Questo articolo è tratto del volume «La comunicazione internazionale tra politica e glottodidattica - L'Esperanto, cent'anni dopo», ed. Marzorati, Milano 1987.

È stato aggiornato in alcuni punti nell'ottobre 2001.

1. Occorre una lingua per l'Europa unita

Dopo la seconda guerra mondiale i Paesi dell'Occidente Europeo hanno avviato un processo di avvicinamento e di integrazione economica, il cui logico sbocco dovrebbe essere l'integrazione politica, cioè il superamento delle singole sovranità nazionali e la costituzione di un legame sovrannazionale a carattere federale.

La costruzione di uno Stato federale multinazionale nel continente europeo è un'impresa che non ha precedenti nella storia. La nascita di grandi aggregati statali è sempre avvenuta finora mediante conquista militare, che sottoponeva popoli diversi ad una nazione egemone oppure creava una nazione unitaria, livellando differenze e autonomie locali. Uno dei più potenti strumenti di unificazione e di omogenizzazione è sempre stata la lingua. Tutti gli Stati multinazionali, sia di tipo imperiale che di tipo federale, nel passato e nel presente, hanno avuto e hanno una lingua predominante sulle altre, di fatto se non di diritto: è la lingua del gruppo nazionale più importante, per numero o per egemonia politica, che diventa la lingua della classe politica e della pubblica amministrazione; in qualche caso le lingue dominanti sono due, in condizioni di quasi parità pratica.

Negli Stati Uniti d'America l'inglese, lingua dei primi colonizzatori, è stato un potentissimo fattore del grandioso processo di fusione delle diverse successive immigrazioni di uomini di varie origini etniche nel grande "melting pot" americano. Nell'impero multinazionale austriaco erano usate ufficialmente tredici lingue, ma il tedesco era la lingua d'uso, comune a tutte le stirpi, almeno nei ceti medi e alti (ma gli altri ceti allora contavano poco), "considerata una specie d'esperanto, una Weltsprache", come scrive il poeta e scrittore triestino Carolus Cergoly nel suo "II complesso dell'Imperatore", una nostalgica rievocazione, sentimentale e fantastica, di un mondo sovrannazionale, civile e tollerante, distrutto dall'idea dello stato-nazione. Nell'Unione Sovietica, Stato almeno formalmente federale, la lingua russa era in posizione assolutamente predominante; in Svizzera, Stato federale democratico, in cui hanno cittadinanza quattro lingue, la realtà fa sì che il tedesco e il francese siano le sole vere lingue federali; in India la situazione di grande frazionamento linguistico ha fatto sì che la lingua degli ex-colonizzatori, l'inglese, continui a essere usata nella pubblica amministrazione e nella classe politica, mentre si cerca di diffondere l'uso dello hindi. In Jugoslavia, prima della sua dissoluzione, il serbo-croato, considerato come un'unica lingua anche se scritta con due diversi alfabeti, era dominante; la dissoluzione della Federazione Jugoslava e il divampare dei nazionalismi hanno fatto sì che ora si considerino distinte le due lingue, il serbo e il croato. Il che dimostra che non sono le divisioni linguistiche a causare gli odii, ma sono gli odii a causare le divisioni linguistiche.

Non esiste, ne è mai esistito, uno stato multinazionale, nel quale una dozzina di lingue diverse sia usata in condizioni di effettiva parità.



L'Europa politicamente unita non avrà bisogno di una "omogenizzazione" linguistica, anzi dovrà conservare e sviluppare i grandi patrimoni culturali legati alle diverse lingue nazionali, ma avrà bisogno di possedere, accanto alle lingue nazionali e regionali, una lingua comune da usarsi a livello federale, come lingua delle comuni istituzioni.

Il principio, attualmente in vigore nel Parlamento Europeo, dell'uguaglian­za di diritti di tutte le lingue ufficiali, porterà a difficoltà sempre maggiori. Oggi nel Parlamento di Strasburgo vi sono undici lingue ufficiali (inglese, francese, tedesco, italiano, olandese, danese, greco, spagnolo, portoghese, finlandese e svedese) e i lavori parlamentari possono procedere solamente mediante un imponente e complesso servizio di interpretazione e traduzione, costosissimo e che comunque rallenta notevolmente l'attività parlamentare. Pensiamo poi che altri Paesi si accingono a entrare nei prossimi anni nell'Unione Europea, quindi si aggiungeranno altre lingue: il polacco, il ceco, lo slovacco, lo sloveno, l'ungherese, l'estone, ma poi altre ancora potranno seguire, come il lituano, il lettone, il rumeno ecc. Il numero delle lingue ufficiali raggiungerà e supererà la ventina.

Comunque, anche limitatamente a una Federazione a undici lingue ufficiali, il multilinguismo porterebbe enormi costi, in denaro e tempo, e grandissime complicazioni nella pubblica amministrazione federale, nell'esercito federale, in tutte le strutture comuni. Di fatto si dovrà arrivare, per forza di cose, prima o poi, all'uso prevalente di una sola lingua, o al massimo di due, a livello federale.

La costruzione dell'Europa, il rafforzamento delle sue istituzioni, il radicarsi negli animi degli europei del sentimento di appartenenza a una patria comune saranno un processo lungo e difficile, che dovrà superare anche resistenze psicologiche di tipo nazionalistico, frutto di secolari divisioni. Il modo in cui si affronterà, o non si affronterà, la soluzione del problema linguistico potrà esser fattore di coesione e di unificazione oppure causa di ulteriore divisione.

La soluzione ottimale di questi problemi è la scelta, razionale e concordata, di una sola lingua da usarsi come lingua federale europea. La lingua federale dovrebbe essere impiegata correntemente come lingua ufficiale nel governo, nel parlamento, nelle forze armate, nei tribunali federali. Sarebbe la lingua con la quale ogni cittadino europeo potrebbe farsi intendere in ogni regione della Federazione di lingua diversa dalla propria. La lingua federale dovrebbe esser insegnata in tutto il territorio della Federazione nelle classi della scuola dell'obbligo, in maniera che al termine di essa gli alunni ne possano avere una piena padronanza effettiva.

2. Quale lingua per l'Europa?

Ora si pone il problema: quale lingua scegliere come "lingua federale" per l'Europa Unita?

Le alternative che vengono generalmente proposte sono tre: una lingua nazionale, cioè praticamente l'inglese, anche se c'è chi sostiene il francese; il latino, nella sua forma classica o nella forma medievale o in una versione modernizzata; una lingua pianificata, cioè in pratica l'Esperanto, nella sua forma attuale o eventualmente in una forma modificata.

1) L'inglese

Questa è l'alternativa verso la quale ci si sta avviando e che dai più viene accettata, con maggiore o minore rassegnazione, quando non con entusiasmo; si dice cioè: usiamo come lingua di lavoro due o tre delle principali lingue europee, lasciando da parte le altre; facciamo sì che nelle scuole s'insegnino due o tre lingue straniere: così gli europei si capiranno. Poiché però l'uomo medio difficilmente riesce a imparare più di una lingua straniera, questa proposta equivale a quella di adottare senz'altro l'inglese e basta, data l'enorme forza che questa lingua ha alle spalle, rappresentata soprattutto dagli Stati Uniti d'America.

Questa soluzione comporta però rischi gravissimi, come in più occasioni ha illustrato Chiti-Batelli.

Chiunque abbia una certa esperienza di lingua e d'insegnamento linguistico sa che per apprendere bene una lingua straniera, occorre per la maggior parte delle persone poter vivere per periodi abbastanza lunghi nel Paese dove tale lingua si parla e occorre un forte impegno di apprendimento. È chiaro che, anche in una Europa unita, solo una minoranza ristretta della popolazione avrà la possibilità di fare questo: e così andrà sempre più accentuandosi il fenomeno, già ora in atto, della creazione di una classe privilegiata, alla quale sono aperte possibilità negate alla generalità delle persone.

Ad una discriminazione sociale (i ceti più abbienti possono mandare i propri figli a studiare all'estero), si aggiunge una discriminazione etnica, a favore dei britannici e a danno delle altre nazionalità. L'adozione dell'inglese come lingua europea costringerebbe infatti tutti i non anglo-parlanti a dedicare un notevole sforzo di apprendimento allo studio dell'inglese, togliendo tempo ed impegno allo studio di altre materie. Gli anglo-parlanti invece possono già ora dedicare tale tempo a più proficui studi, col risultato, alla distanza, di una selezione naturale culturale a loro vantaggio. Senza contare il fatto che, anche fra coloro che avranno imparato l'inglese, sarà ristretto il numero di quelli che sapranno veramente usarlo bene, senza trovarsi in stato di inferiorità rispetto a coloro che tale lingua possiedono come idioma materno.

Comunque, per realizzare un'effettiva introduzione dell'inglese come lingua europea, si dovrebbe procedere a un insegnamento intensivo, fin dalle elementari, con un continuo martellamento culturale, che costringa ad usare l'inglese anche in casa propria: giornali in inglese, televisione in inglese, film in inglese ecc. Praticamente si dovrebbe insegnare l'inglese non già accanto alla lingua nazionale, ma al posto della lingua nazionale..., finché si riuscirà ad avere una generazione di anglo-parlanti. A quel punto, nel giro di pochi decenni, le lingue nazionali si ridurranno sempre più al rango di dialetti, scalzate dalla potenza della lingua dominatrice. E forse i nostri pronipoti costituiranno comitati per chiedere la rinascita dell'italiano, del francese, del tedesco, come si fa ora per il catalano, il bretone, l'occitanico o il sardo.

Attualmente noi stiamo assistendo al diffondersi di un inglese imparaticcio e orecchiato, insieme a un contemporaneo progressivo imbastardimento della lingua italiana nell'uso comune, e questi sono i prodromi di cosa potrebbe avvenire domani con un inglese ufficialmente "lingua europea".

Né bisogna dimenticare, d'altra parte, che l'inglese è la lingua degli Stati Uniti d'America: la sua diffusione capillare, ufficialmente riconosciuta e incoraggiata, rafforzerebbe ancora di più il predominio politico-culturale degli Stati Uniti. L'inglese, lingua dell'America, difficilmente potrebbe essere sentito dalla gente come "la lingua dell'Europa". Questo è un ostacolo da non sottovalutare, perché una delle funzioni, e non la meno importante, della lingua federale europea dovrebbe essere quella di favorire psicologicamente il sentimento d'identificazione degli Europei, il riconoscersi come tali.

Un altro motivo contro la scelta dell'inglese è messo in luce da Chiti-Batelli. L'Unione federale del continente europeo sarà un avvenimento importante anche per il resto del mondo, perché costituirà un esempio per altre aree e il modello per il futuro ordinamento di tutta l'umanità. La scelta dell'inglese, che è la lingua dell'America del Nord, come lingua dell'Europa potrebbe apparire ai Paesi del Terzo Mondo come una scelta di subordinazione agli USA, visti da molti, a torto o a ragione, come potenza imperialista. Ciò diminuirebbe la forza d'esempio dell'Europa verso questi Paesi; forza che sarebbe invece accresciuta dalla scelta a favore di una lingua pianificata neutrale, proponibile anche al resto del mondo come futura lingua mondiale.

2) Il latino

Prima di passare ad esaminare quella che è la vera alternativa all'inglese, cioè la lingua pianificata, sgombriamo il campo da quella falsa alternativa che è la proposta di adottare il latino come lingua europea. Dico falsa alternativa perché in effetti non realizzabile, per cui chi la propone non fa che lavorare, anche senza volerlo, "per il re di Prussia", cioè per l'inglese.

A questa proposta aveva già efficacemente risposto, in uno scritto pubblicato nel 1900 sotto lo pseudonimo Unuel, Lazzaro Ludovico Zamenhof, l'autore dell'Esperanto. Nel saggio Esenco kaj estonteco de la ideo de lingvo internacia ("Essenza e avvenire dell'idea di lingua internazionale") apparso anche in italiano (nel "Supplemento alla Rivista Italiana di Esperanto", n. 12, dicembre 1931, Udine), si ipotizzava che un futuro congresso, per incarico dei governi dei principali Stati, dovesse decidere sulla scelta di una lingua internazionale e si diceva fra l'altro:

«Se invece i nostri congressisti... votassero per una lingua morta, per es. il latino, che succederebbe? Non c'è caso: la decisione del congresso resterebbe lettera morta e non sarebbe mai realizzata. Qualunque lingua naturale, sia vivente, sia, quel ch'è peggio, morta, presenta tali enormi difficoltà che a possederla un po' a fondo occorre essere ricchi e avere tempo e pazienza di studiarla a lungo. Avremmo tutt'al più non una lingua internazionale nel vero senso della parola, ma una lingua internazionale per le classi sociali più elevate. E che le cose stiano così e non altrimenti la vita stessa ci mostra all'evidenza: da gran tempo i governi hanno scelto come internazionale la lingua latina e nei ginnasi dei diversi Paesi i giovani la studiano per molti anni; ma in realtà quanti sono coloro che la possono usare liberamente? La decisione del congresso, dunque, non sarebbe nuova per noi, ma la ripetizione di altra simile fatta più volte e sempre invano. ...Per contro nel caso che venga scelta una lingua artificiale, dopo poco tutti potrebbero possederla, ricchi e poveri, cittadini e villani, dotti e non dotti».

Meglio di così non si poteva dire, senza contare che oggi il latino si studia molto meno che all'inizio del secolo, quando Zamenhof faceva le considerazioni riportate.

C'è da aggiungere che il latino, oltre a presentare grandi difficoltà per la sua complessità grammaticale e sintattica, oltre ad essere una lingua sintetica, mentre le lingue europee occidentali sono prevalentemente analitiche, oltre ad essere privo di un adeguato vocabolario per tutte le cose ed i concetti moderni, non possiede in effetti nemmeno quel vantaggio, che i suoi sostenitori esaltano, di avere un lessico passato con poche varianti nelle lingue neolatine. Molte parole del latino classico si trovano sì nelle lingue neolatine, ma spesso hanno significato mutato, e diverso nelle diverse lingue. Per esempio, dalla parola latina spes viene sì l'italiano sperare, ma anche lo spagnolo esperar, che significa "aspettare, attendere"; il latino mulier è diventato in spagnolo mujer (donna), mentre in italiano è diventato "moglie", con significato più limitato. La somiglianza fra le parole latine e quelle delle lingue neolatine può assai spesso trarre in inganno: per esempio il latino salire significa "saltare" e non corrisponde quindi né all'italiano salire, né allo spagnolo salir, che vuoi dire "uscire", né tanto meno al francese salir, che equivale a "sporcare". (Di un cambiamento di significato di questo genere approfittava quell'astuto capitano che, per incoraggiare i suoi soldati in marcia verso la prima linea, li incitava dicendo: "Avanti ragazzi, là c'è l'oste!").

In sostanza, per potere usare oggi il latino come lingua europea, bisognerebbe semplificarne la grammatica e la sintassi, introdurre moltissimi nuovi termini, normalizzare, cioè definire meglio, l'uso di molti vocaboli del latino classico; in altre parole bisognerebbe fare una grossa operazione di rimaneggiamento linguistico, che si avvicina assai alla creazione di una lingua "pianificata". È quello che tentò di fare del resto, ma in maniera incompleta, il grande matematico italiano Giuseppe Peano col suo Latino sine flexione.

Ma allora, ammesso che si debba intervenire a manipolare un materiale linguistico esistente, la soluzione più logica è quella di utilizzare tale materiale — non solo quello della lingua latina, ma anche quello delle principali lingue moderne — strutturandolo in un sistema semplice, razionale e logico. Si giunge così all'idea della "lingua internazionale pianificata".

3) La lingua pianificata

II primo che ebbe l'intuizione di utilizzare il materiale linguistico delle principali lingue europee per dar forma a una "lingua internazionale", facile per tutti e neutrale, come veicolo di comprensione fra gli uomini, e che effettivamente realizzò questa intuizione, fu Lazzaro Ludovico Zamenhof, il quale su questi princìpi costruì la sua lingvo internacia, chiamata poi Esperanto, dallo pseudonimo ("colui che spera") con cui l'autore firmò la prima grammatica, pubblicata nel 1887.

Altri poi tentarono di fare di meglio e proposero varie soluzioni. Però, quando si parla di "lingua internazionale pianificata", ancora oggi si parla di Esperanto. Perché? Perché una cosa è un progetto elaborato a tavolino e stampato in una pubblicazione, altra cosa è una lingua vera, scritta e parlata da persone vere, con una sua evoluzione, con una sua letteratura.

La differenza che passa fra un "progetto di lingua internazionale" e una "lingua internazionale pianificata" è analoga a quella che corre tra una reazione di sintesi chimica scritta sulla carta e un impianto industriale di sintesi. Per passare dalla reazione scritta a quella realizzata industrialmente occorrono prima le prove di laboratorio, poi la costruzione di un "impianto pilota", che realizzi su scala ridotta quello che dovrà essere l'impianto industriale, e infine, dopo adeguata sperimentazione dell'impianto pilota, si potrà procedere alla costruzione e alla messa in opera dell'impianto industriale. Ebbene, delle centinaia di progetti di lingua internazionale pubblicati, solo quattro o cinque sono arrivati alle prove di laboratorio, cioè alla pubblicazione di un certo numero di articoli e di alcune grammatiche e vocabolari, con un uso sperimentale fra alcune decine di persone (il Volapük, l'Esperanto", l'Ido", il Latino sine flexione o Interlingua e l'Occidental); ma solo uno, l'Esperanto appunto, è arrivato fino alla realizzazione dell'impianto pilota e alla produzione su scala ridotta — per continuare la metafora chimica — mediante questo impianto.

Tale impianto pilota è il movimento esperantista, che in ormai quasi cent'anni ha usato, vivificato, sviluppato quello che era un progetto ed è divenuto una lingua vera, provata e riprovata, per iscritto ed a voce, in opere letterarie originali e tradotte, in giornali e riviste, in congressi mondiali e in conversazioni familiari. La vasta esperienza fornita da questo impianto pilota ha dimostrato, senz'ombra di dubbio, che l'Esperanto è «una lingua che funziona» (come disse egregiamente Alessandro Bausani), costruendo nel contempo una ricca infrastruttura di vocabolari, grammatiche, approfonditi studi linguistici, terminologie specialistiche, opere letterarie originali e tradotte, che nessun altro progetto di lingua internazionale minimamente possiede 1.

Una caratteristica particolarmente importante dell'Esperanto è la possibili­tà di apprenderlo, anche da autodidatti, in un tempo circa dieci volte inferiore a quello necessario per l'apprendimento di una lingua straniera naturale, a pari livello di conoscenza. È da sottolineare il fatto che, per imparare anche molto bene l'Esperanto, non è necessario andare all'estero o seguire particolari corsi;

anzi l'esperienza insegna che i migliori esperantisti sono quelli che hanno imparato la lingua da autodidatti, ma probabilmente questo è dovuto al fatto che gli autodidatti sono più motivati all'apprendimento da una propria curiosità intellettuale. Un'altra importante caratteristica dell'Esperanto è la sua capacità di facilitare il successivo apprendimento di altre lingue, in quanto mette in luce i meccanismi linguistici, sfrondati delle irregolarità e delle eccezioni: è anche questo un tema di cui dirà più particolareggiatamente, in questo volume, il prof. Frank.

Un'esperienza unica, offerta dall'impianto pilota esperantista, è la partecipazione ai congressi esperantisti internazionali, nei quali uomini di molti Paesi, rappresentanti di tutti i ceti sociali e di diversi livelli culturali, s'incontrano e si parlano, assistono a conferenze ed a spettacoli teatrali, partecipano a feste, discutono, intessono amicizie, o magari litigano, usando sempre e solo la lingua internazionale, senza bisogno di traduzioni e d'interpreti. L'Esperanto è cioè, ormai — in tal senso — una lingua "viva".

Oltre all'internazionalità ed alla facilità, l'altra caratteristica fondamentale dell'Esperanto è quella di essere "neutrale". Chi parla Esperanto, cioè, non parla una "lingua straniera", una lingua "altrui", ma parla una lingua che gli appartiene, come appartiene a chiunque la parli, quale che sia la sua lingua materna. L'Esperanto non è il portatore di una specifica cultura nazionale — non è la lingua "di una cultura", ma una lingua "per la cultura", come ben disse il compianto prof. Giuseppe Tramarollo — e potrà quindi essere la "lingua federale europea" ideale: che, rispettando pienamente le lingue nazionali e regionali, anzi facilitandone l'apprendimento, costituirà un potente fattore di coesione della giovane Federazione.

3. L'Esperanto e l'unità europea

II progetto di Zamenhof ha avuto lo sviluppo che ha avuto ed è diventato una vera lingua, a differenza di altri progetti, per tre motivi:

1) Zamenhof non si limitò a scrivere una grammatica e un vocabolario, ma fu il primo autore originale e il primo traduttore della sua lingua, riuscendo così a levigarla, a darle un corpo, uno stile, un'anima, che essa, pur nella successiva evoluzione che ha subito, conserva sempre;

2) Zamenhof unì all'idea di lingua internazionale un'idea di pacifismo e di fratellanza universale, di cui la lingua doveva essere lo strumento, e questo contribuì a raccogliere attorno all'Esperanto uomini di vari Paesi, animati da tali ideali, uomini che diedero vita ad un "movimento" che a poco a poco si diffuse nelle più diverse regioni del mondo e resistette a guerre e persecuzioni (il movimento esperantista fu duramente perseguitato da Hitler, da Stalin e da altri dittatori, e ciò nonostante è ancora vivo e vitale anche nelle due Germanie e nei Paesi dell'est europeo);

3) gli esperantisti accettarono che a base della lingua ci fosse un fondamento intangibile, appunto il "Fundamento de Esperanto", costituito da alcuni testi basilari 2. A tale fondamento non si possono apportare modifiche, anche se la lingua può regolarmente evolversi. Così, per esempio, non è possibile cambiare una regola grammaticale e nemmeno è lecito cancellare dal vocabolario esperanto una parola che si trova nel "Fundamento"; è però possibile che una certa parola venga poco usata e diventi un "arcaismo", sostituito da una espressione più moderna. Ciò ha garantito l'unità e insieme l'evoluzione della lingua.

Dove però Zamenhof sbagliava (ma è un errore dovuto all'ottimismo del suo tempo, poi rivelatesi purtroppo illusorio) era nel credere che la decisione di adottare la lingua pianificata potesse venire da un consesso di Stati.

L'introduzione della lingua internazionale a livello di massa (cioè il passaggio dalla "piccola produzione" nell'impianto pilota alla "grande produ­zione" nell'impianto industriale) richiede uno sforzo molto grande, per il quale è necessario vi siano la forza e la volontà politica di compierlo. Tale sforzo può esser fatto solamente da uno Stato che abbia un preciso interesse in tal senso. Se la ancora incerta unità dell'Unione Europea si trasformerà in una unità federale, allora avremo uno Stato, la Federazione europea, che avrà bisogno di rafforzare la propria unità anche con uno strumento linguistico: avrà bisogno di una lingua federale europea.

Un futuro Governo federale europeo che — avendo scartato per i motivi già detti la soluzione "inglese" — opti per una lingua pianificata come lingua federale, non potrà prescindere dall'Esperanto. Si tratterà soltanto di decidere, sulla base dell'esperienza accumulata mediante "l'impianto pilota", se l'Espe­ranto dovrà essere adottato così com'è, oppure dovranno essere apportate alcune modifiche, prima di renderlo ufficialmente la seconda lingua di milioni di persone. Zamenhof stesso prevedeva del resto che una futura autorità dotata del potere di decidere l'introduzione della lingua internazionale avrebbe potuto deliberare su eventuali modifiche da apportare all'Esperanto, prima di adottarlo nella forma definitiva e obbligatoria per tutti.

Se invece il grande progetto di unificazione politica del Vecchio Continente dovesse fallire; se, per disgrazia nostra e dell'umanità intera, il continente europeo dovesse permanere nello stato di divisione e d'impotenza, destinato, in assenza di unificazione, ad aggravarsi sempre più, allora l'unica possibile lingua internazionale sarà l'inglese, la lingua degli Stati Uniti d'America e di molti altri Paesi. Essa diverrà sempre più la lingua dell'Impero, che gli abitanti delle province accettano o subiscono, fino a perdere la propria identità culturale. Ricordiamoci cosa avvenne nell'Impero Romano, dove il latino distrusse, pur senza farlo deliberatamente, tutte le lingue locali preesistenti.

Solo nella prospettiva della creazione, a non troppo lunga distanza, di una Federazione europea c'è non la sicurezza, ma una ragionevole possibilità che l'Esperanto si affermi.

Altrimenti esso rimarrà relegato nel limbo delle utopie.

4. Tappe per l'introduzione della "lingua federale europea"

Cerchiamo di ipotizzare, qui di seguito, le varie tappe che verosimilmente potrebbero essere seguite per l'introduzione di una lingua pianificata come "lingua federale europea". Le prime tappe (A, B e C) riguardano l'uso di tale lingua come "lingua di lavoro" nelle istituzioni europee e sono concepibili anche con le attuali strutture comunitarie. Le altre due tappe {D e E) sono ipotizzabili solo per quando le Comunità si saranno trasformate in una irreversibile struttura politica federale.

A) Uso dell''Esperanto come lingua ponte per le traduzioni scritte.

Spesso è estremamente difficile, o addirittura impossibile, trovare qualifica­ti traduttori da certe lingue a certe altre, per esempio dal danese al greco o dall'olandese al portoghese, e ciò in particolare per le traduzioni simultanee; si ricorre perciò alla doppia traduzione, attraverso una "lingua ponte". La lingua ponte ideale sarebbe proprio l'Esperanto, sia perché ciascun traduttore opererebbe solamente con la propria madre-lingua e con l'Esperanto, che dovrebbe essergli altrettanto familiare, sia perché la grande flessibilità dell'E­speranto rende questa lingua estremamente adatta a fungere da lingua di traduzione. Praticamente un determinato testo verrebbe tradotto da una lingua nazionale in Esperanto e da questo in tutte le altre lingue nazionali. È questa la prima tappa proposta.

Successivamente si potrà fare un passo ulteriore:

B) Riduzione del numero delle "lingue di lavoro", introducendo tra queste l'Esperanto con un ruolo speciale.

Negli organi comunitari ciascuno continuerà a parlare la propria lingua, ma potrà anche parlare in Esperanto. Per tutte le lingue nazionali ci sarebbe però la traduzione simultanea solamente nelle lingue di lavoro, per esempio inglese, francese ed Esperanto. Per l'Esperanto invece (ruolo "speciale") la traduzione verrà fatta simultaneamente in tutte le lingue nazionali. In tal modo si chiederebbe ai parlamentari e ai funzionari partecipanti ai lavori una conoscen­za passiva (a livello di comprensione del parlato) di almeno una delle lingue di lavoro. Chi vorrà essere sicuro però di essere seguito bene da tutti, nelle rispettive lingue nazionali, potrà preparare il proprio intervento in Esperanto.

Ancora un passo, e veniamo alla terza tappa.

C) Uso dell''Esperanto come sola lingua di traduzione.

Ciascuno potrà parlare o nella propria lingua o in Esperanto; nel primo caso verrà tradotto in simultanea solamente in Esperanto, nel secondo caso verrà tradotto in tutte le lingue nazionali. Sarà richiesta cioè la conoscenza passiva (comprensione del parlato) dell'Esperanto. Comunque ciascuno sarà sicuro di essere compreso bene da tutti se parlerà in Esperanto, perché ciascun ascoltatore potrà scegliere se ascoltare direttamente in lingua internazionale oppure tramite la traduzione nella propria lingua.

D) Uso del solo Esperanto, senza traduzioni simultanee. Per ultima, la tappa finale: quella dell'introduzione della "lingua pianifica­ta" nelle istituzioni europee, come unica lingua ausiliaria: obiettivo raggiungibi­le solo dopo molti anni, e probabilmente solo dopo che la lingua stessa sarà stata introdotta nell'uso generale. Comunque è chiaro che tutti i testi aventi valore di legge, elaborati nella lingua internazionale, dovranno essere tradotti sempre in tutte le lingue nazionali, per uso di tutti i cittadini.

E) Adozione dell'Esperanto (o di un "neo-esperanto") come "lingua federale europea".

Mentre le tappe precedenti (e in particolare le prime tre) si riferivano al livello "istituzionale" comunitario, qui ci riferiamo al "livello popolare", che presenta ben altri problemi.

Una volta che sarà stata presa la decisione politica di adottare come lingua "federale" europea una lingua pianificata (decisione che potranno prendere solamente gli organi costituzionali della futura Federazione), si dovrà procedere alle seguenti prevedibili tappe:

a) Istituzione di una "Commissione per la revisione dell'Esperanto", formata da linguisti esperti nel campo dell'interlinguistica, che conoscano bene l'Esperanto (ma non legati a organizzazioni esperantiste), nonché da scrittori di lingua Esperanto, da scienziati e persone di cultura aventi grande esperienza pratica nell'uso di tale lingua e della problematica connessa. Questa commissio­ne dovrà elaborare un progetto di riforma, che cerchi però di cambiare solo quello che è veramente utile cambiare, scostandosi il meno possibile dall'attuale forma della lingua, in modo da salvare il patrimonio di esperienza linguistica accumulato e farne tesoro. La commissione dovrà disporre dell'aiuto di un adeguato ordinatore, che consenta di valutare immediatamente ogni singola proposta di modifica, fare ricerche lessicali ecc.

b) Larga consultazione sul "progetto di riforma" fra tutti coloro che hanno esperienza in tema di lingua internazionale e infine approvazione definitiva.

e) Fondazione di un "Istituto per la lingua europea", che provvederà a tradurre in "neo-esperanto" (o "europeo") tutti i testi di una certa importanza esistenti in Esperanto; a pubblicare le grammatiche e i dizionari ufficiali nelle varie lingue; a organizzare, con la collaborazione delle varie università, i corsi per la formazione di insegnanti di "europeo".

d) Introduzione dell'insegnamento della lingua "europea" come materia obbligatoria nella scuola dell'obbligo.

Già fin d'ora le istituzioni comunitarie potrebbero incoraggiare gli studi preparatori per la "Commissione di revisione", di cui al punto E-a; anzi dovrebbero, come sostiene Chiti-Batelli, se esse dessero davvero attuazione alle loro molte dichiarazioni d'intenti in campo culturale e linguistico, per realizzare le quali hanno addirittura istituito, o si apprestano a istituire, appositi enti — come la Fondazione europea della cultura o, nell'ambito del Consiglio d'Europa, il già da vari anni esistente Consiglio della cooperazione culturale europea — che rischiano altrimenti, afferma ancora Chiti-Batelli, di restar anch'essi "enti inutili".

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1 Sulle caratteristiche dell'Esperanto si veda il saggio di Claude Piron, in questo stesso volume; sulla sua diffusione attuale e sulle sue applicazioni si veda il contributo di Renato Corsetti, che conclude il volume.

2 II Fundamento de Esperanto, sanzionato dal primo congresso universale di Esperanto a Boulogne-sur-Mer nel 1905 come base intangibile della lingua, è costituito dalla prima grammatica in sedici regole, dall'Universala Vortaro (Vocabolario Universale, nelle lingue francese, inglese, russa e polacca) e dall'Ekzercaro (raccolta di esercizi).Insieme ad esso viene considerata come "testo basilare" anche la Fondamenta Krestomatio (Crestomazia fondamentale), curata da Zamenhof stesso ed edita per la prima volta nel 1903, che raccoglie numerosi scritti, originali in Esperanto oppure tradotti da varie lingue, di Zamenhof o di altri autori dei primi anni della lingua, ma comunque con l'approvazione di Zamenhof. Scopo della Fundamenta Krestomatio era fornire un modello di stile e salvaguardare l'unità della lingua.