Aspetti di prognosi linguistica nell'Unione Europea a venticinque membri
di Federico Gobbo
- Introduzione
L'allargamento progressivo dell'Unione Europea dalla sua fondazione ad oggi ha portato le istituzioni comunitarie a confronto con un multilinguismo ampio e difficile, come mai era accaduto prima nella storia delle istituzioni a rilevanza internazionale o sovranazionale. In questo intervento intendo mostrare come la parità linguistica sancita dalla sua fondazione è una realtà solo de jure, sia da una prospettiva istituzionale, che dalla prospettiva dei cittadini. Verranno illustrati alcuni dati ufficiali sull'uso delle varie lingue nell'Unione. La consapevolezza di questa discrasia tra il diritto e la prassi quotidiana nelle istituzioni ha portato diversi linguisti a interrogarsi sui possibili interventi per ripristinare una situazione più equa, su entrambi i fronti, quello istituzionale e quello dei cittadini. In seguito presenterò le posizioni principali degli specialisti riguardo la situazione linguistica europea, raggruppate secondo tre prototipi: la "posizione globalista", che sancisce il predominio dell'inglese; il "plurilinguismo articolato", che propone il francese e il tedesco come argini dell'inglese, e il "bilinguismo ecologico", che nella versione che presenterò intende applicare il paradigma dell'ecologia linguistica adottando l'esperanto come lingua federale europea.
2. L'Unione Europea a 25 membri: una situazione linguistica sostenibile?
Il 1 maggio 2004 è una data importante nella storia dell'Unione Europea: il numero dei Paesi membri è stato innalzato a venticinque, e le lingue ufficiali sono diventate venti. Si tratta di un allargamento altamente significativo: prima di tale data i paesi membri erano quindici e le lingue ufficiali undici. E il processo non si fermerà certo qui: sono ufficialmente Paesi candidati la Bulgaria, la Croazia, la Romania e la Turchia, e non ufficialmente si possono annoverare anche la Jugoslavia (o, se si preferisce, la Serbia), la Bosnia-Erzegovina e qualcuno propone anche Israele. Ognuno di questi Paesi ha come lingua nazionale una lingua non ancora presente nel novero delle lingue ufficiali, e nel caso entrassero a far parte della casa comune europea il numero verrebbe innalzato a ventisette. Come si è giunti a questa situazione?
La data di nascita dell'Unione Europea viene fatta risalire al 9 maggio 1950, quando il ministro degli Affari esteri francesi Robert Schuman lanciò la proposta. Si era in un'Europa ben memore del secondo conflitto mondiale, che non voleva più essere dilaniata da guerre intestine: il pensiero primario dei fondatori era di creare un'istituzione che garantisse la pace nel continente durevolmente. Non c'era un'attenzione particolare alla questione della lingua, anche nella visione politica che intendeva l'Unione in prospettiva non come un accordo tra Paesi membri ma più incisivamente come Stati Uniti d'Europa. E in effetti, a ben guardare, l'incisività delle istituzioni europee agli albori aveva uno scarso impatto sulla vita quotidiana dei cittadini, perlomeno rispetto alla loro vita linguistica. Quando nel 1951 fu fondata la prima delle istituzioni europee, la CECA, i Paesi membri erano sei (Belgio, Germania occidentale, Lussemburgo, Francia, Italia, Paesi Bassi) e le lingue di lavoro quattro (francese, italiano, nederlandese, tedesco): una situazione simile a quella della Svizzera, certamente sostenibile da un punto di vista istituzionale. Basti pensare che sette anni più tardi, vale a dire nel 1958, quando entra in vigore l'importante Trattato di Roma e viene istituita la CEE, i funzionari interpreti erano quindici [1].
Da un punto di vista della politica linguistica, fin dalla sua fondazione dunque l'Unione Europea ha seguito un criterio eminentemente pratico: far funzionare le sue istituzioni. Che questo potesse o dovesse avere un'influenza sull'apprendimento linguistico dei cittadini dei Paesi membri, non è stato preso minimamente in considerazione. Ne è conferma lo statuto particolare del lussemburghese: la lingua del Lussemburgo non divenne lingua ufficiale alla fondazione delle istituzioni europee, nonostante sia la lingua prima della maggior parte dei suoi abitanti (1) , e non ha mai avuto troppe velleità di inserimento come lingua ufficiale. In altri termini, il lussemburghese è lingua nazionale e quindi lingua prima (L1) di un Paese fondatore, che decide di non avvalersi istituzionalmente di tale lingua. Un'altra anomalia si verificherà per l'irlandese nel 1973, quando l'Irlanda entra a far parte dell'allora Comunità Europea ma l'irlandese non entra come lingua ufficiale a pieno titolo, acquisendo uno status peculiare. In quell'anno le lingue ufficiali diventano sei (vengono aggiunte danese e inglese). Mi sembra evidente che fino a tempi recenti ci sia stata una politica di contaìnment, contenimento del moltiplicarsi delle lingue ufficiali per motivi eminentemente pratici e squisitamente istituzionali. Nessuna ricaduta sulla politica linguistica dei Paesi membri emerge dalle istituzioni europee, e questo è evidente dal fatto che non esiste alcun tipo di concertazione nelle politiche linguistiche delle scuole dell'obbligo. Eppure, anche considerando solo la situazione linguistica delle istituzioni dell'Unione, esiste una discrasia tra la situazione de jure e quella de facto nell'uso delle lingue ufficiali, che ora vengo a mostrare.
L'articolo 21 (ex articolo 8 D) del Trattato CE sancisce che: "ogni cittadino dell'Unione può scrivere alle istituzioni o agli organi comunitari in una delle lingue ufficiali e ricevere una risposta nella stessa lingua". La legislazione dell'Unione, inoltre, deve essere tradotta in tutte le lingue ufficiali. Questo è quanto viene sancito dai princìpi. Ma nell'Unione Europea di oggi a venticinque membri qual è la situazione? In prima istanza, notiamo che le 'lingue di lavoro', locuzione per indicare le lingue ufficiali effettivamente usate istituzionalmente, in
(1) Può stupire, ma il lussemburghese non era lingua ufficiale in Lussemburgo allora: divenne lingua ufficiale solo nel 1984.
casi specifici come le discussioni interne devono essere scelte nel novero delle lingue ufficiali. In altri termini, significa che è possibile di diritto ed è prassi che istituzionalmente si faccia uso in moltissimi contesti europei di alcune lingue ufficiali a discapito di altre. Ancora più evidente è la situazione nel caso delle agenzie comunitarie: fatta salva l'eccezione per il Centro di Traduzione degli Organismi dell'Unione Europea, le altre agenzie non usano in nessun caso tutte le lingue ufficiali come lingue di lavoro, ma prediligono in primis l'inglese, e in seguito francese e tedesco [2].
Ma il caso più eclatante è il regime di interpretazione e traduzione. Per quanto riguarda l'interpretazione, la norma emergente d'uso viene detta 'interpretazione asimmetrica': tutti i delegati parlano la propria madrelingua, ma ascoltano
l'interpretazione soltanto in alcune lingue. Si intende cioè limitare il numero delle 'lingue attive' (locuzione che indica una lingua parlata dagli interpreti e ascoltata dai delegati), poiché gli interpreti sono una "risorsa scarsa", come recita il testo [3]. Nel caso il numero delle lingue attive sia ridotto a uno, si parla di 'situazione di pivot', situazione che viene ammessa come misura di necessità, anche se sconsigliata [4]. Addentrandoci nei meandri dell'euroburocratese, impariamo poi cos'è il 'principio del relais': il delegato parla in una lingua A che l'interprete non conosce, quindi questi si collega all'audio della cabina di un collega che sta traducendo in un'altra lingua B da lui padroneggiata e traduce da quella lingua [5]. Mi sembra evidente che de facto i delegati eletti dai cittadini non sono tutti in posizione di parità perché chi necessita il ricorso a un relais non può che perdere forza argomentativa, tenuto conto della perdita informativa insita in ogni atto di trasposizione da una lingua ad un altra. Per quanto riguarda la traduzione, i dati ufficiali sulla produzione documentale delle istituzioni sono alquanto evidenti (vedi grafico nella pagina seguente).
Si noti, per cominciare, che i dati si riferiscono al 2003, dunque prima dell'allargamento a venticinque membri: nulla fa pensare, comunque, che la situazione cambi radicalmente nel corso del 2004, se non in peggio. I documenti vengono scritti come bozze (draft) per la grandissima parte in inglese e francese come lingue fonte (source languages). Non solo: la maggior parte dei documenti viene tradotta in tedesco, francese e inglese (!) prima che nelle altre lingue (target languages). Infine: la tendenza sul lungo periodo (dal 1992 al 2003) mostra un aumento della mole di pagine da tradurre (quasi un milione e mezzo!) e un netto declino delle bozze scritte in francese e tedesco a vantaggio dell'inglese. I valori relativi alle altre lingue, compreso il nostro italiano, sono alquanto sconfortanti.
A questo punto possiamo concludere che nell'Unione Europea l'inglese è la lingua ufficiale più usata e sempre più rilevante, francese e tedesco mantengono una loro importanza, le altre sembrano essere completamente fuori gioco. Notiamo a latere, di passaggio, che questa situazione riflette gli equilibri politici dei Paesi membri in seno all'Unione Europea: il Regno Unito, patria dell'inglese, da un lato (con un occhio oltreoceano), la Francia e la Germania, patrie rispettivamente di francese e tedesco, dall'altro (tanto che alcuni politologi parlano di 'Framania' a proposito dell'Unione Europea), sono sovente i Paesi membri con il peso politico maggiore nell'Europa del nostro tempo.
3. Una proposta per il plurilinguismo articolato
Una delle posizioni dei linguisti davanti all'avanzata dell'inglese in Europa si basa proprio sul prestigio e vigore che ancora detengono francese e tedesco: posto che il plurilinguismo è un valore in sé, si propone un "plurilinguismo articolato" inglese-francese-tedesco come soluzione per le istituzioni dell'Unione Europea ma anche come politica linguistica diffusa, vale a dire con implicazioni per tutti i cittadini. La versione più recente e dettagliata del plurilinguismo articolato è il do
cumento detto Raccomandazioni Mannheim-Firenze [6]. Si tratta di un documento redatto dalla neonata Federazione Europea delle Istituzioni Linguistiche Nazionali, istituzione che dal 2003 riunisce in unico organismo la nostra Accademia della Crusca e le sue controparti spagnola, francese, inglese, tedesca e altre. Innanzitutto, bisogna ammettere che c'è molto buon senso linguistico in questo documento - e ci mancherebbe altro, visti gli autori. Per esempio, viene enunciato con chiarezza il diritto-dovere a padroneggiare la lingua standard per tutti, nativi o immigrati, bambini o adulti.
Scopo dell'insegnamento della lingua prima (lingua materna) è l'acquisizione di una
competenza orale e scritta che permetta una piena partecipazione alla vita sociale (art. 2) [...]
Gli immigrati devono essere aiutati ad apprendere la lingua del Paese nel quale vivono. A tal
fine, bambini ed adulti devono ricevere un insegnamento adeguato (art. 5).
C'è un importante e non scontato richiamo a non perdere le radici linguistiche dell'Europa: il latino e il greco antico.
Lo studio delle lingue classiche e delle corrispondenti civiltà deve essere incoraggiato,
particolarmente in considerazione del loro contributo alle lingue e al patrimonio culturale
dell'Europa moderna (art. 4).
Lascia un po' perplessi invece la formulazione del 'principio di prossimità' per la seconda lingua straniera (L2) da imparare - la prima è ovviamente l'inglese, come ammette Sabatini altrove, citando una bella espressione del nostro poeta Andrea Zanzotto, inglese come lingua 'panterrestre':
Anche l'insegnamento delle lingue straniere contribuisce a conservare la diversità linguistica
europea. Questo insegnamento deve aver inizio al più tardi nella scuola elementare e deve
adottare criteri di qualità intereuropei. Lo scopo da raggiungere è quello di permettere agli
allievi di comunicare con efficacia, oralmente e per iscritto, in almeno due lingue straniere
europee. Nel ventaglio delle lingue che vanno insegnate potrebbero essere scelte con priorità le
lingue dei Paesi con i quali vi sono maggiori contatti (art. 3, corsivi miei).
In altri termini: in un mondo globalizzato, quali sono le lingue europee di cultura con le quali le varie realtà hanno maggiori contatti? Possiamo arguire siano tedesco e francese. Pur se proposti un po' di soppiatto, seguendo la ratio del documento mi sembra che francese e tedesco possano giocare concretamente un ruolo. La situazione che andrebbe a profilarsi sarebbe la seguente: in primis, la prima lingua seconda (L2) studiata viene a essere l'inglese in tutta l'Unione Europea (salvo dove è L1), e quindi di fatto sancita come lingua di lavoro unica nelle istituzioni comunitarie, e inoltre, a seconda dei singoli Paesi membri, ci sarebbe una seconda lingua straniera (L2) scelta da ogni Paese
membro, presumibilmente il francese o il tedesco.
Quanto è fattibile tale, autorevole, proposta? Intanto, lasciare libertà di scelta alle singole aree rende il tutto assai complicato: si prefigura un'Europa dell'Est che predilige il tedesco, una dell'Ovest che predilige il francese, avendo tutti come lingua comune l'inglese. Che senso ha? E perché il documento non parla della salvaguardia delle lingue minori a interesse regionale, come il catalano e il sardo? A prescindere da queste mancanze, come detto poc'anzi l'attenzione si focalizza sull'educazione linguistica nella scuola dell'obbligo:
è ...necessario che in ciascun paese la o le lingue standard siano insegnate a tutti i livelli
dell'istruzione come materie principali (art. 2). Vanno potenziati gli scambi scolastici sia degli
alunni che degli insegnanti, e vanno semplificate le relative procedure burocratichc (art. 7). Le
ricerche concernenti l'insegnamento della lingua primaria e delle lingue straniere devono trarre
maggior vantaggio dalle possibilità offerte dalla cooperazione europea.
La presupposizione implicita è che i giovani europei padroneggino due lingue straniere (L2) a testa mediante l'istruzione scolastica. Su questo punto i dati Eurostat più recenti che abbiamo a disposizione risalgono all'anno 2001, ma come vedremo comprendono anche alcuni dei nuovi Paesi membri. Il metro di misurazione della competenza linguistica si basa sull' International Standard Classification of Education (ISCED), una classificazione certificata dall'Unesco che misura uniformemente i livelli di istruzione nelle scuole del mondo. Il livello 2 corrisponde al momento della conclusione del periodo delle scuole medie inferiori italiane, il livello 3 corrisponde alla fine del periodo delle scuole medie superiori. I dati che seguono nella pagina seguente, si riferiscono al livello 3.
La prima colonna indica i Paesi in esame, mentre la seconda indica il numero di lingue straniere conosciute dagli scolari giunti al livello 3 ISCED. In
altri termini, risponde alla domanda: quante lingue si imparano? Le tre colonne di destra rispondono invece alla domanda: qual è la prima lingua seconda (L2) scelta dalle politiche formative di ciascun Paese membro? Le risposte prese in considerazioni sono: inglese (ENG), francese (FRN) e tedesco (GER) (2). I valori in queste tre colonne sono dati in percentuale. 'NP' indica 'non pervenuto', e 'L1' indica che la popolazione del Paese in considerazione padroneggia in maggioranza la lingua in esame come lingua materna (L1).
L'analisi dei dati è piuttosto semplice: sono solo due i Paesi in cui la maggior parte degli scolari europei al termine delle scuole superiori conosce in media due o più lingue seconde (Lussemburgo ed Estonia), e nella stragrande maggioranza la prima lingua straniera (L2) scelta è l'inglese: sono solo due i Paesi membri in cui questi valori scendono sotto l' 80%: Lituania e Ungheria. Anche nei Paesi dell'Est europeo, e può stupire, l'apprendimento dell'inglese supera comunque abbondantemente quello del tedesco. Anche il francese è
molto distante dai valori dell'inglese. Si noti che ho detto 'conoscere', non 'padroneggiare' una lingua seconda (L2): queste statistiche considerano solo ed esclusivamente i risultati sulla carta, cioè i diplomi ottenuti a seguito di un esame. E sappiamo tutti che imparare una lingua straniera a scuola non significa padroneggiarla in contesti reali d'uso. Per cui, con buona pace di Sabatini, il "rischio del precoce plurilinguismo monoestero", cioè la padronanza di una sola lingua straniera (leggi: dell'inglese), è un rischio non solo concreto ma non mi sembra arginato efficacemente da un'eventuale iniezione massiccia di francese e tedesco.