Accade molto raramente di trovare un testo serio sul grande problema della diffusione dell'uso dell'inglese nell'istruzione superiore di molti paesi del mondo. Nei giornali e nelle riviste si trovano più spesso dichiarazioni ideologiche a favore o contro l'uso dell'inglese, ma allo stesso tempo si argomenta sulla base di idee ed emozioni: 'si lasci che l'italiano si evolva e non venga ucciso' o 'diventiamo internazionali così come fa il mondo intero'.

Il libro: Maria Luisa Villa, L'inglese non basta - Una lingua per la società, Milano: Bruno Mondadori, 2013, appartiene ad un'altra specie di libri. L'autrice stessa è una famosa professoressa universitaria di medicina, nonché famosa divulgatrice scientifica e membro del Comitato Tecnico Scientifico per la Diffusione della Cultura Scientifica italiano, creato dal Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca. L'autrice ha affrontato il problema scientificamente e ha letto tutto ciò che c'è da leggere sull'argomento. Evidentemente anche tutti i libri riguardo l'esperanto e i suoi obiettivi e riguardo l'imperialismo linguistico dei glottologi come Robert Phillipson. Il punto più forte degli argomenti di lei, tuttavia, sono le esplorazioni nei corsi universitari in inglese nelle terre del nord Europa. Se i giovani svedesi o olandesi non fanno domande nei congressi in inglese riguardo gli argomenti trattati, questo forse significa qualcosa. Se loro, inoltre, parlano fra di loro e con i professori nella lingua nazionale, quando non è vietato farlo, anche questo significa qualcosa. Se si constata la diminuzione del sapere tramandato, anche questo deve significare qualcosa.


E se questo è verità in nazioni le cui lingue sono "parenti" all'inglese, e quindi più facilmente apprendibili, la situazione sarebbe molto più dannosa in Italia, dove gli uomini hanno difficoltà nell'apprendere e parlare l'inglese. Esiste un mito che va sfatato. Da noi si dice che gli olandesi parlano l'inglese meglio degli italiani perché nelle loro scuole è insegnato meglio. Nessuno vuole capire che l'inglese e l'olandese hanno molte cose in comune, come il francese e l'italiano, perciò l'apprendimento per gli olandesi è più facile.

Comunque l'autrice si è concentrata anche sulla causa principale, perché si vuole usare l'inglese. Non si tratta di idee romantiche circa la globalizzazione e l'unione dell'umanità, ma del fatto che negli ultimi decenni il mondo scientifico è uscito dalla sua tradizionale fase "accademica" ed è entrato nella fase "post-accademica", ossia è entrato nel mondo economico. Ora sempre più ditte finanziano e sostengono progetti di esplorazione, e tutto il lavoro degli scienziati è diretto a risultati concreti e misurabili. Quindi è evidente che i finanzieri vogliono misurare la validità delle esplorazioni, e questo appesantisce gli indici di misurazione, che si basano su sistemi in lingua inglese per stabilire il valore delle pubblicazioni scientifiche prodotte. Ciò che non è in inglese non è misurato, e quindi è invisibile e infinanziabile.

In questo modo l'economia dirige il lavoro degli scienziati senza alcun riguardo per i vantaggi sociali degli uomini nelle singole nazioni. Una delle conseguenze che io trovo più attendibile è la mancanza di fiducia sempre maggiore da parte del pubblico normale nei confronti di quello che dicono gli scienziati. Ci si domanda, giustamente, per quale ditta lavorano.

Per tornare alla domanda sulle lingue, l'autrice mostra che in tutto questo modo di agire si sta principalmente attenti alle lingue importanti delle potenze in evoluzione, che possono dare molti più posti di lavoro dell'inglese. Per esempio si sa che il Brasile avrà bisogno di 1,5 milioni di ingegneri che il Paese stesso non riesce a educare al suo interno. E i politici e i rettori delle università ostacolano i loro studenti a concorrere per quei posti che richiedono la conoscenza del portoghese, e non dell'inglese. Essenzialmente, Maria Luisa Villa esorta a favore di una politica molto più raffinata, che conservi il valore delle lingue nazionali e si basi su una vasta gamma di lingue straniere, guardando al probabile futuro e non agli attuali imperi. Lei non propone l'esperanto, ma ammette che l'esperanto e prove simili sottintendono un mondo in cui il benessere delle comunità umane è più importante del profitto di qualche imprenditore multietnico.