François Grin

1. Introduzione

La costruzione linguistica dell'Europa pone delle domande di grande interesse, ma quelle alla nostra portata raramente sono oggetto di una valutazione sistematica

Restando all'essenziale, ci sono proposti tre tipi di discorso. I più frequenti partono da una base istituzionale e giuridica; invocano la natura profonda di una Europa pluralistica ed i diritti dei cittadini europei.

In secondo luogo, alcuni testi riportano la domanda ad un aspetto molto specifico, come la scelta delle lingue straniere da insegnare e le sfide pedagogiche conseguenti. Terzo, se si è fatto un tentativo di analizzare in termini di costi e di vantaggi, ciò, in generale, non è che una visione passabilmente commerciale, che, dunque, ci viene presentata ridotta.

Questo testo esamina la scelta delle lingue (ufficiali e di lavoro) dell'Unione europea con l'aiuto dell'economia delle lingue e, più precisamente, dell'analisi economica delle politiche linguistiche. Dunque questo esame ci permetterà di mettere in evidenza tre risultati.

* Primo, contrariamente a ciò che si afferma frequentemente, non esiste una soluzione «evidentemente» superiore a tutte le altre: tutto dipende dai criteri di valutazione adottati, e questi devono essere chiariti.

* Secondo, - e, di nuovo, al contrario di ciò che si sente troppo spesso - non c'è niente di particolarmente «economico» a privilegiare l'inglese (né, per esempio, una triade inglese – francese - tedesco).

* Terzo, il «tutto in inglese» che certi presentano come la via del modernismo ragionevole è in effetti una soluzione straordinariamente disparitaria che dà adito a risultati che si quantificano in miliardi di euro l’ anno, e non c'è nessuna ragione (tecnica, economica o altro) di consentire una tale ingiustizia che, in tutto altro campo della politica pubblica, sarebbe considerata come inammissibile.

2. La valutazione delle politiche linguistiche

Prima di entrare nel vivo dell'argomento, è utile dire alcune parole dei concetti di cui andiamo a servirci, cominciando con chiarire quello di «politica linguistica».

La politica linguistica è un campo di studio principalmente basato sulla sociolinguistica e sulla linguistica applicata. Ci si rende conto del modo in cui le misure statali inerenti le lingue modificano la realtà linguistica di base, come se si trattasse di corpus (dunque di scelta di alfabeto, di determinazione di norme ortografiche ecc.) o di statuto (vale a dire della posizione di tale o talaltra lingua rispetto ad altre, nei vari «campi» come l'amministrazione, la giustizia o, beninteso, l'educazione). Questi interventi possono essere anche oggetto di un'analisi istituzionale e giuridica; ciò sarà opera dei giuristi.

Sono, tuttavia, principalmente gli economisti che hanno contribuito allo sviluppo di un nuovo accostamento alle politiche linguistiche, permettendo di valutare queste come delle politiche pubbliche. In questo quadro, si valuteranno le politiche considerate sotto due angoli, a partire da quello del finanziamento delle risorse a quello della loro distribuzione .

L’esame sotto l'angolo della collocazione mira ad identificare ed a misurare i vantaggi e gli inconvenienti che ciascuno degli scenari considerati può produrre. Questi vantaggi e questi inconvenienti possono essere trattati come «benefici» e «costi», ma non si limitano, se occorre, alle grandezze monetarie o commerciali, anche se, beninteso, sono pertinenti. In un campo che, come la lingua, è legato indissolubilmente alle dimensioni culturali e politiche, si deve tenere conto delle grandezze non mercantili. La presa in considerazione degli svantaggi (o dei costi) associata ai differenti scenari permette di procedere ad una valutazione dei vantaggi e degli inconvenienti grazie alla quale si può comparare questi scenari.

Se questo confronto dei vantaggi e degli inconvenienti riuscì in ciò che si è convenuto chiamare l'analisi della collocazione, è perché si cerca di sapere quale degli scenari considerati costituisce, dal punto di vista della società nel suo insieme, il migliore utilizzo delle risorse. Beninteso, questo confronto dei vantaggi e degli inconvenienti è solamente un ingrediente in un dibattito intrinsecamente politico. Non si tratta di snaturare un problema di società nel tecnicismo, ma di contribuire a «chiarire» il dibattito: l'analisi delle politiche linguistiche (nel senso della parola inglese «policy» = sistema) è al servizio del dibattito politico (nel senso della parola inglese «politics» = prudenza).

Tuttavia il lavoro di valutazione non deve fermarsi qui, conviene completare l'esame per un'analisi distributiva. Questa tende ad identificare chi è il «vincitore» e chi il «perdente» di una politica pubblica; ed anche se questa politica determinerebbe solo dei vincitori, è molto probabile che alcuni hanno più vantaggi di altri. L'analisi distributiva permette di mettere in evidenza degli spostamenti tra differenti gruppi di persone e di valutare la loro importanza; si tratta di un aspetto importante dell'accettabilità politica e sociale delle politiche pubbliche.

Questo passo può essere adattato dunque, mutatis mutandis, a tutte le grandi domande di politica linguistica, come se si trattasse di insegnamento delle lingue straniere, di protezione e promozione delle lingue minoritarie o della scelta delle lingue di lavoro in un insieme plurilingue come l'Unione europea.

Anche se il passo è concettualmente chiaro ed è ben recepito nelle altre sfere di azione governativa, sono ancora rari gli esercizi, anche parziali, di applicazione alle politiche linguistiche.

3. Il ventaglio dei regimi linguistici

Non cercherò di mostrare qui un panorama delle pratiche linguistiche in seno alle istituzioni dell'Unione europea, perché su questo argomento, altrove, si trovano cose eccellenti. Tenterò invece di dimostrare un fatto semplice, ma non privo di importanza: tra i regimi linguistici possibili, nessuno si evidenzia come preferibile agli altri.

Anche se si può immaginare una miriade di regimi linguistici (soprattutto proponendo dei regimi differenziati per le differenti istituzioni dell'Unione), è utile approfondire alcuni casi ben individuati che si applicano ad un insieme a N lingue, sia si tratti di 11 (come attualmente) o di 20 o 21 (come è dopo l'allargamento dell'Unione nel 2004). In base alle disposizioni del trattato di Roma del 1958, non faremo la differenza tra «lingua ufficiale» e «lingua di lavoro», e adopereremo in generale la prima di queste due espressioni. Esamineremo qui sei modelli (o «regimi linguistici»), che chiameremo rispettivamente «monarchico», «sinarchico», «oligarchico», «panarchico», «egemonico» e «tecnocratico». Si differenziano secondo parecchi parametri, e cioè:

* la concessione dello statuto di ufficialità ad un numero più o meno elevato di lingue tra le N+1 presenti: N lingue di stati membri, più una terza lingua, totalmente esterna all'insieme considerato (per esempio, diciamo il kiswahili), una lingua artificiale (di cui la più diffusa è senz’altro l'esperanto), o ancora una lingua morta (per esempio il latino);

* un numero di direzioni di traduzione e di interpretazione più o meno elevato in seno all'istituzione: se una sola lingua è ufficializzata, il numero è uguale a zero; al contrario, se tutte le N lingue degli Stati membri sono ufficializzate, il numero di direzioni di traduzione e di interpretazione da assicurare diventa N(N - 1) = N2 - N;

* lo sforzo di apprendimento di lingue straniere richiesto ai partecipanti (parlamentari, funzionari, ecc.) che può essere pari a zero (se tutte le lingue sono ufficializzate) o di uno (per certi politici e funzionari, nel cui regime la loro lingua non sarebbe tra il numero delle lingue ufficiali).

Le caratteristiche di questi sei regimi linguistici sono riassunte nel quadro 1, sotto riportato, dove si è supposto N = 21, vale a dire che Cipro, riunificata al momento dell'adesione, faccia introdurre la lingua turca nell'Unione.

Quadro 1: regimi linguistici per l'unione europea (N = 21)

Regime

Numero di lingue ufficiali

Natura delle lingue ufficiali

Direzioni di trad. ed interpret.

Bisogni di apprendimento di lingue straniere

 

Monarchico

1

Una lingua tra N, per es. l'inglese

0

 

Sinarchico

1

Una lingua terza, per es. l'esperanto

0

esperanto, per tutti

 

Oligarchico

k, dove

1

Selezione di k lingue tra N (per ex., inglese francese tedesco: k=3)

6

inglese o francese o tedesco, per i locutori di altre lingue

Panarchico

21

Tutte le N lingue presenti

420

nessuno

Egemonico

21

Tutte le N lingue di cui una serve da perno nell'interpretazione

40

nessuno

Tecnocratico

21

Tutte le N lingue; una lingua terza serve di perno nell'interpretazione

42

nessuno

Si può dimostrare che secondo le preferenze accordate , ciascuno di questi sei regimi può rivelarsi il migliore.

Per esempio, se i cittadini europei tengono all'uguaglianza di trattamento tra essi (tema sul quale torneremo in seguito), e se, a questo scopo, si tiene innanzitutto ad evitare ai parlamentari la necessità di apprendere una lingua straniera, ci si orienterà verso il modello panarchico o il modello tecnocratico. Se si aggiunge un criterio supplementare, come la minimizzazione del numero di direzioni di traduzione, è il modello tecnocratico (con, per esempio, l'esperanto come lingua base) che si rivela il migliore.

Ma supponiamo ora che i cittadini, preoccupandosi di economizzare, aspirino ad eliminare innanzitutto ogni ricorso all'interpretazione, preferiranno i modelli monarchici (e fare, per esempio, dell'inglese la sola lingua ufficiale dell'Unione europea) o sinarchico (e questo sarebbe allora, per esempio, l'esperanto che diventerebbe la lingua ufficiale dell'Unione). Se gli europei si mostrano, inoltre, preoccupati di parità di trattamento, il modello monarchico deve essere certamente scartato.

Immaginiamo, infine, il criterio di rapidità di comunicazione (ciò che esclude il ricorso ad un lingua di riferimento che aumenta il tragitto che la notizia deve percorrere tra l'emittente ed i destinatari), che esclude di optare per le istituzioni monolingue, ma che, nello stesso tempo, tenga a limitare i costi: è allora il modello oligarchico che si imporrà.

In breve, appena si chiariscono i criteri, si vede che nessun’ altra evidenza si pone all'infuori di queste. Ciò dimostra, molto utilmente, che non c'è niente di «naturale» nella dinamica delle lingue, ma che questa è solamente la risultante dell'interazione tra numerosi fattori di cui alcuni sono eminentemente politici; la scelta delle lingue di lavoro dell'Unione è il prodotto di un compromesso tra precedenze, e dunque di giochi di potere, prima di essere quello di una fatalità o di una qualsiasi legge fisica.

4. Argomenti di costo e di fattibilità

Ufficialmente, l'Unione europea applica, al momento in cui è scritto questo articolo (marzo 2004), un regime di tipo panarchico dove tutte le lingue sono uguali (ufficialmente, perché in effetti, certe lingue sono più uguali di altre). Questo è anche, lo si è visto, il regime più gradito nelle direzioni di traduzione. Dai 110 attuali, è suscettibile di passare a 420 dopo l'allargamento. Quali saranno le implicazioni finanziarie?

Accontentiamoci qui di ordini di grandezza sufficienti al nostro intento. Le spese di traduzione e di interpretazione delle istanze dell'Unione europea ammontano a € 685,9 milioni l’ anno. Cioè circa lo 0,8% del bilancio dell'Unione. Si potrebbe argomentare che si tratta di un costo ben accettabile, ma esploderebbe—e cesserebbe dunque di esserlo—in una Europa a 21 lingue ufficiali. Ora se questo importo di € 685,9 milioni finanzia le 110 direzioni di traduzione attuali, ciò suppone un costo medio, per direzione di traduzione di € 6,24 milioni. Proiettando questo costo sulle 420 direzioni di traduzione a seguito all'allargamento, si arriva ad un costo totale di € 2.618,9 milioni l’ anno. Si può considerare questa cifra di 2,6 miliardi di euro come la peggiore delle evenienze possibili, e si noterà che la Commissione stessa (contando sul ricorso alla lingua base nella traduzione e nell'interpretazione) prevede delle cifre nettamente inferiori, concretizzandosi in un costo dell'ordine di 3 euro per cittadino e per anno. Tuttavia, per mettere in prospettiva le cifre, cominciamo con ricordare che l'Unione spendeva (per l’ anno 1999), poco più di 85 miliardi di euro. D’altra parte, queste maggiori spese linguistiche dovranno servire una popolazione di circa 452 milioni di abitanti. Ciò equivale ad una spesa media inferiore a sei euro (più precisamente: € 5,79) per ciascuno cittadino e per anno.

Diventa difficile pretendere trattarsi di una somma eccessiva per garantire che tutte le lingue siano trattate in piena uguaglianza. Inoltre, i cittadini di cui le lingue sarebbero scartate dall'elenco delle lingue ufficiali rischierebbero di perdere molto di più. Prendiamo l’ipotesi più pessimista , e paragoniamo un’ Europa a 21 lingue ufficiali ad una Europa a sei lingue ufficiali (inglese, francese, tedesco, italiano, spagnolo, polacco dunque 30 direzioni di traduzione per un costo totale di 187,2 milioni di euro l’ anno, o circa 41 centesimi per ogni abitante). Rinunciare alle altre quindici lingue ufficiali rappresenta dunque per abitante un'economia annua dell'ordine di € 5,38 l’ anno. Ma questa economia probabilmente sarebbe pagata molto cara: difatti, gli svedesi, i portoghesi, gli sloveni, gli ungheresi ecc. sarebbero costretti ad esprimersi, oralmente e per iscritto, in una lingua diversa dalla loro. Ne seguirebbe non solo un indebolimento della loro posizione in ogni situazione di dibattito o di negoziato (e ciò, malgrado uno sforzo considerevole nell'apprendere una delle sei lingue ufficiali).

Un'altra conseguenza prevedibile, è il vantaggio nella possibilità di lavoro dei cittadini di madre lingua di una delle sei lingue ufficiali. Rinunciando, per la loro lingua, allo statuto di ufficialità i paesi considerati preparano la rinuncia dei loro cittadini residenti all'estero a numerose carriere di prestigio, anche in termini finanziari. Si può supporre dunque che se si mettessero chiaramente gli interessati di fronte ad una tale scelta, sarebbero numerosi quelli che opterebbero, nel loro interesse ben comprensibile, per il plurilinguismo.

Ritorneremo più avanti sul carattere più o meno iniquo dalle differenti soluzioni. Il mio proposito era di ricordare solamente che niente è «caro» o «a buon mercato» in assoluto. Questi attributi non hanno senso se non in rapporto alla prestazione così ottenuta, e in paragone con un'alternativa. Questo aspetto dei costi dà da pensare che se il plurilinguismo «panarchico» non è una buona soluzione per l'Unione europea, non è a causa del suo costo, tutto sommato accettabile. Il vero problema è quello della fattibilità.

Difatti, la complessità e le lentezze della comunicazione nelle istituzioni che funzionano con 21 lingue ufficiali (addirittura, in prospettiva, anche di più) sono probabilmente da ricusare; le sale per le conferenze non possono contenere sufficienti cabine di interpretazione; l'interpretazione a distanza è spesso ardua; il reclutamento di traduttori e di interpreti realmente qualificati ed in numero sufficiente si rivela fin da ora problematico. In pratica, il regime panarchico già non è più applicato in numerose procedure dell'Unione europea, come il COREPER (Comitato dei rappresentanti permanenti) o nei gruppi di lavoro del Consiglio europeo. Dunque esistono delle buone ragioni per considerare delle alternative al regime panarchico , anche se queste ragioni non sono, principalmente, di ordine finanziario.

5. Dei privilegi linguistici contrari all'equità

Numerosi sono quelli che, esplicitamente o no, richiedono il passaggio ad un regime «monarchico» nel senso del quadro 1; e messi da parte alcuni sognatori che immaginano ancora, come Maurice Druon che un tale ruolo potrebbe toccare al francese, la maggior parte ha già rinunciato: la lingua comune, deve essere l'inglese. Ora questa soluzione è talmente iniqua che diventa inaccettabile sul piano distributivo. Difatti, accordare all'inglese lo statuto di unica lingua ufficiale dà luogo a cinque tipi di vantaggi a favore dei cittadini di madre lingua inglese.

Primo, a causa del notevole sforzo che farebbe il resto dell'Europa per apprendere l'inglese, si offrirebbe ai locutori nativi dell'inglese un mercato considerevole in termini di materiali pedagogici, di fornitura di corsi di lingua, di traduzione e di interpretazione verso l'inglese, di perizia linguistica nella redazione e nella revisione di testi, ecc. Questo importo è quantificabile? L'esperimento, per quanto a mia conoscenza, non è mai stato tentato in modo sistematico; tuttavia, non c’è nessuno dubbio che si tratta di somme considerevoli.

Secondo, nella misura in cui tutta l'Europa fa lo sforzo di esprimersi in inglese (oralmente o per iscritto) ed accetta dei messaggi scritti o orali diffusi in inglese, i locutori dell'inglese non dovranno mai impegnare tempo o denaro per tradurre i messaggi che inviano o che devono recepire. È difficile valutare gli importi corrispondenti, poiché qui si tratta di un potenziale di traduzione e di interpretazione di una moltitudine di messaggi scambiati attraverso il mondo - e ciò che importa, è il valore di tutta la traduzione e di tutta l'interpretazione che non esiste in ragione della posizione egemonica che sarebbe accordata alla lingua inglese.

Terzo, se l'Europa funziona in inglese, gli inglesi di madre lingua non hanno realmente bisogno di apprendere altre lingue, da qui un'economia certa. Il ministro britannico dell'educazione, del resto, nel 2002, ha eliminato dai piani di studi del programma scolastico pre-universitario l'obbligo di seguire dei corsi di qualsiasi lingua straniera.

Quarto, a corollario dell'osservazione precedente, si rileverà che tutte le risorse finanziarie e temporali che non sono dedicate all'apprendimento delle lingue straniere possono essere investite nello sviluppo e nell'insegnamento di altro, dalla scuola materna fino alla più alta ricerca scientifica.

Quinto, bisogna segnalare un effetto che è forse il più importante di tutti a causa della sua onnipresenza. Anche se i non-anglofoni fanno lo sforzo di apprendere la lingua inglese, non arrivano, salvo eccezioni, al grado di padronanza che garantisce l'uguaglianza nei confronti dei cittadini di madre lingua inglese: uguaglianza rispetto alla comprensione, uguaglianza rispetto alla capacità di parola in un dibattito pubblico, uguaglianza nei negoziati e nelle controversie. Per eliminare questo svantaggio, sarebbe necessario un investimento totale dell'ordine di 12.000 ore di apprendimento e di pratica. In ragione di quattro ore di insegnamento per settimana e 40 settimane di corso per anno, occorrerebbero 75 anni di corso per raggiungere questo totale ed ottenere questo livello di competenza. Per la maggioranza, le possibilità reali di apprendimento non bastano per acquistare una piena padronanza nella lingua, né soprattutto un accento nativo o quasi. I non-anglofoni sono allora inevitabilmente esposti all'insicurezza ed al ridicolo – sia se se ne rendono conto o no. E’ molto difficile quantificare gli effetti, ma non c’è dubbio) che è considerevole il vantaggio concesso agli anglofoni verso tutti gli altri (eccetto una élite minoritaria che può permettersi di investire molto nell'acquisizione dell'inglese ad un livello molto alto).

L'importanza politica, economica e strategica di questi trasferimenti acquista maggior valore in un contesto non europeo, ma mondiale, perché l'inglese è la lingua dominante degli Stati Uniti, e è tenuto conto di questo dato che conviene valutare gli argomenti qui descritti. Resta da fare questo calcolo. A memoria, si può stimare, in circa 16 miliardi di dollari l’ anno, le somme che gli Stati Uniti risparmiano dal semplice fatto che l'insegnamento delle lingue straniere durante la scolarità obbligatoria è minima. Questo importo rappresenta più del triplo del bilancio americano annuo della Fondazione Nazionale per la Scienza, organo centrale di sostegno federale alla ricerca ed allo sviluppo: in sostanza, questo può tradursi solo, data per scontata ogni altra cosa, nei tassi di crescita più elevata che sono così co-finanziati dai paesi non-anglofoni che accettano di fare dell'inglese «la» lingua internazionale.

Per finire, ricordiamo un'evidenza: qui non si tratta di discriminare la lingua inglese o quelli che la conoscono alla perfezione. Il vero problema, è quello del dominio linguistico, qualunque sia, e dei privilegi che seguono. Sostituendo il francese all'inglese non porterebbe ad una soluzione più interessante per gli europei, eccetto per i cittadini di madre lingua francese: ciò, difatti, non farebbe che spostare gli argomenti qui descritti, e non avrebbe nessun interesse per gli svedesi, i polacchi o i portoghesi. E’ dunque altrove che bisogna cercare delle risposte soddisfacenti delle domande conseguenti la costruzione europea.

6. Conclusione

Certi autori presentano il «tutto-in-inglese» come inevitabile, ed allo stesso tempo come la meno iniqua delle soluzioni. Ora abbiamo visto in precedenza che esistono altri regimi linguistici meno iniqui, e che certi sono anche perfettamente equi (particolarmente i regimi panarchico, sinarchico e tecnocratico). D’altronde, se bisogna rinunciare al panarchico non in ragione del suo costo, ma del suo impegno, adottare un modello monarchico, sia in favore dell’inglese o di qualsiasi altra lingua, sarà un’ingiustizia particolarmente evidente che non potrà essere accettata.

Per eliminazione, si arriva dunque a conservare i regimi tecnocratico e sinarchico - ed in modo particolare questo ultimo, se si tratta di scegliere un regime linguistico non solo per le conferenze ed per i documenti ufficiali, ma anche per la comunicazione diretta e quotidiana in seno alle istanze europee. Nei due casi, ciò suppone un ricorso ad una terza lingua, sia che si tratti dell'esperanto, del latino o di un'altra lingua ancora. L'esperanto è al momento, probabilmente il pretendente più serio. Certo, il ricorso a questa lingua è spesso rigettato di ufficio, sulla base di argomenti di una stupefacente ignoranza. Resta sempre molto più pertinente come elemento chiave per una soluzione a lungo termine per l’Unione europea.

Sul piano dei benefici, innanzitutto, ricordiamo che il suo costo di apprendimento è incomparabilmente basso, qualunque sia la lingua materna dei discenti. Il costo in tempo, in energia, in denaro della partecipazione allo spazio politico europeo si ridurrebbe di circa l’ 85% per i cittadini dell'unione allargata. Ma è sul piano distributivo che la superiorità di una soluzione come quella dell'esperanto è indiscutibile: nessuna alternativa garantisce un tale grado di equità tra i cittadini europei. Il lettore può facilmente verificare da solo che le cinque sorgenti di trasferimenti contrari all'equità (descritti in precedenza nel caso di «tutto-in-inglese») spariscono tutto ad un tratto.

I regimi tecnocratici e sinarchici che al termine di questa analisi emergono come particolarmente atti a rispondere, in modo economico e giusto alle sfide linguistiche dell'allargamento, non devono essere considerati come le soluzioni integrali. La pianificazione linguistica solleva immancabilmente (soprattutto in un contesto sopranazionale) molte delicate questioni di accettabilità politica. È per ciò che non è una questione di poco conto ma un elemento - chiave: l'esperanto sarebbe così da utilizzare nel contesto di una soluzione complessa che faccia sempre ben apparire il plurilinguismo. Ma resta probabilmente uno dei migliori alleati di questo plurilinguismo di cui non si smette di proclamare che è un tratto essenziale dell'Europa.

Professore di economia, Scuola di traduzione e di interpretazione (ETI), Università di Ginevra. L'autore ringrazia Michele Gazzola per la sua assistenza di ricerca.

Vedere particolarmente: Calvet, L. -J.,1996, Les politiques linguistiques. Parigi: PUF, COLL. «Que sais-je? »; Kaplan, R. e Baldauf R., 1997 Language planning from practice to theory. Clevedon: Multilingual Matters; Schiffman, H., 1996 Linguistic Culture and Language Policy. Londra: Routledge.

per es. Fenet, A. ed al., 1995: Le droit et le minorités. Analyses et textes. Bruxelles; Bruylant; Henrard, K., 2000 Devising an Adeguate System of Minority Protection. L'Aia: Martinus Nijhoff.

Per un controllo recente, vedere il numero tematico 4(1) della rivista Current Issues in Language Planning (2003).

Per un'applicazione alle lingue regionali o minoritarie, vedere Grin F., 2003 Language Policy Evaluation and the European Charter for Regional or Minority Languages. Londra: Palgrave Macmillan.

Per esempio, dei celibi verso le famiglie, nel caso di politici fiscali che accordano a queste ultime degli abbattimenti specifici.

Cf. per esempio Grin, F. e Vaillancourt F., 1999 The Cost-Effectiveness Evaluation of Minority Language Policies. Monograph 2, European Centre for Minority Issues, Flensburg; Grin, F., Moring, T. ed al., 2002, Supporto for Minority Language in Europa. Rapporto alla Commissione europea (DG «Education et culture»), http://europa.eu.int/comm/education/policies/lang/langmin/support.pdf. Per una presa in conto esplicita delle dimensioni distributive e della loro articolazione con le dimensioni di beneficio, vedere Pool J., 1991 «The Official Language Problem», American Political Scienza Review, 85,495-514, o Van Parijs P., 2001 «Linguistic Justice», Politics, Philosophy and Economics, 1(1), 59-74.

Vedere per esempio il Rapporto Herbillon per esempio (http://www.elections-legislatives.fr/12/europe/rap-info/i0902.asp).

Vedere Pool, J., 1996 «Optimal Language Regimes for the European Union», Internazional Journal of the Sociology of Language, 121, 159-179, o Grin F., 1997 «Gérer le plurilinguisme européen: approche économique au problème di choix», Sociolinguistica, 11, 1-15.

Domanda scritta E-2239, 19 gennaio 2000, OJ C219 E/128-29, 1.8.2000. Per un'analisi dettagliata delle spese linguistiche dell'Unione, vedere Gazzola M., 2003 La relazione fra costi economici e costi politici del multilinguismo nell'Unione europea. Tesi di Laurea. Milano: Università Commerciale Luigi Bocconi.

Vedere il Journal Officiel, C 309 E, p. 1 (http://europa.eu.int/eur-lex/pri/en/oj/dat/2002/ce309/ce30920021212en00010001.pdf).

Gazzola, op. cit., p. 113.

Vedere: http://europa.eu.int/comm/enlargement/docs/pdf/eurostatapril2003.pdf

Vedere

http://www.imperatif francais.org/articles2/langue_commune2.html.

Jones,E., 2000, «The case for a shared world language», in M. Casson ed A. Godley (dir.), Cultural Factors in Economic Growth. Berlino: Springer, 210-235; De Swaan, A., 2001: Words of the World. Cambridge: Polity Press; per una visione più critica, vedere Phillipson, op. cit..

Graddol,D., 1997 :The Future of English? Londra: British Council.

Piron, C., 1994: Le defi des langues. du gâchis au bon sens. Parigi:

L’ Harmattan.

F. Grin, 2003 On the costs of cultural diversity (http://www.etes.ucl.ac.be/Francqui/Grin-Francqui.pdf), p. 10.

Sul suo carattere inevitabile, vedere Van Parijs P., 2001 «Le rez-dechaussée du mond, . sur les implications socioéconomiques de la mondialisation linguistique», in J. Delcourt e Ph. di Woot (dir.), Les défis de la globalisation. Babel ou Pentecôte? Louvain-la-Neuve: Stampe universitarie di Louvain, 479-500. Sull'equità «par défaut» del tutto-in-inglese, vedere l'intervista di Philippe Van Parijs in Le Monde del 16 febbraio 2004 http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3214,36-353119,0.html.

n teoria, si può correggere questa mancanza addebitando ai paesi di cui la lingua è ufficializzata (in questo caso, la Gran Bretagna ed in una certa misura l'Irlanda) i costi supportati dal resto dell'Unione (Van Parijs, P., 2001: “Linguistic Justice”, Politics, Philosophy & Economics, 1(1), 59-74); tuttavia, anche fatta astrazione dalle questioni concettualmente difficili che un tale principio obbligherebbe a risolvere, la sua realizzazione resta molto improbabile.

Su questo argomento, vedere per esempio Piron, op. cit., o Flochon, B., 2000 «L'esperanto. Verso una lingua universale? », Panoramiques, 48 (4° trimestre), 107-113. Anche se il vocabolario è basato principalmente sulle lingue latine, non è detto che il suo costo di apprendimento sia significativamente più elevato per i locutori di altre lingue.

Traduzione di Alfredo De Sipio