valerio Vado
AS: Alberto Sozzi
MA: Questo evento è frutto della collaborazione tra Segreti di Pulcinella ed Arciesperanto di cui ci parlerà brevemente Andrea Montagner…
AM: Buonasera a tutti, la collaborazione tra Arciesperanto e Segreti di Pulcinella era già in fieri grazie ad i rapporti di amicizia che legavano già me e Massimo Acciai che hanno fatto il giro del mondo. Penso che tutti conoscano cos'è l'ARCI in generale e questa aggiunta dell'esperanto è stata una felice intuizione di alcuni amici che si sono messi assieme e hanno dato inizio a questa avventura. Questa sera, per quanto riguarda l'Arciesperanto, siamo qui per quella C di ARCI, ossia il Culturale. Quello che succede stasera è un esempio di come i soci dell'ARCI in generale e di Arciesperanto in particolare hanno davvero la possibilità di esprimere tutte le loro potenzialità.
AF: Buonasera.
Io sono esperantista da circa due anni, ed ho incontrato sulla mia strada Alberto Sozzi (per altre collaborazioni, sempre in campo musicale). Alberto è stato una delle mie "vittime" quando ho informato i miei amici della mia scoperta dell'esperanto. Dopo circa un anno Alberto mi ha scritto una e-mail proponendomi una collaborazione con il gruppo nel quale suonava, ossia i Rêverie, dicendomi che questo gruppo si dedicava ad un genere musicale molto particolare (un genere musicale che recuperava tradizioni folkloristiche di tutto il mondo, rielaborate in chiave sperimentale), e mi ha scritto che a suo parere poteva essere interessante tentare un connubio tra questo tipo di musica "contaminata" e l'esperanto. Così ci siamo incontrati.
Questo gruppo è stato fondato da Valerio Vado nel 1996 - poi Valerio parlerà meglio del loro percorso. Sono partiti da un'impronta più "progressive rock" e si sono gradualmente evoluti verso un genere che chiamano "progressive folk". I Rêverie sperimentano con diverse lingue, mettendo in musica molta poesia (ad esempio i sonetti di Shakespeare, musicati e cantati prestando attenzione alla pronuncia dell'inglese shakespeariano). Valerio, che è di origini friulane, ha musicato anche delle bellissime poesie di Pasolini.
Il gruppo ha usato quindi l'italiano, l'inglese e il friulano, aggiungendo di recente anche l'esperanto.
I due pezzi in esperanto realizzati con me sono stati quindi un esperimento; hanno debuttato ad una manifestazione dell'ARCI milanese grazie all'aiuto di Andrea Montagner.
Passo quindi la parola a Valerio che ci parla del suo gruppo.
VV: Si tratta di un progetto che ho avviato nel '96. Ho deciso di mettermi in proprio e fondare un progetto più che un gruppo per avere un controllo totale sulle cose proposte, poiché anche nella musica rock progressiva, nell'ambito di un gruppo è molto difficile riuscire a mettere insieme molte idee diverse, Tuttavia è stato difficile nel corso degli anni trovare un gruppo di collaboratori che non fossero meri esecutori ma con i quali ci fosse una sinergia, uno scambio di idee. Da tre anni abbiamo trovato una formazione più o meno stabile dopo vari cambi, e questa formazione è quella che ci ha permesso di raggiungere risultati più lusinghieri. Dietro suggerimento di Alberto, il nostro polistrumentista, abbiamo sposato la nostra musica, che riunisce vari stili, a dei testi in esperanto, che è appunto un linguaggio che si basa sulla multinazionalità linguistica. La cosa mi è sembrata interessante e visto che l'esperimento ha funzionato in questi due pezzi scritti in un tempo brevissimo, abbiamo deciso di proseguire su questa strada.
AR: Quello che si voleva fare stasera è un po' diverso dalla canonica intervista che proponiamo di solito su Segreti di Pulcinella ai gruppi soprattutto giovanili e indipendenti che affermano un messaggio sociale e culturale molto forte. Quello che volevamo fare stasera, data la valenza molto forte, universalistica, del tema "esperanto", è fare un dialogo, un confronto, un dibattito, un incontro tra punti di vista sul rapporto tra l'esperanto e l'arte, ritornando appunto al rapporto tra esperanto e cultura che l'ARCI, appunto nella sua lettera C porta con se in maniera forte. Quello che proponiamo stasera è quello che proponeva una volta la rivista "Il Politecnico", una rivista degli anni '50-'60; oltre a temi di analisi, creava dei dibattiti su temi culturali e artistici molto interessanti. Propongo quindi come incipit di questo dialogo aperto tra tre realtà che, come diceva prima Andrea Montagner, si sono trovate perfettamente contigue per finalità ed interessi, propongo quindi come incipit la commistione che può esserci tra l'arte, che veicola un messaggio in maniera più incisiva nel sentimento dell'uditore (rispetto invece ad un convegno tradizionale), e l'esperanto che non è un progetto soltanto linguistico ma è un progetto politico. In che modo quindi l'arte può essere un veicolo che incida maggiormente sugli animi delle persone stesse rispetto al messaggio che l'esperanto può inviare, non soltanto per la sua valenza linguistica. L'arte di solito, come diceva Peter Brook, che è un famoso analista della letteratura teatrale, "un buon teatro è come una specie di ristorante che fa delle buone pietanze", cioè lo spettatore, come il cliente del ristorante, esce fuori dal teatro più sollevato, più contento, più forte nel concepire le contraddizioni della realtà stessa, vuol dire che quel ristorante fa delle buone pietanze, così come il teatro fa delle buone cose quando riesce ad incidere fortemente sull'uditore. Può l'arte avere questa valenza forte tramite il colpire alcune sensazioni che maggiormente rimangono nella memoria? Può incidere maggiormente rispetto ad un convegno tradizionale? Insomma, il rapporto tra arte ed esperanto…
AF: Io ho scritto i due testi appunto per i Rêverie.
La cosa che ho trovato molto interessante in questa proposta di collaborazione, è il fatto che che si tratta di un gruppo non-esperantista.
I membri di questo gruppo, che fa un tipo particolare di sperimentazione con la musica, sono - come ho detto più volte scherzando con loro - esperantisti "senza saperlo", perché il loro tipo di sperimentazione tende a mio parere verso un'idea di universalità. Il loro modo di esplorare diversi linguaggi - per esempio il blues, che loro associano alla struttura della musica barocca - era un terreno molto fertile per poter proporre l'esperanto al di fuori del mondo esperantista.
Uno dei limiti, infatti, del mondo esperantista (che possiede una letteratura ottima - è morto qualche giorno fa William Auld, poeta scozzese proposto per ben tre anni al Nobel per la letteratura), è che solo chi è già esperantista può fruire della letteratura e della poesia scritte in esperanto. La musica invece si presenta, per la sua stessa struttura, come una forma d'arte più universale. Infatti la musica, se considerata negli aspetti che le sono più propri e che la distinguono da altri linguaggi (e quindi prescindendo dall'eventuale presenza di testi), è un'arte prettamente formale: quante volte ci capita di amare una canzone il cui testo è scritto in una lingua diversa dalla nostra, senza che noi ne conosciamo il significato (o conoscendolo solo in parte)?
Ho visto, in questi anni, che sono soprattutto gli esperantisti di sinistra ad essere interessati ad un'apertura verso il mondo non-esperantista. Per chi vive l'esperanto da una prospettiva di sinistra, questa lingua è una piccola parte di un grande progetto volto alla realizzazione di un mondo più giusto. Noi ci occupiamo del problema della democrazia e della dignità linguistica; ebbene, tutto questo non si può fare finché rimaniamo rinchiusi nei nostri circoli.
Quale forma d'arte può esser migliore della musica e della canzone, per poter realizzare quest'idea di portare l'esperanto fuori dai nostri circoli, dentro la società?
Uno dei principali pregiudizi imputati all'esperanto è quello di essere una lingua artificiale e fredda. Questo è un po' strano alle orecchie di un esperantista, in quanto la produzione poetica in esperanto è nata quasi subito dopo la nascita della lingua, anzi la prima forma d'arte esplorata dagli esperantisti è stata proprio la poesia...
Il fatto, di per sé, che un gruppo non-esperantista si interessi della possibilità di fare sperimentazione artistica con una lingua come l'esperanto, è già significativo che una certa apertura nel mondo non-esperantista c'è. Bisogna avere il coraggio di sfruttarla maggiormente.
Una delle cose più interessanti di questo progetto è che i Rêverie sono un gruppo non-esperantista che rimarrà non-esperantista; se qualcuno dei suoi membri si avvicinerà di più all'esperanto ne sarò felice, ma la cosa interessante è che il loro pubblico è un pubblico non-esperantista e questo contribuisce, attraverso la concreta realizzazione artistica, a mostrare la vitalità dell'esperanto.
Il tipo di testi e di musica che abbiamo realizzato non ha un contenuto direttamente politico - i Rêverie, nelle altre canzoni che hanno scritto, si sono dedicati ai temi classici della poesia, e hanno quindi prodotto testi abbastanza intimistici - ma il fatto, di per sé, che facciano vivere l'esperanto attraverso la loro musica è significativo.
AM: Volevo aggiungere due cose a quanto detto da Andrea Fontana. La prima è che sento spesso questo termine "artificiale" come qualcosa di assolutamente estraniato dall'arte, quando proprio scomponendo la parola "arti-ficiale" si risale al significato di "fatto ad arte" e questo mi è stato detto non solo da esperantisti ma anche da molte persone incontrate nei vari gazebo fatti finora. La seconda è un po' più forte. Quando ci si chiede oggi come mai siamo invasi dall'inglese, qualcuno dice "sì, in fondo l'inglese noi lo abbiamo cominciato a sentire dalle canzoni dei Beatles". Forse anche un testo in esperanto può essere una delle strade possibili per far apprezzare, chissà, forse cantare sottovoce qualche persona che un giorno sentirà per caso una canzone in esperanto e gli piacerà. Chissà, forse i Rêverie sfonderanno con una canzone in esperanto - noi glielo auguriamo, ma non perché diventino il gruppo esperantista, ce ne sono già tanti, ma perché questo binomio li porti là dove il loro messaggio deve andare.
MA: Passiamo allora la parola ai Rêverie per sentire cosa pensano di tutte queste considerazioni e spunti che sono stati dati finora…
VV: In effetti i nostri testi non riguardano direttamente un punto di vista politico per una precisa scelta; penso che la musica di per sé - e l'arte in generale - possa ampliare la visione del mondo e far capire che la vita è molto di più di quello che si vive: una serie di sensazioni che magari da solo non puoi scoprire e che la musica ti aiuta a percepire. Sto parlando naturalmente di musica artistica e non delle canzoni alla radio. La vera arte è già "sovversiva" di per sé, per cui non serve parlare di cose prettamente sociali perché secondo me molte canzoni dichiaratamente politiche, col senno di poi, a distanza di anni poi perdono il loro significato originario. Chi non ha vissuto certi anni o certe cose non capisce di cosa si sta parlando, mentre ci sono certe arie di Mozart che possono commuoverti molto di più e mostrarti che la vita può essere migliore. La musica è l'arte che più facilmente riesce a smuovere l'animo anche senza bisogno di parole: quello che ci interessa è musicare testi che diano emozioni condivisibili da quanta più gente possibile, indipendentemente dalla lingua o dall'argomento. Ad esempio, un pezzo che stiamo preparando è una rielaborazione di un coro da una tragedia di Euripide. L'originale fa riferimenti mitologici, ma quello che mi interessava è vedere come Euripide sia riuscito ad esprimere un senso di nostalgia che qualsiasi essere umano a più di duemila anni di distanza riesce ancora a comprendere e a commuoversi. Il messaggio di fondo - la libertà perduta - è qualcosa di attualissimo. È utile e bello usare una suggestione del genere. Per quanto riguarda le lingue, tendenzialmente io sono contro l'utilizzo dell'inglese, diffuso in Italia a causa di una diffusa esterofilia. Usare i sonetti di Shakespeare è nato dalla necessità di un testo particolare per un pezzo all'epoca solo strumentale: casualmente abbiamo scoperto che un sonetto di Shakespeare trattava l'argomento che ci interessava, ma purtroppo tutte le traduzioni in italiano non rendevano le sfumature della lingua originale. Per quanto riguarda invece l'esperanto, ha suscitato in me interesse in quanto non non è una cosa imposta dall'alto ma una cosa che nasce dall'impegno a livello mondiale di gente "comune". Per noi può essere anche interessante riuscire a farci capire da quanta più gente possibile, essendo l'esperanto diffuso a livello mondiale indipendentemente dall'inglese. Ho scoperto poi con piacere che l'esperanto non è una lingua fredda ma al contrario è eufonica. Penso perciò che l'esperimento potrà continuare tranquillamente.
AF: Non sapevo di questo progetto con Euripide, e questa è una scoperta che conferma quanto ho detto prima: ossia che un carattere distintivo dei Rêverie è una ricerca dell'universalità. Cosa c'è infatti di più universale dei "tipi umani" della tragedia greca? Tornando quindi al discorso sulla funzione dell'arte, un'altra cosa su cui mi trovo d'accordo con Valerio è che è possibile parlare di temi universali, di caratteri umani universali che sono sempre gli stessi, e tuttavia parlarne in un modo sempre nuovo e rivoluzionario.
Io penso che la caratteristica fondamentale dell'opera arte, ovvero ciò che ci fa dire che una determinata cosa è una vera opera artistica, sia il fatto che ci apre nuove ontologie, ossia che modifica la nostra visione complessiva del mondo. Può spostarla di pochi centimetri, ma tutte le relazioni tra le cose che percepiamo cambiano all'improvviso. E' il caso della "canzone di una vita", del "libro di una vita"...
Perciò l'arte è intrinsecamente rivoluzionaria, perché arricchisce e modifica il nostro punto di vista, realizzando un punto di vista prospettico più alto e dal quale si recuperano tutti i punti di vista precedenti.
Inoltre l'arte, in quanto fatto sociale (anche quando si parla delle emozioni e dei sentimenti più intimi), è comunque politica. Mi vengono in mente alcune canzoni di De André che parlano semplicemente di tipi umani, attraverso i quali però De André comunica un'intera antropologia, e quindi un'intera visione politica...
AS: Fondamentalmente condivido tutto quello che è stato detto. Mi riallaccio a quello che diceva Andrea sulla natura della nostra esperienza esperantista. Dal nostro punto di vista interno la vedo come una sorta di esplorazione, di viaggio alla scoperta di un mondo. E' bello scoprire via via l'ampiezza, la portata di questo mondo esperantista, anche se gli autori sono loro ed io la sto francamente un po' a guardare dall'esterno e devo dire che mi piace. Si è realizzata una collaborazione e non una completa conversione all'esperanto, il che è decisamente molto interessante.
AR: Allora, secondo step del dialogo. Un punto di riflessione molto interessante proveniva dall'intervento di Andrea Fontana sulle nuove ontologie, quindi il rapporto che può esserci tra arte musicale e l'esperanto come lingua ma anche come progettualità di un cambiamento socio-culturale, quindi esperanto che lingua musicale. Ricordiamo la ricerca sociologica molto interessante che Zamenhof ha compiuto per ogni parola della sua lingua, nel totale rispetto delle diverse culture linguistiche e dei diversi popoli che trovano quella facilità di comprensione che è propria dell'esperanto, in quanto parte di noi tutti, contro lingue di natura imperialista che si è imposta per esigenze di mercato. Vorrei chiedere dove si trova questa forza rivoluzionaria, questo impeto, che coinvolge l'ascoltatore su un piano sensazionale e non solo intellettuale avvicinandosi alla forza dirompente dell'arte che parla in esperanto?
AF: La domanda è molto complessa, quindi la risposta più aderente alla domanda deve fare appello anche alla struttura formale dell'esperanto, perché quello che hai detto relativamente alle caratteristiche del significante in esperanto è effettivamente molto vero.
L'esperanto nasce con il proposito di dare uno strumento di comunicazione agli uomini di tutte le nazioni (originariamente era un progetto europeo, ma poi si è diffuso oltre i limiti dell'Europa). L'iniziatore Zamenhof per diversi anni ha elaborato diversi progetti linguistici ritoccati continuamente, provandoli sul campo e traducendo testi fondamentali come la Bibba. La "stella cometa" che lo guidava era quella di creare uno strumento che fosse molto semplice e il più possibile universale. Ha creato pertanto una grammatica non difettiva, ossia senza nessuna eccezione, che esaltasse al massimo le possibilità espressive della lingua.
Ricordiamo che le conoscenze linguistiche di Zamenhof erano straordinarie: conosceva almeno sette lingue, senza contare quelle antiche.
In Italia - questa è una piccola curiosità - Zamenhof è più famoso, nelle università, come filologo che come iniziatore dell'esperanto; infatti alcuni suoi lavori filologici vengono studiati nei corsi di lettere antiche (e considerate che lui era un filologo dilettante! La filologia non era la sua professione, di professione faceva l'oculista!).
Questa sua grande sensibilità linguistica, e la possibilità del confronto tra varie lingue, gli ha fatto cogliere, quando ancora la linguistica era una scienza ai primordi, le caratteristiche essenziali grazie alle quali una lingua è espressiva.
Una piccola riflessione per i non esperantisti: pensiamo ad esempio alle coniugazioni dei verbi: in italiano ce ne sono tre, in latino ce ne sono quattro, ma questa pluralità non aggiunge un millimetro di espressività a queste lingue. Questo ci dà un esempio di cosa può significare fare una ricerca volta alla semplificazione della grammatica...
Allo stesso tempo però l'esperanto ha una grammatica espressiva, e qui c'è una differenza, ad esempio, con l'inglese. Spesso si pensa che l'inglese abbia una grammatica semplice. In realtà l'inglese non ha una grammatica semplice, bensì una grammatica povera, che è un'altra cosa; e tutte le mancanze di espressività dal punto di vista grammaticale, vengono recuperate attraverso un vocabolario amplissimo, che è una delle principali difficoltà dell'uso della lingua inglese (anche se la difficoltà più importante di questa lingua è il numero impressionante di idiomatismi: uno può conoscere tutto l'Oxford Dictionary, e nonostante ciò non capire un tubo trovandosi di fronte ad espressioni idiomatiche).
La prima caratteristica dell'esperanto è quindi quella della semplificazione grammaticale. Zamenhof ha pensato ad una lingua che potesse essere acquisita anche da chi aveva scarse conoscenze linguistiche, quindi l'esperanto è democratico anche da questo punto di vista, ossia da quello della divisione tra classi.
Pensate infatti a cosa vuol dire, oggi, da un punto di vista socio-politico, il possesso della lingua inglese: l'inglese non introduce disuguaglianze soltanto tra nazioni, ma anche all'interno delle singole nazioni... Tra l'altro, vista la sua complessità (almeno per noi che parliamo lingue neolatine), soltanto i figli delle classi economicamente più avvantaggiate possono permettersi i lunghi viaggi di studio all'estero necessari per impadronirsi di questa lingua. Oggi un italiano che conosce molto bene l'inglese si ritrova, in qualunque situazione lavorativa, in una posizione di vantaggio assoluto rispetto ai suoi colleghi, e questo non perché è più bravo o perché ha studiato di più, ma semplicemente perché l'inglese è una lingua molto difficile, e di conseguenza non tutti riescono a impararla bene.
L'esperanto è una linga pianificata, creata per essere appresa da tutti (di qualunque classe sociale), e che nel significante - come diceva Alessandro - contiene già tutto un mondo ideale e politico. Zamenhof infatti, anche per un'esigenza di semplificazione oltre che di democrazia linguistica, ha scelto le radici di questa lingua tra quelle comuni al maggior numero possibile di lingue... Certo, le lingue da lui prese in considerazione a tale scopo erano europee (chiaramente non era possibile fare una cosa del genere su scala mondiale...); tuttavia la semplicità della grammatica rese la lingua molto accessibile anche a non-europei.
Ultimo punto relativo alla domanda di Alessandro sul significante: una cosa notevole dell'esperanto è che ha un tipo di grammatica e una struttura agglutinante che permettono una completa libertà di creare nuove parole. Qui riusulta evidente anche l'aspetto della creatività dell'esperanto, che è una lingua rigorosa e logica, ma che allo stesso tempo consente una grandissima libertà espressiva. Quando l'esperanto viene appreso fin dalla nascita, infatti, il suo uso da parte del bambino non sollecita quasi mai il maledetto rimporvero dei genitori: "non si dice così!". Questa è una differenza notevole con le lingue naturali. Per chi usa l'esperanto, questa libertà espressiva si traduce in una costante consapevolezza che questa lingua non è imposta. Gli esperantisti, che non sono quasi mai dei madrelingua, la sentono perciò fin da subito come lingua propria. Questo mostra come l'esperanto sia una lingua che nasce dal basso.
VV: Ho una curiosità da sottoporre agli esperti: volevo sapere se nell'esperanto, come avviene con altre lingue, ci sono dei nessi tra la lingua ed alcune strutture di pensiero…
AF: L'esperanto è nato come una lingua utilizzata internazionalmente; come altri progetti simili (vedi il Volapük) è passato dalla carta a diventare lingua vera perché ha avuto una comunità di parlanti. Zamenhof si è autodefinito "iniziatore" della lingua, non "autore". Tutti gli esperantisti hanno stabilito quali testi fissare come canone di riferimento, dopodiché la comunità ha sviluppato la lingua, attraverso il suo concreto uso a livello internazionale. Negli anni, poi, con l'evoluzione della lingua è nata una cultura - o forse più culture - che potremmo definire "transnazionale". "Trans" indica il superamento di qualcosa, passandoci però attraverso. Questa cultura si colloca in un punto prospettico più elevato rispetto ai vari punti di vista nazionali, senza però negarli. Per dirla in un altro modo, il rapporto che c'è tra la cultura dell'esperantista colto (che ha letto molto della letteratura esperantista) e la sua cultura nazionale, potrebbe essere lo stesso che un non-esperantista può rilevare tra la sua cultura nazionale e quella locale, dialettale; tant'è vero che gli esperanti non soltanto difendono le lingue nazionali (attraverso l'uso internazionale dell'esperanto, che impedisce che una lingua nazionale schiacci tutte le altre), ma hanno anche una particolare sensibilità per la salvaguardia dei dialetti. Avere queste tre identità (locale, nazionale e transnazionale) è una cosa piuttosto insolita al di fuori del mondo esperantista. Grazie a questa sensibilità verso le altre lingue e culture (legata al fatto che l'uso dell'esperanto non ne schiaccia nessuna), nell'esperienza personale dell'esperantista non c'è conflitto tra queste tre identità (transnazionale, nazionale e locale), né tra lingue e culture diverse. I primi esperantisti erano uomini che volevano conoscere altre culture con un mezzo non violento, con un mezzo neutrale. A questo atteggiamento si deve ad esempio la conoscenza, da parte degli esperantisti, dei poemi epici scandinavi, che vengono da loro letti nelle traduzioni in esperanto (mentre la maggior parte delle persone ne ignora la stessa esistenza). Ad esempio io in questi giorni sto leggendo in esperanto un classico della letteratura cinese, di cui non so nemmeno se esiste la traduzione in italiano.
Questa cultura transnazionale è veicolata quindi sia dalle traduzioni in esperanto, condivise dalla comunità esperantista, sia dalle opere originali in esperanto.
AM: Questa ultima tematica è abbastanza solleticante per me che ho avuto l'ardire di recuperare dei testi quasi irrecuperabili che hanno suscitato molto dibattito: parlo dei testi di Gramsci sull'esperanto, in cui criticò aspramente la lingua artificiale proprio in nome e contro quella che a suo tempo era l'introduzione dell'italiano. Io non mi sento lombardo; non mi sentivo veneto neanche quando vivevo in Veneto. Ho sentito recentemente un'attrice a Venezia dire "la mia vera lingua è il toscano, non è l'italiano", ed io ho avuto una maestra toscana, in Veneto, e se mi sento italiano l'ho dovuto molto alla scuola e non alla maestra toscana. Credo che l'esperanto, quando cominci a parlarlo, ti apra una serie di problematiche che non sono solo linguistiche ma anche esistenziali che ti porti o verso l'esasperazione del locale, per cui salti addirittura il nazionale (ci sono ad esempio esperantisti leghisti), oppure verso l'essere cittadino del mondo. Non a caso ci sono esperantisti che si sono avvicinati all'esperanto in quanto appartenenti al Movimento di Cittadini del Mondo e qui introduciamo poi la tematica forte dell'Arciesperanto, ossia il cosmopolitismo.
AF: Credo che in realtà non siamo in disaccordo. La caratteristica fondamentale dell'esperantismo vissuto come qualcosa di esistenzialmente forte è la consapevolezza di essere membri della famiglia umana. Grazie a tale consapevolezza si può comprendere come le culture più lontane non siano qualcosa di contrapposto a quello che ci è più vicino e proprio.
Io per esempio ho sempre avuto una certa vergogna (ed oggi mi vergogno di questa vergogna) della dimensione locale del dialetto; lo comprendo, ma non l'ho mai imparato, e so che non lo trasmetterò ai miei figli. Da quando sono esperantista, questa mia ignoranza del dialetto mi dà la consapevolezza di una perdita.
Perché, prima, la dimensione locale mi imbarazzava? Perché la concepivo come contrapposta a quella del mio vicino, e da persona di sinistra mi sembrava che ciò introducesse una barriera tra gli uomini. Invece, da quando ad esempio mi sono incuriosito - grazie all'esperanto - della letteratura cinese, mi capita anche di scoprire cose come, ad esempio, la bellezza della poesia in dialetto lombardo...
AM: Infatti non c'è nessuna contrapposizione su quello che diciamo. Io mi sono chiesto per esempio quando è venuto a parlarci José Antonio Vergara della scomparsa delle culture locali in Cile è chiaro che dobbiamo imparare a scindere l'aspetto culturale dall'aspetto che può essere strumentalizzato da qualche movimento politico. La C di Arciesperanto viene ancora di più esaltata stasera da questa riflessione.
AF: Tu non credi che l'esperanto possa essere uno strumento per evitare che le differenze regionali, culturali e linguistiche evolvano verso uno scontro?
AM: Diciamo che non me lo sono mai posto come problema. Se una cultura locale evolve contro non penso che dipenda dalla cultura locale e neanche dall'esperanto. L'esperanto è comunque una lingua di pace.
AR: Interessante la valanga di dati che si sono scambiati i due Andrea, F e M; volevo sapere se voi Rêverie siete interessati ad intervenire su questo aspetto, ossia esperantisti come cittadini del mondo e dimensione "glocale" direi…
VV: Anche secondo me non c'è questa discrepanza tra dimensione locale e nazionale. Per quanto mi riguarda mi sono trovato a mio agio sia nell'utilizzo dell'esperanto che del friulano: trovo che ci sia altrettanta dignità e forza. Inoltre mi interessa sia farmi capire da quanta più gente possibile utilizzando l'esperanto, sia rivitalizzare un dialetto - quello friulano - che ormai parlano in pochi, tant'è vero che già nel Friuli l'assessorato alla cultura mette cartelli con scritto "Parlate friulano" perché comunque è interessante anche tener conto delle proprie radici perché, come diceva non ricordo chi, quando muore una lingua muoiono anche certe cose, dato che il modo in cui le chiami in quella lingua scompare per sempre. Mi viene in mente che diversi anni fa, quando con altri gruppi suonavamo all'estero, ci dicevano di cantare pure in italiano perché tanto si capiva che non eravamo inglesi e comunque l'italiano suonava benissimo lo stesso. Ho capito così che l'inglese non è così importante come supponevo da ragazzino; è una cosa che non sento mia anche se lo uso per lavoro. Ho capito poi che l'italiano, lingua più eufonica ad esempio del tedesco e anche dell'inglese - che è falsamente eufonica - è più facilmente "rivestibile" di musica. Una frase che mi ha colpito di De Gregori è: "Noi italiani abbiamo il difetto di scadere nel melodico a tutti i costi". Allora io mi chiedo: se abbiamo un'indole melodica perché dobbiamo farci violenza e far finta di non averla? Sfruttiamo questa cosa, tanto più che ci viene naturale. Il bello della musica in esperanto è che per quanto internazionale, si comprende la provenienza dei vari musicisti perché ognuno tira in ballo il patrimonio melodico del paese d'origine, senza però farlo sentire una cosa ridicola come l'italiano che si sente dire "Si capisce che non sei inglese".
AR: Vorrei sapere cosa pensa Alberto di questa ultima discussione…
AS: Francamente non saprei cosa aggiungere. Condivido il discorso che ha fatto adesso Valerio, è sicuramente interessante perché porta sul piano musicale quello che era stato detto prima sul piano prettamente linguistico.
AF: La collaborazione è stata soprattutto tra me, Valerio e Fanny (che è la cantante, e che purtroppo stasera non è potuta essere dei nostri). Tu però mi avevi scritto una lettera che per me era stata molto stimolante, spiegandomi a grandi linee il tipo di musica che facevate e dicendomi "pur non conoscendo questa lingua, ho come l'impressione che potrebbe sposarsi molto bene con lo spirito della musica che facciamo noi". Adesso che sono passati questi mesi, che avete fatto le prove insieme, che hai visto dall'esterno la cosa procedere, com'è il rapporto con le aspettative che ti eri fatto? Quali conferme e quali sorprese?
AS: Sicuramente l'impressione iniziale basata su poche nozioni apprese da qualche chiacchierata e volantino era basata su una grande convergenza di intenzioni tra il nostro progetto musicale e l'esperanto. Il nostro intendo è infatti di trovare convergenze tra diverse culture musicali, esplorare nuove possibili combinazioni di sonorità al di fuori dei canoni. L'esperanto, per quanto lingua elaborata a tavolino, è comunque il frutto di tante lingue ed esperienze linguistiche già esistenti. In un primo bilancio di questi mesi di collaborazione, secondo me sono molto positivi innanzitutto perché ho potuto constatare la grande efficacia musicale dell'esperanto. Di fatto è stata una scommessa, perché in pochi giorni è difficile farsi un'idea precisa della valenza musicale di una lingua. Posso dire che è una lingua molto musicale ed espressiva, forse più di altre lingue che hanno una maggiore tradizione musicale. I risultati sono interessanti e piacevoli, vivendoli anche da ascoltatore mentre preparavo questi filmati. È una strada da portare avanti con convinzione.
AR: Ho visto con grande piacere che c'è stato da parte vostra il recepimento di questa sfida che abbiamo lanciato come Segreti di Pulcinella, che è stata un po' l'organizzatrice di questa serata. Ho visto che questa modalità del dibattito, che penso affronteremo, come metodologia redazionale, con altre realtà artistiche indipendenti come voci libere, voci contro questo pensiero unico e omologante.
MA: Concludendo questa tavola rotonda, vorrei ringraziare innanzitutto i Rêverie per la loro disponibilità ed i loro interventi assolutamente interessanti. Vorrei anche ringraziare anche Arciesperanto, il presidente Andrea Montagner e Andrea Fontana per averci ospitato qui nel loro gazebo e averci dato la possibilità di realizzare questo evento e per i loro interventi anch'essi molto interessanti, ed infine ringrazio Alessandro Rizzo, il nostro valido vicedirettore, per il modo in cui ha dato i suoi imput, i suoi spunti a questa discussione. Grazie a tutti.
[applauso]
AM: Volevo anch'io ringraziare voi tutti, perché un'associazione credo non esiste di per se sulla carta, come una lingua non esiste sulla carta, ma sono le persone che le danno vita e la possibilità di intraprendere un cammino che non sappiamo ancora dove ci porterà. Grazie.
AF: Vorrei fare una chiosa che si collega a quella di Alessandro. José Antonio Vergara, che è un esponente importante del mondo esperantista di sinistra, in una conferenza che ha fatto con l'Arciesperanto ci ha detto che due persone che parlano l'esperanto in una stanza sono "un atto di resistenza contro la mcdonaldizzazione"...
AM: Estis la resisto al la "makdonaldigxo", li diris…
AF: Grazie.
Sulla web-tv italiana Arcoiris potete vedere due videoclip con due canzoni in esperanto scritte da Andrea Fontana (testi) e Valerio Vado (musiche e arrangiamenti). Si tratta della prima esecuzione pubblica di queste due canzoni, eseguita dal gruppo musicale di Valerio (i "reverie"), nel corso di una manifestazione musicale organizzata dall'ARCI provinciale di Milano, con la collaborazione di ARCI Esperanto. Potete guardare (cliccando col pulsante sinistro del mouse) e/o scaricare (cliccando col pulsante destro, e salvando il file nel vostro computer) i due videoclip all'indirizzo web sopramenzionato, secondo le seguenti possibili opzioni:
- bassa definizione (56k - real player e windows media player)
- alta definizione (adsl - real player e windows media player)
- altissima definizione (mpg)
- file audio (mp3)
I due videoclip sono sottotitolati, sia in italiano, sia in esperanto