Permettetemi di cominciare con una esperienza personale. Tro­vandomi anni fa (nel 1976 se non erro) a Budapest. su invito del simpatico Prof. Szerdahély, titolare della cattedra di Esperanto presso quella università (sì, esistono anche cattedre di Esperanto in qualche università), per una piccola conferenza internazionale sul problema della lingua universale, ebbi una interessante discussione con un giovane esperantista giapponese, il sig. Hukaya Sitosi, che vive in Ungheria e parla (diversamente da me) l’ungherese come la propria lingua, e che si era laureato in Esperanto proprio col Prof. Szerdahély. In seguito, influenzato da teorie linguistiche, soprattut­to dall’articolo «Model and Hypothesis [or Language Structure» di Victor H. Yngve (vedi «Proceedings of the American Philosophical Society, 104, 5, Oct. 1960, pp. 444-466), si era fatto «nemico» dell’Esperanto, almeno come lingua pianificata internazionale, e sosteneva che per lui, parlando il giapponese, lingua di una determinata struttura, l’ungherese era più simile alla sua lingua materna e più regolare e facile dell’Esperanto. Non sto qui a riprodurre la discussione che avemmo, forse troppo tecnica. Ma essa si svolse, dato che io non conoscevo affatto né il giapponese né l’ungherese, in Esperanto, che il Hukaya parlava correntissimamen­te e correttissimamente (senz’altro meglio di me!) e si svolse fra persone (io e lui) che conoscevamo ambedue quello di cui parlava­mo.

 Qualche giorno fa mi occorse di accennare all’Esperanto a un noto scrittore romano, mio amico. Mi disse che egli era contrario all‘Esperanto, anzi sembrava lo fosse in modo feroce. Poche parole mi convinsero che — come egli stesso del resto mi disse — dell’Espe­ranto non sapesse assolutamente nulla.

L’Esperanto è dunque uno dei pochi soggetti dei quali chi vi si oppone (e, ahimé, talora anche chi lo favorisce...) può anche non saperne assolutamente nulla. E’ come chi, senza avere mai mangiato un «durian» malese, discutesse se il suo sapore è o non è buono; o se fa bene alla salute. Eppure è quello che capita giornalmente anche in ambienti colti, anzi coltissimi.


Il principale equivoco di chi, non esperantista, parla dell’esperan­to, è quello di considerarlo una lingua-progetto fatta a tavolino e restata lingua da tavolino, in fase quasi ancora sperimentale. Persino dotti miei colleghi universitari rimangono a bocca aperta quando dico loro che esiste una amplissima letteratura in Esperanto, sia di traduzioni (e quasi non credono ai loro orecchi quando sentono che c’è tradotto in Esperanto il Corano, la Divina Commedia, Omar Khayyàm, antologie di poesie lituane, bulgare, estoni e simili a non finire, una enciclopedia della cultura giapponese, una bella rivista illustrata cinese, testi vietnamiti di etnologia ecc.); non solo, ma dopo i primi esperimenti un po’ goffi e romanticoidi di un Grabowski, dello stesso Zamenhof e di altri, c’è una bella letteratura poetica originale (basti pensare alla «Infana Raso» di Auld), una poesia comica da cabaret (Schwartz) e romanzi originali, come quelli avveniristici alla Defoe di S.Szathmary, e non cito che qualche nome venutomi in mente a caso. E si tratta di testi che hanno spesso una loro ideologia (si pensi al «Vojaĝo al Kazoĥinio» di Szathmary) di tipo «utopistico-universalista », appunto tipicamente «esperanti­stica»...

L’Esperanto è insomma una lingua che funziona. Come diceva uno dei suoi più aspri avversari, il famoso linguista francese Meillet:. «sarà una sciocchezza, un’assurdità, ma bisogna ammettere che l’Esperanto ha funzionato.... ». Con chi neghi questi fatti, come con chi neghi simili altri fatti in qualsiasi campo, è inutile discutere, non si può che invitarli a provare di persona, come quelli che invitavano i renitenti aristotelici e tolemaici del ‘600 a guardare nel cannocchiale di Galilei, e ciò malgrado il loro rifiuto teonco...

Ma anche una volta ammesso il fatto che l’Esperanto è ormai una lingua funzionante, le obiezioni di superare sono ancora molte. Quelle da parte degli strutturalisti e degli strumentalisti sono di genere pratico. Pur ammettendo la possibilità di una lingua costruita, essi ritengono che ce ne potrebbero essere altre migliori dell’Esperanto. In che senso, intanto, l’Esperanto è una buona incorporazione delle idee centrali dello strutturalismo linguistico? In un interessante articolo in portoghese dal titolo «Caracteristicas estruturais do Esperanto» il linguista brasiliano R. P. Nogueira dell’Università del Cearà scriveva nel vol. 2 n. 4 (1970), pp. 45-50, dell’autorevole rivista interlinguistica «La monda lingvo-problerno» (il problema linguistico mondiale), a proposito della generalizzazio­ne, operata da Zamenhof nell’Esperanto, dei correlativi delle lingue indoeuropee: «Zamenhof ricostruì artificialmente questa realtà e la portò alle sue ultime conseguenze: la serie combinatoria di 5 x 9 possibilità». E cita Barthes: «L’uomo strutturale prende la realtà, la decompone e poi la ricompone». Insomma — aggiungo io — è come l’artista di Schopenhauer che dice alla Natura, mettendole innanzi il aggiunge cne le correnti strutturaliste sono artiticialiste, perché «concepiscono [a lingua come un artefatto culturale qualsia­si, che, pertanto, è essenzialmente simulabile». E conclude: «L’E­speranto è il prodotto di una mimesis creativa che, simulando la struttura delle lingue naturali, porta alla comprensione più profon­da dei fenomeni linguistici e facilita mirabilmente l’atto della comunicazione. In questo senso si può affermare che l’Esperanto sta alle lingue naturali come la televisione sta ai mezzi convenzionàli di comunicazione». «Tutte le lingue sono mezzi di comunicazione di massa», afferma Edmund Carpenter, «L’Esperanto, fra questi mass media è l’equivalente linguistico del cinema, della radio e della televisione. Il significato di questo evento, cioè la tecnificazione della lingua, nella storia della razza umana deve essere ancora valutato e approfondito in tutta la sua estensione».

Poste così, strutturalisticamente, le cose, è ovvio che l’Esperanto non e più possibile considerarlo un assoluto, bensì è perfezionabile. E allora, ammessa la libertà di critica, nascono progetti e contropro­getti a non finire.

Come ebbi occasione di dire in una conferenza all’Università di Verona vari anni fa, si potrebbe, per esempio, pensare, contro tutte le controobiezioni di valenti esperantologi, (si veda proprio, per es., sulla rivista «Esperantologio» I, 1 Ag. 1949, l’articolo di G. Warin­ghien, «La akuzativo en Esperanto, el teoria kaj interlingvistika vidpunkto», pp. 33 e segg.) che ad esprimere una frase come «noi vediamo molti grandi palazzi e un bel giardino» l’espressione malese «kita lihat banyak bangunan besar dan sebuah taman chantek» (cioè esperantizzando artificiosamente nello stesso ordine: ni vid mult palac grand kaj unu garden bel), comprensibilissima senza equivoci malgrado l’assenza di morfemi a indicare il plurale, l’accusativo e l’articolo definito, possa sembrare pesante e inutile, se esperantizza­ta ortodossamente come segue: «ni vidas multajn grandain palacojn kaj belan gardenon». Le controobiezioni esperantiste, anche se talvolta piuttosto valide (vanno nello stesso senso di quelle di certi difensori del latino: maggiore libertà della frase con l’uso dell’accu­sativo: «Petro amas Paulon ma anche «Paulon amas Petro» ecc.), sono però tutte soverchiate da una controobiezione, con buona pace degli strutturalisti, proprio di carattere storico-volontaristico: se si accettano e si moltiplicano le proposte e le controproposte, si finisce nel vicolo cieco dell’anarchia linguistica e la lingua diventa un quid del tutto astratto e allora veramente artificiale. Ma c’è l’artista creatore. Va infatti considerata la interessante frase dell’articolo sopra menzionato del pur strutturalista Nogueira «Zamenho[ rico­struì artificialmente questa realtà e la portò alle sue ultime conseguen­ze»: la presenza, dunque, di un elemento artificiale, artistico (artistico e artificiale, künstlich e künstlerich sono imparentati non per nulla!)... Si spiega quella apparente contraddizione fra storicismo/artisticismo/espressione da una parte e pianificazione! comunicazione dall’altra, di cui parlavo all’inizio. Si voglia o no, l’Esperanto è frutto di volontà creante, artistica. Come scrivevo nella prefazione all’edizione italiana del mio libretto «Le lingue inventate» (Roma, 1974, p. 8), dove mettevo sullo stesso piano — forse con un po’ di scandalo di strutturalisti e di esperantisti — Esperanto, e altre lingue inventate a scopi di ampia intercomunicazione, e lingue di genialoidi, di bambini, di pazzi, «.. il linguaggio non si esaurisce nella comunicazione, come è di gran moda dire oggi, e... — se anche i vecchi idealisti che lo riducevano tutto a espressione, come Croce, avevano torto — l’elemento espressivo puro, ludico anche, (e ora aggiungerei arbitrario-volontaristico) non è affatto un aspetto cenerentola del linguaggio. Parlando ancora per paradossi, sono convinto che, se anche sulla terra ci fosse stato un solo uomo, egli, se uomo, non poteva far altro che parlare, per puro gioco».

Ecco appunto dove le mie tendenze storicistico-arbitraristico­espressivistiche si riconnettono al mio esperantismo: a mio parere le critiche di tendenza strutturalistica possono essere superate solo in questo modo. Che poi, espresso in una forma brutale e volgare (che, sia ben chiaro, non accetto...) era così riassunto in una frase che lessi con mio stupore in un opuscoletto ciclostilato di esperantisti marxisti extraparlamentari e piuttosto violenti: «Con i nemici dell’Esperanto non si discute: gli si rompe il grugno!».

È in fondo un portare all’estremo la tesi crociana che
Solo che l’artista creatore, di tipo Zamenhof, crea anche per gli altri e s’inserisce strutturalisticamente in una non del tutto arbitraria realtà (v. Nogueira...).

Ma ora affrontiamo un altro tipo, forse più sottile, di critica. Quello proprio degli storicisti. C’è cioè chi si rifiuta di considerare la lingua come un astratto strumento fungibile e intercambiabile e accusa gli esperantisti di far proprio questo. Critiche in questo senso se ne trovano a iosa in molti scritti di linguisti, ma preferisco utilizzare le espressioni usate, non per criticare l’Esperanto (che allora nemmeno esisteva), ma nientemeno che certe tendenze prescrittive e strumentalistiche della lingua di Alessandro Manzoni, pubblicate nel «Crepuscolo, del 1851 da C. Tenca (cfr. Dondoli,-op. cit., p. 9): «... La lingua non può essere considerata come un semplice strumento che si possa assumere dove più convenga, ma bensì come il deposito delle idee, delle tradizioni, della storia e del carattere di tutto il popolo. La lingua è per noi il più prezioso monumento nazionale, un monumento che sfugge alle ingiurie del tempo, così come all’ira delle vicende civili. E in essa che noi troviamo le tracce più sicure del nostro passato, le reliquie delle lingue perdute, le influenze degli altri popoli, i costumi, i luoghi, il consenso universale dei pensieri e della vita».

Ho preso a bella posta un autore del 1851 per mostrare che le critiche allo «strumentalismo» linguistico sono molto antiche e ben radicate. E, del resto, abbastanza fondate anche, direi. Solo che c’è un punto importante da considerare. Ed è questo. Lo storicismo finora non si è posto storicamente il problema dell’origine stessa della storia. Siamo ancora a uno storicismo romantico (e qui è il lato importante della critica demàrtiniana, storicistica, allo storicismo romantico tipo Croce), filologico, che idoleggia il passato. Si potrebbe rispondere al Tenca, o meglio ai moderni critici storicisti dell’Esperanto:
Quando nelle riunioni internazionali degli esperantisti, l’esperan­tista cinese racconta nella «sua» lingua (anche se è lingua usata tèmporaneamente) una barzelletta «esperantista» al samideano («persona che condivide le sue stesse idee») francese o turco, il quale ride e la gusta come facente parte della propria storia, si è già iniziato ed è in fase avanzata questo processo di formazione di una coscienza/tradizione sovranazionale, che è il miglior dono che la Esperantistaro può fare a chi ancora non comprenda la realtà concreta, storica, di questa sovranazione.

Ma qui parliamo di una lingua per l’Europa. Una volta ammessi questi caratteri dell’Esperanto, cui ho sopra accennato, mi sembra evidente che, esistendo nella concretezza una simile lingua, essa sia la più adatta anche a quella realtà iniziale, prefigurante l’unità mondiale, che può essere la Federazione Europea, essa, dico, anziché una qualsiasi delle lingue nazionali europee o l’ormai absoleto latino, o un «latino sine flexione» o altre lingue pianificate, che io posso apprezzare molto, ma che hanno l’unico difetto storico e concreto di non avere quasi null’altro di pubblicato che qualche trattato scientifico o navellette, il che ne fa lingue puramente tecnico-ausiliari, mai di fatto usate come lingua viva. Perché non usare allora quell’Esperanto, che è già lingua socialmente parlata da un popolo (o meglio un sovrapopolo), l’Esperantistaro?

E qui mi si permetta anche di criticare una posizione frequente fra chi non si intenda molto di lingue, cioè quella che si possa andare avanti anche con un pluralismo linguistico, tanto — si dice —esistono i traduttori, esistono’ mezzi tecnici moderni altamente sofisticati, come la traduzione simultanea, e persino forse macchine traduttrici (cui non credo...). Prescindendo dalle spese enormi che tutto questo implicherebbe e dal fatto — importante, anche se poco conosciuto — che si finirebbe col dare un’importanza sociale primaria alla categoria dei traduttori, che avrebbero in mano tutta la vita organizzata della comunità (si pensi alla importanza che, durante l’occupazione tedesca, avevano i pochi e ambitissimi « interpreti » di tedesco, che finivano per spadroneggiare in bene o in male su chi non sapeva la lingua...), molti sembrano avere della «traduzione» un’idea meccanica, quasi che — e qui sta il vero antistoricismo — fosse possibile con facili trasposizioni lessicali trasportare il pensiero di una lingua in un’altra con poco sforzo... Spesso tradurre significa invece (e avevano qui ragione Croce e gli storicisti) «rifare» un discorso o una poesia in un’altra lingua. Per tradurre bene, veramente bene, un’arringa politica o giudiziaria, non ci vuole un traduttore, ma un perfetto bilingue che sia anche un perfetto politico e giurista! Può negarlo solo chi non abbia avuto alcuna vera esperienza di traduzione. Ora invece esiste una lingua, in cui questo sforzo può’ essere fatto in una sola direzione e che ha moltissimo di già tradotto dalle più diverse lingue europee, e non solo dalle principali. Perché non scegliere quella? La quale, fra l’altro, avrebbe il gran pregio che nessuna lingua naturale adottata come ausiliaria potrebbe avere, quello cioè di preservare le lingue più deboli dalla scomparsa. Ma non solo. Essendo una lingua che sta creando ora le proprie tradizioni e i propri stili, si presta ad esperimenti di stile interpretativo inimmaginabili in altre lingue, già fatalmente storicizzate a senso unico.

Concludendo, e scusatemi se sono un po' duro, mi sembra semplicemente che il rifiuto dell'Esperanto sia basato solo su due semplici
fenomeni, del resto umani, troppo umani, "ignoranza" da una parte e "pregiudizio" dall'altra. E può essere interessante che chi afferma questo non è un esperantista ufficiale e si dichiara pronto, se gli si offre uno strumento migliore, ad accettarlo con semplicità e senza fanatici rimpianti.